martedì 18 dicembre 2012

BREVIARIO DEL CAOS (parte quinta)



BREVIARIO DEL CAOS
(parte quinta)


Per un paese che fa la Storia, ce ne sono più di venti che la subiscono, e in questi venti ogni partito, quale che sia, è il partito dello Straniero, si proclamasse pure nazionalista. Le nazioni che non fanno più la Storia non comprendono ciò che sta accadendo loro, il caos è il loro destino, le loro glorie non glielo evitano, così come le loro virtù non le premuniranno dal piombare in quello stupore che è la loro sorte. Le poche nazioni rimaste indipendenti si accollano il futuro del mondo, potevano molto un tempo, potranno sempre meno. Il ruolo della fatalità si accentua e lo stupore è l'ombra che essa getta: un giorno la loro sorte sarà la stessa della maggioranza dei popoli, la loro forza non servirà a nulla, il loro privilegio sarà soltanto immaginario, la Storia, insomma, diventerà la passione di tutti. Quanti anni ci vorranno, fra quanto tempo saremo ridotti immancabilmente all'impotenza, i primi in testa? Allora il peggio sarà assicurato, e anche se salveremo le apparenze dell'ordine andremo egualmente al caos, accecati dalla buona fede, sempre più dispotica, e confortati da una tradizione sempre più assurda.

Il Nazionalismo è un morbo universale, da cui si guarirà con la morte dei frenetici, non possiamo durare in un mondo sempre più angusto con idee così dannose, quindi dovremo perire. Lo storico di domani dirà che la natura si è vendicata dei popoli comunicando loro un senso di vertigine e che il Nazionalismo è una frenesia simile a quella che si impossessa delle società animali divenute troppo numerose. Siamo troppo numerosi e vogliamo morire, ci serve un pretesto nobile ed eccolo trovato, è l'accordo, il più perfetto che ci sia, tra possesso e alienazione, esso ci permette di stimarci moltiplicando all'occorrenza gli atti più spregevoli, ci inebria di noi votandoci al sacrificio, ci rende candidamente mostruosi, autorizza le nostre virtù a fregiarsi dell'attributo di tutti i vizi e - quel che è meglio - sceglierà per noi ciò che desideriamo e non osiamo scegliere. Siamo perduti senza scampo, il morbo non risparmia più nessuna nazione, e tutti i paesi si assomigliano perfino in quella specie di furore che li contrappone e li aizza a scannarsi l'un l'altro.

Poiché nessuna nazione vuol dimenticare ciò che essa chiama la sua storia, e che il più delle volte non ha nulla da spartire con la Storia, bisognerà che un giorno tutte vi rinuncino. L'ultimo vincitore disarmerà lo spazio e il tempo, confischerà i mezzi e le idee, le pretese e i ricordi, le forme e i contenuti, si dichiarerà unico legatario di cinquanta secoli, dimostrerà che lui è la ragione d'essere della specie umana e che il dovere di cento popoli è quello di abdicare, egli ne sterminerà alcuni, deporterà la maggior parte degli altri e dappertutto si vedrà una miriade di uomini dei quali sarà lui l'unico padrone. Giacché la semplicità è inconcepibile a un prezzo minore, e nonostante il pullulare delle differenze che si scatenano sotto i nostri occhi il futuro è della semplicità, noi andiamo di disordine in disordine all'ordine ultimo e di carneficina in carneficina al disarmo morale, pochi salveranno e pochi saranno salvati, frattanto la massa di perdizione si eclisserà, portandosi nell'abisso i problemi insolubili. Il Nazionalismo è l'arte di consolare la massa del fatto di essere solo massa e di presentarle lo specchio di Narciso: il nostro futuro infrangerà quello specchio.

Il compiacimento ha bisogno di spazio, e lo spazio è quello che più mancherà al mondo, stiamo entrando in un mondo angusto, non lo abbiamo ancora capito, dobbiamo rinunciare ai ricordi, quando ci inorgogliscono, e alle illusioni, quando occupano troppo posto. E' da supporre che le nazioni non lo faranno spontaneamente, tale rifiuto è presagio di innumerevoli orrori, l'ultimo vincitore non avrà più giudici sopra di lui, e se in un solo giorno sterminasse un miliardo di esseri umani nessuno glielo rimprovererebbe. Giungere a un accordo sui partiti da prendere non serve al futuro, il futuro taglierà corto, i suoi attributi saranno la violenza e la semplicità, noi fingiamo di non accorgercene, i nostri filosofi gareggiano nel computo dei miracoli e mai si sono ritratti così bene davanti alla concatenazione più logica e di fronte ai corollari più rigorosi. La paura delle parole aumenta, e questo prova che attribuiamo loro un potere che smentiamo giorno per giorno nella gestione delle cose, abbiamo in spregio là loro accezione e ne distorciamo il senso, salvo poi tremale dinanzi alle ragioni chiare e distinte.

Siamo diventati frivoli e la frivolezza non è di buon auspicio, i nostri giudizi risentono della paura che ci divora e che neghiamo, forse in mancanza di altre risorse. I nostri padri a volte si permettevano di apparire tragici, ma era perché non vivevano come noi nell'ombra della morte, parlavano della fine del mondo sentendo in cuor loro che molte generazioni li separavano da un finale che noi sappiamo essere vicino. I nostri padri immaginavano ciò che invece a noi è concesso vedere, la loro ipotesi é ormai la nostra tesi, essi potevano scegliere tra morire e vivere, mentre noi stiamo già sopravvivendo. Da un momento all'altro quell'evento, verso il quale la Storia sta andando da oltre cinquemila anni, da un momento all'altro potrebbe iniziare a verificarsi scagliandoci fuori da ogni evidenza, da un momento all'altro sarebbe la fine della nostra identità, il crepuscolo in pieno giorno, il chiudersi della parentesi e la confusione dei tempi che urtano contro l'intemporale e all'improvviso si spaccano. Proprio perché la morte incombe noi ci premuriamo di esorcizzare la nostra evidenza, i nostri padri ne cercavano soltanto la promessa e ne trovavano soltanto i presagi.

La voce profonda che percepiscono tutti coloro che non sono sordi ci mette in guardia su quanto ci attende, sappiamo che il male è senza rimedio e che credere nel miracolo è un'empietà, sappiamo che non risaliremo la china e che saremo lieti di discenderla pei ragioni in apparenza plausibili, sappiamo che stiamo per scoppiare da un polo all'altro e perire nell'incendio che ci preparano le nostre idee al pari dei nostri mezzi. Presto il caos sarà il nostro denominatore comune, lo portiamo in noi e lo troveremo simultaneamente in mille luoghi, dappertutto il caos sarà il futuro dell'ordine, l'ordine già non ha più senso, non è più altro che un meccanismo vuoto e noi ci logoriamo nel perpetuarlo perché ci voti all'irreparabile. Innalziamo un tempio alla Fatalità, lo onoriamo di sacrifici e non è lontano il momento in cui offriremo noi stessi, il mondo è pieno di gente che sogna di morire, trascinando gli altri nella morte. Sembrerebbe quasi che gli uomini in soprannumero distillassero un veleno che si spande sull'universo e rende l'ecumene inabitabile. Perciò l'Inferno, lungi dall'essere il nulla, è la presenza.

Lo scotto della morale e della fede è la presenza umana moltiplicata all'infinito e divenuta l'Inferno dell'uomo. Questo ci dimostra altresì che la morale non vale niente e che la fede non è divina, entrambe sono al servizio dei nostri padroni, e noi non abbiamo peggiori nemici di coloro che ci dominano. Ai padroni occorrono schiavi, più numerosi sono gli schiavi e più i padroni si arricchiscono, ogni mezzo è buono purché le donne siano feconde e nascano bambini, lo spopolamento sarebbe la loro rovina, preferiscono che l'universo scoppi, l'arrestarsi del movimento - che salverebbe il mondo - avrebbe luogo a loro danno. Noi quaggiù siamo vittime dei nostri aguzzini, e quando crediamo di obbedire a Dio, obbediamo a uomini, uomini che ci portano al caos e non ci preservano dalla morte, uomini ignoranti, uomini impotenti, ma che ci incutono rispetto, in nome delle tradizioni che ci impongono. Giacché le nostre autorità non sanno niente, non possono niente, non valgono niente, non ci risparmiano niente, e non sanno far altro che cullarci nelle fandonie, al solo scopo di conservare i privilegi acquisiti e di perpetuare il proprio dominio.

Le nostre sedicenti autorità religiose e morali non servono che a disarmarci di fronte alla nostra evidenza, si oppongono all'ingegno dei nostri mezzi perché esso le renderebbe sorpassate, non vogliono farci uscire di tutela, non pensano che a perpetuale gli errori che le accreditano, ci predicano la sottomissione e la confusione, ormai la loro opera non fa che accrescere le sventure del mondo. Se moriremo nell'ignominia, la colpa sarà loro, giacché ci tradiscono come respirano, sono per noi palle al piede che scambiamo per fondamenti che ci sostengono, immolarle ci avrebbe resi liberi, e non abbiamo osalo troncare con loro al momento propizio. Sicché la fedeltà ci danna e l'obbedienza ci condanna, è troppo tardi e non ripareremo a nulla, non scanseremo più la catastrofe, e la nostra massima consolazione, al momento di morire, sarà di veder morire sotto i nostri piedi coloro che ci trascinano nel precipizio e che calpesteremo soccombendo, per estinguete ad un tempo il loro ricordo e il loro seme. Non vi saranno che vittime, domani, e questa è la giustizia della Storia.

Le nostre religioni sono i cancri della specie e non ne guariremo che da morti, moriremo perché le nostre religioni periscano, la catastrofe inghiottirà i preti insieme con i loro fedeli, i resti dell'umanità sopravvissuti in mezzo alle rovine si accaniranno sulle pietre rimaste. Rido al vedete le nazioni mantenere e restaurare gli edifici da cui ebbe origine la loro morte spirituale, in tempi nei quali si dovrebbe ripensare l'universo; rido al vedere cento popoli divenire conservatori delle loro antichità immaginarie o reali, in balia della prossima catastrofe; rido al veder contendere al nulla i templi da cui il nulla trae la propria sopravvivenza, e dichiaro che tutto morirà, gli uomini al pari delle pietre, le pietre al pari degli uomini. Domani la morte celebrerà le sue nozze con il caos, e noi stiamo già adornando le loro tavole, è per la loro festa che sgobbiamo, i nostri edifici sono le testimonianze che appariranno in mezzo alla carne dei popoli immolati, tagliati a fette, bolliti e arrostiti, il cui cuore palpiterà d'amore dinanzi alle cortesie della Provvidenza, e che contempleranno, nell'ora dell'agonia, il vuoto che credevano divino.

Fino a oggi, di solito il vuoto si trasformava, poiché gli dèi prendevano il suo posto. Ora, per la prima volta gii dèi non nascono più dal vuoto, il vuoto resta cinti che è, gli uomini lo contempleranno nella sua integrità, tutto il mondo assumerà i suoi tratti e ciò che se ne differenzia andrà svanendo perché rimanga solamente il vuoto. E l'ora della purezza, dobbiamo rallegrarcene, non vi perderemo che la nostra Storia e tutto quanto a essa si richiama, le nostre religioni ispirate e i nostri pretesi imperativi eterni, che invece non sono mai stati altro che storici. Da perdere non abbiamo che la Storia e tutto quanto alla Storia si riallaccia, preferiamo il vuoto e plaudiamo alla sua venuta, esso è la letizia che ci illumina nell'ora della nostra morte. Sicché approviamo l'irreparabile, nostro vendicatore supremo, il clamore di agonia delle nazioni è la musica dei nostri funerali, l'ordine e i suoi difensori si disgregano sotto i nostri occhi, e noi li chiuderemo quando essi saranno in cenere, moriremo i più consolati fra gli uomini, perché siamo stati i soli a rinunciare alle opere di menzogna di cui i fedeli si pascono.

Siamo puniti per non aver bruciato ciò che adoravamo, ma i nostri discendenti, dopo la catastrofe, adoreranno tutto ciò che abbiamo bruciato. E noi sembreremo allora pazzi pericolosi, i nostri dèi altrettanti mostri, i nostri dogmi orrori e i nostri imperativi incubi, si domanderanno se non fossimo dei posseduti e avranno ragione, giacché bisogna essere posseduti per strisciare davanti a ciò che noi divinizziamo. La malattia e la menzogna informano i nostri misteri e l'intreccio delle nostre leggende sembra un delirio, ma non usciremo che folgorati da questo letamaio spirituale, fatto a immagine dei nostri fiumi inquinati, siamo divenuti impuri a forza di nitrire dietro la purezza, abbiamo ripristinato il sacrificio umano, e tale è il nostro smarrimento che non comprendiamo le nostre azioni. Che cosa può capitarci di peggio, ormai, che restare quali siamo? E il nulla stesso è poi la giusta pena per le nostre» colpe? O non ci meritiamo doppiamente quella morte che non basta a estinguerle? Il vuoto è buono, il vuoto è santo, e coloro che vorrebbero fosse consustanziale al male desiderano perpetuare il male ed essere perpetuati dal male in feria.

Un mondo che fosse rimasto pagano non avrebbe violentato la natura, i Paganesimi la consideravano divina, di norma adoravano alberi e sorgenti; anziché sul tempo, posto dalle religioni cosiddette rivelate al centro dei loro dogmi, i Paganesimi ruotavano sullo spazio e, salvo eccezioni, preferivano la misura alla trascendenza e l'armonia a ogni altra cosa. Le religioni sedicenti rivelate hanno instaurato fra noi il fanatismo, e quella cristiana, che lo ha spinto all'estremo, ha divinizzato la Follia, glorificato l'incoerenza e legittimato il disordine, in nome di un maggior bene. Finché queste tesi spaventose non disposero che di mezzi senza portata, gli uomini le accettarono, ma da quando le nostre opere sono in sintonia con esse, avvertiamo l'enormità dei nostri imperativi e, ancor più, la loro demenza. L'idea dell'incarnazione è la più mostruosa, e il futuro vi cercherà la causa efficiente dei nostri paradossi insolubili, uno dei suoi effetti è lo stupro della natura, al quale la trascendenza ci prepara e che l'odio per il mondo legittima: non si deve mai dimenticare che per i Cristiani Mondo, Carne e Diavolo formano un'Antitrinità.

Che cosa importa se i Cristiani alla moda rifiutano di sottoscrivere le tesi che enuncio e se, i teologi per primi, cercano di sottrarsi alle loro conseguenze! Non faranno che accrescere il disordine, e nel labirinto dei loro paradossi si smarriranno ancor a di più, volendo riparare all'irreparabile. I.'irreparabile è cosa fatta, lo spirito dì dismisura, che fu quello della Chiesa, è ora quello del mondo, la verticalità dei dogmi è completamente esplosa in tutti i sensi, e comunicandosi allo spazio altera le sue dimensioni. Qualche tempo fa vi furono pensatori che si compiacquero di tale sconvolgimento, ve ne furono anche tra gli ecclesiastici, che glorificarono lo stupro dell'ecumene nella speranza di una spiritualità nuova. E invece ci stiamo dirigendo verso l'animalità, finiremo per incappare nella disumanità, nonostante le omelie e nonostante le professioni di fede, sbagliamo a ritenerci peccatori, siamo soltanto automi spermatici: l'uomo non è e non è mai stato quello che la Chiesa ci insegna. Bisogna sia ridefinire l'uomo sia riconsiderare il mondo, ma ormai è troppo tardi anche solo per pensarci.

I nostri discendenti, dopo la catastrofe, ridotti a qualche infima porzione dell'umanità attuale, onoreranno le sorgenti e gii alberi, sposeranno la Terra con il Cielo, giudicheranno abominevole l'idea di sacrificio e sacrilega l'idea della trascendenza, ripristineranno tutto ciò che le religioni rivelate hanno abolito: la prostituzione sacra e la promiscuità rituale, il culto della generazione e l'adorazione dei suoi simboli, la ierogamia e i saturnali. Prenderanno l'uomo per quello che non ha cessato di essere e non per quello che dovrebbe essere, non ricadranno nelle illusioni del profetismo, rinunceranno a perfezionare un automa imperfettibile, capiranno che la spiritualità non è appannaggio della quantità e che l'errore sta nel comunicare uno stesso insegnamento a tutti, sulla falsariga delle religioni cosiddette rivelate. E meglio che la maggioranza resti idolatra e carnale, il male ha inizio quando la biasimiamo per questo e la costringiamo a mentirci mentendo a se stessa, è meglio che i semplici associno le divinità al piacere piuttosto che alla penitenza, e che l'orgasmo sia pei loro ciò che è la transustanziazione per i Cristiani.

Sono ormai secoli e millenni che sbagliamo rotta, e adesso dobbiamo pagare, il disincanto non basta a redimerci, e non è in nostro potere ritrovare il Paradiso che abbiamo perduto, prima di esaurire quanto l'Inferno ha di più caotico e di più tenebroso. Oggi siamo rimasti ancora talmente ciechi da nutrire un vero amore per coloro che persistono a fuorviarci, continueremo a perdonarli nonostante i loro crimini e i loro errori, aderiamo immancabilmente al loro insegnamento assurdo e marciamo sotto il loro bastone come se essi fossero pastori e noi spregevoli animali. Eppure ci condurranno al precipizio, questi uomini infallibili che noi reputiamo divini, da generazioni prendono abbagli e noi ci rifiutiamo di capirlo, sacrifichiamo loro i nostri interessi e perfino il nostro onore, presto immoleremo loro il nostro futuro, la Storia conosce poche follie così accese. I sopravvissuti dell'ultima catastrofe mediteranno sul nostro accecamento, vi vedranno l'annuncio della fine a cui siamo destinati, vi ravviseranno una logica di cui noi non sospettiamo la posta.

Dalla logica non usciamo, e in questo universo, a quanto pare sempre più assurdo, non ci domandiamo più se abbiamo meritato la sorte che non possiamo eludere, a questa sorte ci preparano le nostre tradizioni e ci votano le nostre idee, a essa ci riconsegna la nostra obbedienza dopo uno scatto di ribellione, a essa ci destinano le nostre abitudini dopo un'evasione senza domani. Sicché noi vogliamo ciò che vogliamo, nei limiti della nostra capacità di comprendere noi stessi, e vogliamo ciò che i nostri padroni vogliono, fosse pure in nostra vece. Non possiamo improvvisare, mentre il nostro interesse ce lo impone, e ci stringiamo, più risoluti, attorno a ciò che ci disgrega, non osiamo troncare con ciò che ci trascina, e ci illudiamo che il sacrificio faccia miracoli. Stavo per dire che ci sacrifichiamo? Le convenienze erano infallibili e a tempo e luogo non vi verremo meno, ci immoleremo per i nostri dèi morti e i nostri idoli tarlati, è un atto che ci fa sentire importanti, e non appena ci dissanguiamo per una causa le facciamo credito senza badare a ciò che nasconde.

L'ideale prende il posto dell'istinto e l'impulso a morire innumerevoli che afferra pesci e insetti, roditori e ruminanti, s'impadronirà di noi attraverso l'ideale, incaricato di imbrogliarci. Proprio quando ci sentiamo più degni di stima e più disinteressati, proprio quando smaniamo per ciò che ci trascina e facciamo sogni di immortalità, proprio allora ci spogliamo di quanto ci rendeva umani e discendiamo la china. L appunto questo il tragico della faccenda e la suprema abiezione - che ci attende da un giorno all'altro -, non sfuggiamo alle leggi generali, e queste leggi a loro volta rimandano a quelle che reggono le società animali, troveremo la chiave dei nostri comportamenti negli abissi sotto i nostri piedi, mai sopra le nostre teste. L'ideale è il riflesso dell'istinto, dovesse pure sembrare il suo opposto, la sua forza sta nell'ignominia della sua genesi come nel piacere che proviamo ad abbandonarci alle nostre inclinazioni dietro nobili pretesti, noi chiediamo all'ideale di infiorare l'orgasmo e di coprire la prostrazione che gli fa seguito. L'uomo gode per qualsiasi cosa e perfino nel consegnarsi al rogo.

Siamo condannati, e quelli di noi che lo sanno non possono più farsi ascoltare, e anche se potessero, preferirebbero mantenere il silenzio. A che serve ormai predicare ai sordi e disilludere i ciechi? Forse che impediremo loro di perseverare nel movimento che li travolge? Stiamo andando dritti al futuro più orribile, che comincerà dall'oggi al domani, ci ritroveremo in esso senza nemmeno capire quel che ci accade, non ci resterà che morire disperati nell'universo inabitabile. Gli uomini si facevano guerra per il possesso del suolo, domani si ammazzeranno fra loro pei accaparrarsi l'acqua, e quando verrà a mancarci l'aria, ci scanneremo per respirare in mezzo alle rovine. Noi aspettiamo che la scienza faccia miracoli e presto ne esigeremo l'impossibile, ma essa è superata dalle nostre necessità e mai più sarà in grado di soddisfarle, siamo in molti miliardi di troppo a chiedere il Paradiso in Terra, ed è l'Inferno quello che rendiamo inevitabile, con l'aiuto della nostra scienza, sotto il bastone dei nostri pastori imbecilli. II futuro dirà che gli unici chiaroveggenti erano gli Anarchici e i Nichilisti.

Fu quando l'uomo stava per raggiungere la felicità e intravedeva un futuro senza malattie e senza miseria, senza lavoro ingrato né terrore, giusto agli albori di questo secolo, fu allora che avvenne l'irreparabile e ritornarono le forze del passato, più trionfanti che mai, portate dalla fiumana degli uomini in soprannumero. Sono bastate due generazioni perché la popolazione dell'universo raddoppiasse, ne sono bastate tre perché triplicasse, crescerà di sette volte durante la quarta e le nostre autorità religiose e morali, colle alla sprovvista, non hanno saputo che divagare e cercare di guadagnar tempo, ingarbugliando l'enunciato dei nostri problemi: questa colpa non sarà mai loro perdonata, esse saranno colpevoli di fronte all'avvenire, hanno preferito il proprio dominio alla felicità della specie umana, e quando potevano disilludere le nazioni e comunicare loro l'ingegno dei nostri mezzi, non sono servile che a fuorviarle di più e a disarmarle in modo così miserevole che niente eguaglia ormai la nostra impotenza. Perciò gli Anarchici e i Nichilisti hanno ragione, hanno ragione a respingere l'ordine cosiddetto morale, l'ordine per il caos in nome della morale.

Ci occorre una Rivelazione nuova e che proclami il superamento di quelle che osserviamo, ma quelle che osserviamo sono in vigore, il loro peso di morte si unisce alla Fatalità, che ci annienta, ordine e caos formano un tutto che non riusciamo a infrangere. Gli Anarchici e i Nichilisti sono gli ultimi uomini ragionevoli e sensibili fra i sordi, che marciano, e i ciechi, che militano, ma non basta aver ragione nel secolo attuale, né basta essere sensibili per cambiare qualcosa, bisogna sostituire l'ordine con un ordine e non con un disordine, e la morale con una morale, non con l'immoralità, e cosi la fede con una fede, non semplicemente con un vuoto, e gii dèi morti con le divinità nascenti. Non abbiamo bisogno di agitatori, abbiamo bisogno di profeti, abbiamo bisogno di genii religiosi adatti ai nostro tempo, alle nostre opere, perché tutti quelli di cui veneriamo la memoria, nessuno escluso, sono superati, sono tutti superati, e coloro che vi si appellano li tradiscono. Nessuna tradizione ci protegge dal futuro, perché il futuro non ha precedenti e l'universo non ha più ripari.

Poiché gli uomini, per la maggior parte, non sono usciti dall'infanzia, hanno bisogno di una Rivelazione per ogni minimo atto della vita, sono gli dèi, in ultima analisi, che devono esortarli a non essere fecondi, se la fecondità minaccia la sopravvivenza della nostra specie: né i poteri civili né le accademie piene di scienziati famosi avranno mai tutta l'autorità che solo gii dèi concentrano sopra di loro. Ora, i nostri dèi predicano o la continenza o la fecondità, noi non vogliamo saperne né dell'una né dell'altra, vogliamo che la carne abbia diritto al suo piacere in quanto tale e che il piacere diventi grato agli dèi quanto agli uomini, vogliamo che gli dèi siano associati al piacere e che gii uomini credano di onorarli quando godono. Ci occorre una Rivelazione nuova, e per un nuovo Paganesimo, un nuovo Paganesimo salverà gii uomini, che le religioni cosiddette rivelate fallirò smarrire nel labirinto dei loro paradossi ormai insostenibili, paradossi ormai illegittimi, paradossi ormai assurdi. E la fecondità, e non la fornicazione, a distruggere l'universo, è il dovere, e non il piacere.

Invece di aspettare che gli uomini diventino maggiorenni, e non sappiamo se si decideranno mai a esserlo; invece di cercare di illuminarli su problemi insolubili e su paradossi indefinibili, che né gli scienziati né i logorroici risolveranno e definiranno; invece di fare appello alla coscienza, che non hanno; invece di fare appello alla buona volontà, che è solo fanatismo; invece di fare appello alla buona fede, che è solo fanatismo; invece di fare appello alla buona lede, che è solo allucinazione approvata; invece di sperare nel miracolo, che è poi quello a cui in definitiva si riduce tutto quanto precede, bisogna agire come se tutto dovesse morire, bisogna prepararsi a sopravvivere alla catastrofe, bisogna pensare ai resti che sussisteranno nell'universo inabitabile, bisogna considerare la massa di perdizione irrimediabilmente perduta, e non ragionare più se non tenendo conto della sua transitorietà. Quello che affermo sembra disumano, ma disumano il secolo lo sarà sempre di più, e i sermoni non modificheranno questa sua peculiarità, gli uomini potranno pure assieparsi nei templi, ciò non toglie che i templi finiranno per crollate, e sulla testa dei fedeli, nell'ombra della morte comune. 

Albert Caraco

lunedì 17 dicembre 2012

CANTO FUNEBRE




«Laggiù è l'isola dei sepolcri, la silente; laggiù è pure il sepolcro della mia giovinezza. Là voglio portare una corona di semprevivi della vita».
Così risolvendo nel cuore, attraversai il mare.
Oh, visioni e imagini della mia giovinezza! Oh, voi tutti sguardi dell'amore, istanti divini! Come presto vi dileguaste! Io ripenso a voi, oggi, come ai miei morti.
Da voi, o morti diletti, mi giunge un dolce profumo, che mi scioglie il cuore e m'induce al pianto. In verità esso scuote e commuove il cuore del solitario navigante.
Ma ancora io sono, tra i ricchi, il più ricco, e il più degno di invidia, io, il più solitario! Poichè io ebbi voi e voi m'aveste ancora: ditemi, per chi, come per me, caddero dall'albero tante melagrane?
Io sono ancor sempre l'erede e il terreno fecondo del vostro amore, fiorente, in vostra memoria di virtù selvaggiamente rigoliose, o amatissimi!
Ah, noi eravamo creati per rimaner vicini l'uno all'altro, o deliziose e strane meraviglie; e voi non veniste incontro a me ed ai miei desideri timidi come timidi uccelli – ma pieni di fede in chi aveva fede!
Sì, creati per la fede e per l'eternità degli affetti, al pari di me: così devo chiamarvi anche dopo la vostra infedeltà, o sguardi e momenti divini: non imparai ancora altro nome.
In verità troppo presto moriste per me, o fuggitivi.
Eppure voi non fuggiste da me, nè io fuggii da voi: entrambi siamo colpevoli d'infedeltà.
Per uccidere me strozzarono voi, uccelli canori delle mie speranze! Sì, contro di voi, o dilettissimi, fu sempre rivolta la freccia della malvagità – per colpire il mio cuore!
Ed essa colpì! Poichè voi foste sempre ciò ch'io ebbi di più caro, ciò che possedevo e da cui ero posseduto per ciò doveste morir giovani e immaturi!
Si puntò la freccia contro quello che in me era più vulnerabile: eravate voi dalle piume morbide e delicate, simili ad un sorriso che un semplice sguardo può far morire!
Ma queste parole dirò ai miei nemici: che cos'è un omicidio, in confronto a ciò che mi faceste!
Cosa assai più rea, faceste a me, che non omicidio; voi mi toglieste ciò che non può ritornare: – così vi dico, o miei nemici!
Uccideste le visioni e i più cari prodigi della mia giovinezza!
Mi toglieste i compagni di gioco, gli spiriti benedetti!
In memoria di loro io depongo questa ghirlanda, e per vostra maledizione.
Questa sia la maledizione contro di voi, o nemici!
Non faceste voi forse fuggevole ciò che in me era eterno, come un suono che si spezzi in una gelida notte? A me ciò non parve durar più d'un divino battere d'occhi, – un istante!
Così disse in un'ora buona la mia purezza: «tutti gli esseri sono per me divini».
Allora m'assaliste con luridi fantasmi; ahimè dove fuggì quell'ora felice!
«Tutt'i giorni debbono essermi sacri» – così disse un giorno la saggezza della mia gioventù: in verità un parlare di saggezza gioconda!
Ma voi, nemici, mi rubaste allora le mie notti e le condannaste alla tormentosa insonnia: ah, dove fuggì mai quella gioconda saggezza?
Desiderai un tempo auspici lieti: voi poneste sul cammino un mostruoso gufo. Ah, dove fuggirono allora i miei teneri desideri?
Giurai un dì di sottrarmi ad ogni fastidio: e voi piagaste di ulceri putride tutti coloro che m'eran vicino. Ah, dove fuggì allora il mio giuramento più nobile?
Come un cieco andai un giorno per strade felici: ma voi gettaste immondizie su la via del cieco: ed ora gli ripugna seguire quel vecchio cammino.
E quando ebbi compiuto ciò che v'è di più faticoso e festeggiai la vittoria d'aver superato me stesso: faceste che coloro che m'amavano gridassero che io recava loro il dolore più grande.
In verità, operaste sempre così: mesceste il vostro fiele nel miele delle mie api più assidue.
Inviaste a la mia compassione i più insolenti mendicanti; circondaste la mia pietà degli esseri più incurabilmente senza vergogna. Feriste così nella loro fede le mie virtù.
E quand'anche avessi offerto in sacrificio la cosa a me più cara: la vostra «pietà» si presentava con doni più grassi: sicchè nel vapore del vostro grasso soffocava ciò che avevo di più sacro.
E volli una volta danzare come mai non avevo danzato: danzare al di là di tutti i cieli. E allora voi corrompeste il mio cantore più diletto.
Ed egli intonò una melodia orribile e tetra: ah, essa risuonava alle mie orecchie come lugubre corno!
Oh, cantore assassino, strumento di malvagità, il più innocente di tutti! Già ero pronto alla danza migliore: tu uccidesti coi tuoi suoni il mio rapimento!
Soltanto nella danza mi sento atto a parlare in similitudini delle cose più eccelse: – ma la più leggiadra delle mie similitudini mi rimase soffocata in gola!
Inespressa e insoddisfatta rimase la mia più alta speranza!
E morirono per me tutte le visioni e tutti i conforti della mia gioventù!
Come potei sopportare tal cosa? Come dimenticai e vinsi tali ferite? Come risorse l'anima mia da un tale sepolcro? Sì, v'è in me qualche cosa che non si può ferire o colpire e spezza anche le rocce: è la mia volontà. Taciturna e immutabile essa incede attraverso gli anni. Vuol camminar coi miei piedi, la mia vecchia volontà; il suo senso è duro e invulnerabile.
Io non sono invulnerabile che nel tallone. Ancora sempre tu vivi e sei rimasta eguale a te stessa, o pazientissima!
Ancor sempre passasti fra tutti i sepolcri!
In te vive ancora ciò che non seppe redimersi nella mia giovinezza; e come vita e giovinezza tu sedesti sperando sui tumuli ingialliti.
Sì, tu sei ancor per me colei che infrange tutti i sepolcri:
Salve o mia volontà! E solo dove sono i sepolcri è possibile la resurrezione.
Così parlò Zarathustra.

F. Nietzsche

INDIVIDUALISMO ANARCHICO C#° 00




Rubando e parafrasando un po il linguaggio dei compagni di Parole Armate, il blog "Individualismo Anarchico" nasce dall'esigenza di creare un luogo virtuale per la diffussione e la propaganda del pensiero individualista. Ma essendo il virtuale un "non luogo" invitamo tutti coloro che si interessano alla diffusione dei testi anarcho-individualisti, di creare legami e situazioni che si svincolano e siano pronte a realizzarsi al di fuori del contesto virtuale di internet.
Partendo dal principio che ognuno dispone dei mezzi per la sua autoliberazione, il nostro vuole essere esclusivamente un contributo di riflessione, di approfondimento e di analisi.

Nessuna ricerca di consenso, né dei singoli, né tanto meno delle "Masse"

BREVIARIO DEL CAOS (parte quarta)




BREVIARIO DEL CAOS
(parte quarta)


Ci cacciano dentro un labirinto, parlandoci della comunicazione, e ci costringono a regredire per amore del superamento futuro e dell'espansione finale. I nostri maestri non escono più dalla logomachia, e dopo aver sostituito tre dozzine di parole, che capiamo, con tre dozzine di parole sconosciute, mediante le quali creeranno un codice a loro uso e consumo, ci informano di aver gettato nuove basi e ci invitano a tributar loro ammirazione. Mai spiegazioni del mondo furono cosi miserevoli, poiché i pesi e le misure sono falsi, i punti di riferimento tutti discutibili, per non parlare poi dell'adozione di certi termini, stiamo entrando nel caos delle idee e vi siamo condotti dalla prostituzione delle parole. Nessuno è più quel che è e ognuno vuol essere diverso, rifiutando però di diventare quel che si studia di apparire, di qui i mille imbrogli inconcepibili, gli autori dei quali perdono la bussola in mezzo ai loro stessi illusionismi. Conseguenza, di ciò è uno stupore universale, e se si ascoltasse la lezione della Storia, si saprebbe che dallo stupore alla stupidità il passo è quanto mai breve.

Stiamo facendo a chi diventa più stupido, in qualsiasi campo, e le nostre invenzioni non rimediano al paradosso. Sempre più stupidi tra i nostri mezzi sempre più intelligenti, subiremo la legge di tali mezzi ed essi disporranno di noi, con nostra grande delusione, i nostri capi di Stato saranno i loro primi servitori e ci faranno cadere in una schiavitù senza fine. I nostri mezzi ci superano, ed ecco che razza di superamento ci promettono i nostri àuguri; già constatiamo che i nostri mezzi crescono, ed ecco che tazza di crescita ci dipingono gli àuguri; tra i nostri mezzi e noi non c'è più comunanza di linguaggio, e appunto per questo la parola comunicazione è di moda; i nostri mezzi ci trascinano, non sappiamo dove, in quanto il caos acquista grazie a loro una dimensione nuova, così come la necessità, entrambi a scapito della libertà, la quale stinge in libertà di incertezza... e alla fine, eccoci più sprovveduti dei nostri antenati e sul punto di allogare in un mare di controsensi. Sono bastate poche generazioni per colare a picco le navi più solide, e siamo stati noi a incaricarcene, soltanto noi, non già le tempeste della Storia.

Lo spirito di dissoluzione pervade ogni cosa, noi soccombiamo con voluttà all'orrore e, colti da provvidenziale follia, riformiamo in continuazione i programmi di studio, sopprimendo, uno dopo l'altro, gli elementi che furono i gradini della chiaroveggenza. In cambio offriamo un caos di frantumi alla generazione nascente e, rifiutando le lezioni della Storia, ci affanniamo a innovale, per essere alla moda. Sicché rinunciamo alla dialettica del mutevole e del persistente, immoliamo il secondo al primo e poi ci stupiamo di non aver più alcun punto di riferimento e di ritrovarci in mezzo ai barbari. Giacché sappiamo solo imbarbarire coloro che pretendiamo di istruire, e li rendiamo inermi di fronte alla vita fingendo di prepararveli. Nel pieno del cambiamento perpetuo, bisognava più che mai attaccarsi al persistente, bisognava più che mai coltivare il nostro Umanesimo e più che mai meditare la Filologia e la Storia, bisognava più che mai fornirci di punti di riferimento e più che mai di campioni di pesi e misure. Abbiamo capitolato in anticipo di fronte a ciò che domani ci inghiottirà, colpevoli.

Volendo incivilire la massa di perdizione, abbiamo fatto vacillare i nostri stessi fondamenti, volendo comunicare tutto a tutti, abbiamo rimesso in discussione centinaia di soluzioni ormai acquisite, e c'è bisogno di chiedersi quale sarà la nostra ricompensa? La partita è persa, la massa di perdizione riduce al suo livello ciò che potrebbe elevarla, gravita trascinando con sé gli strumenti che la nostra presunzione ha offerto alla sua indegnità, trascinando a volte anche noi al loro seguito. Diventa difficile mantenere ciò che resta dei nostri privilegi né possiamo più riconquistarli, ormai, nel baratro in cui a torto cerchiamo la legittimità futura. Dall'abisso non può salire alcuna legittimità, abbiamo fatta nostra l'illusione degli utopisti, ma la sentina sociale non redimerà l'universo, e quanto ai santi che hanno intenzione di gettarvisi, vi rimarranno senza speranza di uscirne. La salvezza della specie sì compirà a scapito della massa, la massa è il caos che ha assunto un volto umano e che noi ricacceremo nell'abisso delle sue opere future; ci saranno soltanto uomini, le folle saranno sparite portandosi via il male.

Pochi uomini sopravviveranno alla catastrofe definitiva, in cui perirà la massa di perdizione, generata dal male e dedita al male, cui è consustanziale. Domani l'umanità sarà il resto prezioso che vorrà sempre rimanere resto, allora la superstizione del numero scomparirà fino alla consumazione dei secoli, e la lezione della Storia che fra tutte si preferirà ricordare sarà questa: «Non crescete e non moltiplicatevi mai, la fonte della sventura è la fecondità, abbiate il timore di esaurire le risorse della feria e di lordare la sua candida veste, rifiutate la sorte di insetti e ricordatevi di quegli esseri abortiti, arsi dal fuoco a miliardi, che campavano in mezzo ai rifiuti e bevevano le loro deiezioni, in cinque o sei dentro a una stanza, in una caterva di città mostruose invasi dal frastuono e dal tanfo, nelle quali non spuntava albero. Questi furono i vostri padri, rammentatevi la loro abiezione e non ispiratevi al loro esempio, disprezzate la loro morale e ripudiate la loro fede, egualmente immonde, essi furono puniti per essere rimasti fanciulli e per aver cercato un Padre in Cielo. Il Cielo è vuoto, e voi sarete orfani, per vivere e per morire da uomini liberi».

E ora stiamo entrando nella Grande Notte, con le armi in pugno, vittime e vittimari ad un tempo, alienati e posseduti, figli del caos, accoliti della morte. Giacché moriremo prima a milioni e poi a miliardi, e continueremo a morire fino a che la massa di perdizione non sia estinta e l'universo guarito da questa lebbra, la lebbra degli esseri umani che Io divorano in soprannumero. Solo a questo prezzo l'universo cambierà, solo a questo prezzo la Salvezza, di cui ci parlano da duemila anni, cesserà di essere un'ipotesi, e solo sulla tomba delle nazioni, annientate insieme con i loro monumenti, potremo rigenerare ciò che merita di sopravvivere: il resto degli esseri umani, disillusi delle nostre idee oscure e confuse. In verità, niente si risolverà per meno, e qui le nostre tradizioni e le nostre opere ormai convergono, poiché sia le une sia le altre vanno a finire sempre nel medesimo precipizio, le nostre tradizioni legittimando l'effetto delle nostre opere, le nostre opere confermando la dismisura propria delle nostre tradizioni. Abbiamo torto a lamentare che ci manchino le sintesi, e noi serviremo a dimostrare la loro evidenza.

Siamo colti da follia e da stupidità in mezzo alle nostre opere, non sempre abbiamo l'ingegno dei mezzi che impieghiamo, viviamo su piani che non combaciano Ira loro e non siamo nemmeno contemporanei gli uni degli altri. La dismisura è il nostro denominatore comune e non usciamo mai dall'incoerenza, rifiutiamo l'obiettività dietro i pretesti più fantastici e ci sottraiamo alla verità ricorrendo alla dialettica, possediamo l'arte di moltiplicate a piacere i punti di riferimento e di cambiarli secondo le nostre necessità, finiamo col girare in un labirinto e giustifichiamo il nostro impaccio dichiarando impossibile la sintesi, per via del movimento che ci travolge. Dopodiché tutto diventa lecito e nessuno è responsabile, ora noi siamo automi liberamente complici della fatalità, che divinizziamo perché eviti di farci sentire uomini, godiamo nell'abbandonarci, ci crogioliamo nel nostro accasciamento, corriamo incontro alla nostra rovina rifiutandoci di troncare con quello che ci trascina, siamo affascinati, siamo consenzienti...

Sicché l'abisso invocherà l'abisso, e noi portiamo dentro di noi la volontà di morte, che non possiamo padroneggiare, crediamo che la smania di vivere ci animi, ma questa smania è l'opposto della vita, e la nostra frenesia ci vota al precipizio. L'ordine è più folle di quanto non creda, l'ordine è pili stupirlo di quanto non immagini, e noi che lo sosteniamo sentiamo che ci assomiglia, esso non conosce se stesso così come non ci conosciamo noi, è il cieco che conduce quei ciechi che siamo. Nulla è più spaventoso di questo quadro, ma solo il futuro lo contemplerà, noi ne resteremo sempre all'osculo, noi adempiamo al nostro dovere e ne godiamo, noi militiamo e dormiamo, i nostri anarchici sono i soli a stupirsi di questo accordo e a rifiutarsi di approvare raccomodamento che noi accetteremo senza fiatare, hanno ragione gii anarchici, non gii uomini d'ordine. Eppure gli uomini d'ordine non possono cambiare sistema, e quand'anche il sistema dovesse portarli al caos, preferiscono rimanerne vittime piuttosto che ammettere il loro torto. D'altronde, a che gioverebbe ammetterlo, visto che i loro avversari non hanno niente da proporre?

Nel momento in cui ognuno ha ragione, tutto è perduto, poiché tutto diventa sia lecito sia possibile, è il momento tragico per eccellenza ed è quello in cui ci troviamo. Siamo in mezzo a uomini in buona fede che moriranno per la loro causa fieri di immolarsi, noi sappiamo che nella maggioranza dei casi la loro causa è un malinteso, ma non serve a nulla informarli, si rifiuteranno di darci ascolto, e tanto più in quanto essa racchiude le loro ragioni di vita. L'ideale è quasi sempre un tessuto di equivoci, e se sopprimiamo il controsenso votiamo la maggior parte degli uomini al nonsenso, visto che la verità non è mai alla loro portata. Ora, a ogni giro di ruota i nostri mezzi fortificano la verità, e noi ci sentiamo sempre più spaesati nell'universo, quest'universo che ci ostiniamo a umanizzare sempre di più: tale paradosso non è meno tragico del precedente e non si vede come risolverlo. Quanto tempo dureremo in preda al disordine? Il disordine non può andare avanti in eterno, perché lo spirito umano non lo sopporta senza esplodete. Allora la catastrofe appare preferibile, e l'uomo non esita a correrle incontro, nella speranza di forzare la mano all'avvenire.

Io sono uno dei profeti del nostro tempo e il silenzio mi avvolge, hanno intuito che avevo qualcosa da dire, qualcosa che non volevano sapere, si sono difesi secondo i procedimenti oggi in voga, cercano di seppellirmi vivo e non riusciranno che a rendere più fanatici, un giorno, i miei sostenitori. Persevero nella strada che mi traccio, essa è ormai aperta, non vi starò per molto da solo a camminare solitario, le mie idee mancavano al mondo, e coloro che le adotteranno daranno vita a un nuovo popolo, fra gli uomini d'ordine e gli anarchici. Io non sono anarchico più di quanto non sia uomo d'ordine, le due categorie mi fanno egualmente orrore e mi pongo al di sopra della loro disputa, metto fine all'alternativa assegnando un nuovo asse alla legalità, voglio che il principio femminile presieda alla fondazione della Città futura e sposto tutti i segni, ciò che fu negativo non deve esserlo più e ciò che non lo è ancora lo diventerà di certo, la mia rivoluzione è tutta qui, si mette in moto sotto i nostri occhi e le mie idee la riflettono. Quello che affermo non è un'utopia, è una verità che intravedo.

Mi si dirà che non sono costruttivo, mi si rimprovererà di edificare sulla catastrofe e di considerarla preliminare al riordinamento dell'universo; mi si dirà che sono asociale, mi si rimprovererà di prevedere l'immolazione delle folle e di considerarla necessaria perchè abbia finalmente luogo la restaurazione dell'uomo; mi si dirà che sono disumano, visto che non mi imporla della vita di molti miliardi di insetti e che predico lo spopolamento dell'ecumene; mi si dirà che sono immorale, visto che scuoto l’ asse dei valori e inverto i segni. Riconosco i miei torti, voglio dichiararmi colpevole e sono fiero di perseverare nei miei passi: il fatto è che credo nell'ordine del domani, quell'ordine di cui io sono uno dei profeti e in cui i nostri discendenti ritroveranno ciò che avevano professato gii uomini arcaici. Sono uno dei restauratori di ciò che fu agli inizi del mondo, l'ordine secondo le donne è più antico di quello che osserviamo noi, e io mi riavvicino a quell'ordine, sovverto i nostri fondamenti al solo scopo di portare alla luce ciò che li regge, e lì sopra costruisco una Città domani intemporale.

La Storia è l'avventura da superare, la Storia ha avuto il suo preludio cinquanta secoli or sono e noi non vogliamo morire con lei. L'ordine a venire sarà la tomba della Storia e solo a questo prezzo la nostra specie sopravviverà, dobbiamo uscire dalla Storia e ne usciremo solo per mezzo delle donne, la dominazione delle donne ci affrancherà dalla sua tutela e toglierà la sua ipoteca. Allora e soltanto allora il tempo non sarà più e - come prima che il tempo fosse - l'intemporale diventerà elemento quotidiano, allora e soltanto allora la Terra sposerà il Cielo e la Ierogamia sostituirà il Sacrificio, allora e soltanto allora la fine del mondo che abitiamo assumerà la sua ragione d'essere e non dovremo più temerla. Non possiamo sottrarci alla catastrofe, però possiamo gettare il seme a cui la rovina dell'universo non impedirà di germogliare, possiamo riporre la speranza nella rinuncia a qualsiasi progetto formulato come a qualsiasi disegno apparentemente ragionevole, giacché sappiamo che nulla prevarrà sulla logica di una situazione che ha preceduto gli elementi della sua genesi e che i tempi della nostra morte non riusciranno a risolvere.

Perché il peggio è l'unica certezza che ci limane? Per due ragioni, la prima delle quali è l'impossibilità di frenare il movimento che ci travolge, mentre la seconda sta nella natura stessa di questo movimento. Giacché, per la verità, il movimento che ci travolge ci sfugge, e noi noti siamo più nient'altro che suoi oggetti ridotti all'impotenza, questo movimento è un abisso in cui, solo a misurarlo, ci smarriamo, e che per giunta è la propria ragione d'essere, non obbedisce ad alcun disegno che l'uomo sia in grado dì comprendere e - con ogni probabilità – questo movimento è ormai assurdo. Sicché l'assurdità diventa fatale e la fatalità diventa logica, è una catena in cut tutto cospira a disgregarci e nella quale ci sentiamo non responsabili. Il peggio è assicurato e noi ne siamo complici, la nostra è una voluttà di morte che diventa ragione di vita. Così ci precipiteremo incontro all'inevitabile, come quegli animali divenuti troppo numerosi che non mirano più ad altro che a morire in massa, e non per un eccesso di spirito di sacrificio o di spiritualità, come non si mancherà di darci a intendere domani.

La massa di perdizione non ha coscienza e mai ne avrà, è proprio della coscienza isolare gli esseri, ed è per sfuggire alla loro coscienza che gli uomini si assembrano, la massa di perdizione è la loro via di fuga, è il ricettacolo delle solitudini abortite, essa è sempre colpevole e la sua dannazione sarà sempre nell'ordine delle cose, essa coinvolge nella propria rovina l'accozzaglia di aborti che la compongono. Il numero è strumento del male, il male vuole che gli uomini si moltiplichino, perché più gli uomini sovrabbondano e meno vale l'uomo, per essere umano l'uomo non sarà mai abbastanza raro. In verità, noi moriremo a causa delle masse, le masse ci trascineranno negli abissi della dismisura e dell'incoerenza, la salvezza e le masse sono agli antipodi, non possiamo essere salvali, qualunque cosa accada, siamo troppo numerosi, e quelli di noi che si isolano non muteranno più il destino dell'universo, vedranno soltanto dove sono diretti gli altri, saranno più disperati dei ciechi e dei sordi, contempleranno faccia a faccia una spirale senza volto verso la quale la marea dei sonnambuli rotola con movimento implacabile.

L'universo è un meccanismo in cui il desiderio aggrega e la morte disgrega, la massa di perdizione riflette lo stato di tale universo in quanto esso ha di più orrendo, è la sua incarnazione, e perciò non possiamo né amarla né compiangerla, essa obbedisce alle stesse leggi degli sciami di cavallette e degli eserciti di roditori, è un mostro dai milioni e milioni di teste. Basta che la massa di perdizione voglia adorare un dio perché quel dio assuma le sue fattezze e divenga, per il suo tramite, riflesso dell'universo, giacché la massa scaccia lo spirito, .ovunque esso si manifesti. In verità, mai lo spirito smuove la massa e mai le idee prenderanno consistenza in essa, la massa non può accogliere lo spirito né sopportare che le idee la travaglino, le sue profondità sono morte e pietrificate, le sue tenebre prevalgono sulla luce, la Storia scivolerà lungo la distesa di quel mate intemporale dove l'uomo è una vana parola. Chi parla di salvezza tra le ombre senza volto? Chi parla di progresso? Chi di superamento? La redenzione non ha più senso, il progresso non trova più pane per i suoi denti e il superamento morirà sul nascere.
Possiamo salvare qualcuno, ma non salveremo la massa in quanto massa, possiamo far ragionare e rendere consapevole un esiguo numero di uomini che dobbiamo prima isolare, ma l'uso stesso dei mezzi, che la nostra scienza avrà moltiplicato inutilmente, non cambierà la sorte delle folle, le folle impareranno a mentirei credendosi in buona fede, la confusione non ne sai a che più mortale, e noi ci disinganneremo troppo tardi per porvi rimedio. Impareremo a nostre spese che la salvezza, il progresso e il superamento sono idee inaccettabili quando non si mantiene la misura, e come si può parlare di misura nell'universo che molti miliardi di uomini rodono e insozzano? Il mondo perirà perché gli uomini in soprannumero muoiano, ormai sappiamo che i bambini che nascono sono colpevoli, colpevoli di esistere, il delitto non è più votarli al nulla, il delitto è metterli al mondo. La vita non è più sacra quando gli esseri viventi pullulano, quella degli uomini in soprannumero non ha più valore di quella degli insetti, né i soldati morti in guerra contano di più per coloro che ve li conducono.

Se gli uomini non sperassero in nulla, la loro sorte non sarebbe più la stessa, se gli uomini non credessero in nulla, la loro condizione forse muterebbe: così invece, la speranza e la fede non solo accrescono i loro mali, ma fanno anche la fortuna dei loro padroni, e gli spirituali, malgrado la loro santità, non possono essere altro che i loro cani da guardia. Il Giorno del Giudizio, né la speranza né la fede saranno perdonate, visti i morti che avranno fatto nascere e gii agonizzanti che esse inducono a moltiplicare il loro seme fino all'ultimo respiro. Se gli uomini non sperassero in nulla, le donne invecchierebbero sterili, se gli uomini non credessero in nulla, preferirebbero alla fecondazione i vizi, i vizi li renderebbero meno infelici del dovere, il dovere è molto peggiore dei vizi, il dovere è un radicamento nella calamità. Eccola messa a nudo, la verità, da sempre il metterla a nudo è un reato e si capisce perché, l'ordine ha bisogno della speranza ed è per l'ordine che essa si strugge, l'ordine ha bisogno, e ancor di più, della fede, solo per lui vive la fede e vivono gli uomini moltiplicando la vita...

Sicché la speranza e la fede ingannano le generazioni che passano così come inganneranno le generazioni venture, e la miseria si trasmette insieme con il peso delle idee sbagliate, poiché l'ordine vigila sul deposito dei tempi e vive della morte degli uomini, che vengono abbindolati. Ogni tanto compare nel mondo un redentore, ma il messaggio di quel redentore è sempre incompreso e l'ordine non esita ad aggiustarlo a modo suo. I pochi che capiscono ciò che leggono ritrovano l'ordine in mezzo ai discorsi ineffabili, giacché l'ordine lascia parlare i profeti, e quando essi hanno finito, l'ultima parola la pronuncia lui, metterà il suo sigillo tanto sulla speranza quanto sulla fede: è a queste condizioni che i testi sono accolti e la loro ispirazione è ritenuta infallibile, il procedimento risale a molti millenni or sono e mai muterà fino alla consumazione dei secoli. I salvatori passano al pari delle generazioni e l'ordine resta, esso sembra assecondarli, e ciò al fine dì armarsi delle loro opere, la Storia ci insegna che dopo ogni salvatore l'ordine è più forte, più folte della speranza e della fede che tutti i salvatori servono ad accreditare.

Moriremo di speranza e moriremo di fede, questa è la sorte degli uomini che vengono ingannati e si ingannano, tale sorte non muterà, soltanto la catastrofe ha il potere di liberarcene, e sappiamo che non la eviteremo più. Stiamo andando alla morte, e la speranza e la lede ci allettano, stiamo andando alla morte della speranza e della fede, moriremo con esse e per esse, il resto degli esseri umani sopravviverà loro, il resto degli esseri umani vivrà, ma vivrà dello spirito, lo spirito che si oppone alla fede, lo spirito che non ha bisogno della speranza. In verità, finché la massa di perdizione fa vacillare l'equilibrio dei mondo, lo spirito non avrà alcun potete e noi non accederemo al regno dello spirito se non dopo l'annullamento della massa. Il rimedio è crudele, ma la malattia lo è ancora di più, e non possiamo sottrarci alla scelta di guarire o scomparire, guariremo al prezzo della più sconvolgente catastrofe di cui la Storia abbia memoria, e l'ombra dell'avvenire si allunga già su di noi. Stiamo camminando nell'ombra della morte futura, la morte è la dimensione soprannumeraria della nostra esistenza, il precipizio incombe su di noi e al precipizio ci stiamo recando in fila.

Non possiamo sopravvivere al presente stato del mondo, perché il presente stato del mondo non ha più futuro, moriremo del presente e coloro che sopravviveranno - oh quanto rari! - si ritroveranno in un altro mondo, di cui quello che abitiamo non poteva essere promessa. Il futuro troncherà con la realtà subita, non sarebbe il futuro se la continuasse, tra noi e il nostro domani si allarga il precipizio in cui dobbiamo sprofondare. Sicché entreremo nel caos e nella morte seconda, carichi delle nostre opere consustanziali alla notte, per seppellirci meglio sotto di esse; il passato ci seguirà nelle tenebre, che renderemo più fitte per impedirgli di risalire. Siamo predestinati a chiudere la Storia, la Storia dovrà morire con noi, siamo giunti allo scadere della parentesi, accettiamo, e senza riserve, ciò che non possiamo evitare, e niente ci spaventa più, attendiamo il peggio, non ci attendiamo altro che il peggio, abbiamo sacrificato la speranza, abbiamo rinunciato alla fede, siamo liberi, più liberi che mai, presenti alla nostra morte, e sopravviviamo a quelle ragioni di vita che noi abbiamo ormai sostituito con la morte stessa.


Non arresteremo più la corsa verso il precipizio, il peso degli nomini in soprannumero non ci risparmierà, i secoli accumulati sulle nostre spalle ci obbligheranno a gravitare, e il caos delle idee sbagliate, che manteniamo perché ci rovinino, sconvolgerà la nostra ragione. Tutto possiamo, tranne indietreggiare, non possiamo neanche indugiare lungo il cammino, e sappiamo dove il cammino ci porterà. Una dopo l'altra, le soluzioni via via si allontanano, tagliandoci dalle nostre retrovie, a ogni giro di ruota i paradossi si diversificano e i problemi si complicano, la maggior parte di noi rinuncia a porseli, la maggior parte di noi rinuncia a capite se stessa, e i nostri più alti ingegni professano la legittimità della nostra incoerenza, i nostri scienziati più famosi rinunciano alle pretese di sintesi, insomma l'immagine del mondo è in brandelli e i nostri pensatori affermano che essa rimarrà tale e quale. Per quanto tempo? Giacché nessun disordine può perseverare nel suo disordine senza disgregarsi sempre di più, questa è una legge generale che i nostri àuguri vogliono dimenticare e di cui sperimenteremo tanto la portata quanto l'esattezza.

Albert Caraco

domenica 16 dicembre 2012

BREVIARIO DEL CAOS (parte terza)





BREVIARIO DEL CAOS
(parte terza)


Poiché la morte è il senso di ogni cosa, è lecito supporre che la Storia, essendo incominciata, dovrà finire. Ci fu un mondo prima della Storia e si presume che la Storia, essendo viva, non abbia il privilegio dell'eternità, mentre la Salvezza ha inizio dove cessa la nostra Storia. Giacché la Metafisica esisteva da ben prima della Storia e l'uomo è anzitutto un animale metafisico, lo era da almeno centomila anni quando si è aperta la parentesi della Storia, e quando si sarà richiusa, l'uomo vivrà senza di essa, con il proprio fine ultimo. Allora e soltanto allora la Storia acquisterà senso acquistando forma e, divenuta un tutto, sarà oggetto delle meditazioni senza tempo della specie, ma oggi possiamo solo interrogarci su di essa e subirla al pari delle nostre opere, pur sapendo che ci porta alla rovina. In verità noi corriamo verso la morte lungo un piano sempre più inclinato, le rotoliamo incontro, ci precipitiamo verso di lei, ebbri e consenzienti, perché quanto più gli uomini sono virili, tanto meno temono di perire e tanto più la morte sembra loro una festa in cui sono riposte le loro ragioni di vita. Giacché lo scotto delle nostre virtù sarà sempre soltanto l'olocausto.

Non potremo cambiare le nostre città se non distruggendole, fosse pure insieme agii uomini che le popolano, e verrà il giorno in cui plaudiremo a quest'olocausto. Allora non indietreggeremo più davanti a nulla e faremo a chi si mostrerà più barbaro, diventeremo i sacerdoti del caos e della morte, la nostra vittima sarà l'ordine e lo immoleremo perché cessi l'assurdo, supereremo i flagelli naturali raddoppiandone la perniciosità. In questo modo puniremo coloro che sono nati indesiderabili e che si illudevano di continuare a moltiplicarsi, insegneremo loro che vivere è un abuso, mai un diritto, e che meritano di morire, perché occupano troppo posto aumentando la "bruttezza del mondo, oberato di uomini in soprannumero. Noi vogliamo restaurare e perciò progettiamo di distruggere, vogliamo ritrovare un'armonia e perciò armiamo il caos del nostro amore, vogliamo rinnovare tutto e perciò non risparmieremo più nulla. Giacché se i viventi scelgono di essere insetti e di pullulare nelle tenebre, nel frastuono e nel tanfo, noi siamo qui per impedirglielo e salvare l'Uomo sterminandoli.

Quando gli uomini sapranno che non vi è più rimedio se non nella morte, benediranno coloro che li ammazzano, perché così non dovranno uccidersi da sé. Poiché tutti i nostri problemi sono insolubili e altri se ne aggiungono in continuazione a quelli che non riusciamo già più a risolvere, bisognerà pure che la smania di vivere in cui ci consumiamo si esaurisca e la prostrazione faccia seguito all'ottimismo criminale, che mi pare l'ignominia di questi tempi. La prosperità dei paesi ricchi non durerà eternamente in un mondo che affonda nella miseria assoluta, e poiché è troppi) tardi per far sì che ne esca, essi non avranno altra scelta che sterminare i poveri o essere poveri a loro volta, e nel caso in cui decidano per la soluzione più barbara, neanche loro eviteranno più il caos e la morte. Quindi, qualunque cosa si intraprenda, si arriverà solo all'orrore, e poiché l'ingegno dei mezzi non si comunica a noi, ineluttabilmente seguiremo Icaro nella sua caduta o Fetonte nel suo abisso, non credo più nel futuro della scienza, e poiché il mutamento dell'uomo non è che un'ingannevole chimera, i nostri discendenti dovranno riprendere il sopravvento sul caos e sulla morte in cui noi ci perderemo.

Il mondo è brutto, lo sarà sempre di più, le foreste cadono sotto la scure, le città dilagano inghiottendo ogni cosa e dappertutto i deserti si espandono, anche i deserti sono opera dell'uomo, la morte della terra è l'ombra che gettano a distanza le città, e ora vi si aggiunge la morte dell'acqua, poi sarà la morte dell'aria, ma il quarto elemento, il fuoco, rimarrà perché gli altri siano vendicati, è per opera del fuoco che noi moriremo a nostra volta. Stiamo andando verso la morte universale e i più accorti lo sanno, sanno che non vi è rimedio a queste calamità scatenate dalle opere, essi sono tragici tra i frivoli, osservano il silenzio in mezzo ai ciarloni, lasciano sperare agli uni ciò che gli altri promettono loro, non si danno più pensiero di avvertire i primi né di, confondere i secondi, ritengono che il mondo meriti di perire e che la catastrofe sia preferibile a questo rigoglio nell'orrore assoluto e nella laidezza totale, che ci saranno risparmiati solo a prezzo della rovina. Ben venga allora la rovina, e la dissoluzione si compia! Preferiamo l'irreparabile alla sopravvivenza in un aborto perpetuo.

Tutto si sgretola e tutto si disgrega, le nozioni - che ritenevamo acquisite - si disfanno, il grande rivolgimento ha inizio e tutti distruggono gli strumenti di cui si servivano i nostri padri. Nei paesi in cui regna la censura ci si affanna a negar e l'evidenza; nei paesi in cui è stata abolita si dice qualsiasi cosa: la differenza appare impercettibile, giacché mentire o perdersi è lo stesso, e si suppone che chi mente andrà a raggiungere un giorno o l'altro chi si è perduto. Le Muse hanno abbandonato la Terra e ormai da parecchie generazioni le belle arti sono morte, gli impostoli hanno campo libero e mai se ne videro di più incredibili, ma la cosa più triste è che coloro che si oppongono alla loro impostura non hanno niente da proporci, nient'altro che banalità. Le nostre città sono incubi, i loro abitanti diventano simili alle termiti, tutto ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più costruir e templi, palazzi o tombe, piazze trionfali o anfiteatri. A ogni passo la vista è offesa, l'orecchio assordato e l'olfatto messo a dura prova, presto ci chiederemo: «A che serve l'ordine?».

Diecimila leghe non ci faranno avanzare di un passo, visto che il mondo è sempre di più lo stesso, a parte la miseria, che crea un po' di differenza tra le nazioni. A che prò viaggiare? A che prò evadere? Altrove noi ritroviamo tutto"quello che lasciamo qui, la prigione torna a chiudersi e ne usciremo solo morti, la Luna e i Pianeti sono inabitabili. E mai possibile credere ancora nella bontà del Cielo, quando gli Infèrni sono una miriade, Inferni di fiamme come Infèrni di ghiaccio? Che razza di Creazione è mai questa in cui la vita non è che un epifenomeno e l'uomo un accidente? Che razza di ordine naturale è mai questo in cui per una sola riuscita mille aborti preludono a mille agonie? Il Bello, il Buono, il Giusto e tutto quello che giudichiamo mirabile non sono il riflesso di una Provvidenza - ahimè - immaginaria, ma qualcosa che si genera in noi, ha le sue radici solo in noi, e non dobbiamo pili cercarne altrove il modello e il fine, esso è frutto della nostra stessa sovrana eccellenza, esso prova altresì che gli uomini non possono essere eguali e che c'è un abisso tra la massa di perdizione, fatta a immagine del caos e sempre degna di perire, e gli eletti, nei quali albergano la luce e l'ordine.

I nostri scienziati riempiranno il mondo di giocattoli costosi, sono bambinoni che giocano a violentare la natura, e che noi ammiriamo talvolta a torto, visto che i servigi che ci rendono sono sempre più discutibili. Nessuno ormai può prevedere dove ci portino questa o quella scoperta, sono altrettante strade aperte alla Fatalità e non più al genere umano, per quanto la sorgente sgorghi fra le nostre mani, il corso del fiume ci sfugge, il mondo ridiventa inconoscibile e noi non possiamo prenderne atto, a meno di accasciare i semplici, che si attendono il miracolo, non la catastrofe. Un riassetto è ormai impossibile, il mondo è in brandelli, né è più immaginabile una sintesi nel pieno di un cambiamento perpetuo, bisognerebbe arrestare il movimento per poter considerare metodicamente tutto con distacco: ma non è in nostro potere frenare il flusso che ci travolge, i più accorti sentono da anni che è troppo tardi, stiamo andando verso il caos, stiamo andando verso la morte, stiamo preparando la più colossale catastrofe di tutta la Storia, quella che chiuderà la Storia e da cui i sopravvissuti saranno segnati sino alla fine dei tempi.

Noi odiamo un mondo pieno di insetti, e chi ci assicura che sono uomini mente: la massa di perdizione non è mai stata costituita da uomini, ma da reprobi, e perché mai un automa spermatico dovrebbe essere il mio prossimo? Se il mio prossimo deve essere questo, allora dico che non esiste e che è mio dovere non assomigliargli in nulla. La carità è solo un raggiro e coloro che me la vogliono insegnare sono miei avversari, la carità non salva un mondo pieno di insetti, che sanno soltanto divorarlo imbrattandolo con il loro lerciume: non si deve né prestar loro assistenza né ostacolare le malattie che li decimano, più ne muoiono e meglio sarà per noi, giacché non avremo bisogno di sterminarli. Stiamo entrando in un futuro barbaro e dobbiamo armarci della sua barbarie, per adeguarci alla sua dismisura e resistere alla sua incoerenza, non abbiamo altra scelta che mantenere o abdicare, non abbiamo altra scelta che contenere o cedere, dobbiamo colpire oggi chi colpirebbe domani, questa è la Tegola del gioco, e coloro che ci implorano ci punirebbero subito per averla dimenticata.

A che prò illuderci? Diventeremo atroci, verranno a mancarci terra e acqua, forse verrà a mancarci l'aria e ci stermineremo per campare, finiremo per divorarci l'un l'altro e i nostri spirituali ci faranno compagnia in questa barbarie, siamo stati teofagi e saremo antropofago, non sarà che un ulteriore compimento. Allora si vedrà, e in modo lampante, quanto avevano di barbaro le nostre religioni: e sarà l'incarnazione dei nostri imperativi categorici, la presenza fattasi reale dei nostri dogmi, la rivelazione dei nostri misteri spaventosi e l'applicazione delle nostre leggende sette volte più disumane delle nostre leggi penali. Le arti ci nascondevano questi orrori funebri e sanguinosi, domani assaporeremo questi orrori nella loro crudezza, ne moriremo, i rari superstiti li proscriveranno insieme con i mostri che li accreditano e li perpetuano. Che cosa sono mai i nostri mezzi più micidiali paragonati alle nostre tradizioni? E queste tradizioni, alle quali teniamo più che a noi stessi, troveranno mezzi ormai alla loro altezza e ci costringeranno, per la prima volta, a porgere la gola, affinché tutto sia consumato.

Siamo alla fine dei tempi e perciò tutto si dissolve, il nostro futuro si annuncia moltiplicando i disordini, la lezione della Storia è che il cambiamento si paga e il prezzo della metamorfosi è il più alto che ci sia: ora, noi ci trasformiamo, fosse pure nostro malgrado, non sappiamo che cosa diveniamo e le parole che servono a definirci ci abbandonano strada facendo. Le forme si aprono e i contenuti sfuggono, i pesi e le misure sono falsati, il giudizio degli uomini più accorti si smarrisce e la bassa lega trionfa impunemente insieme agli impostori che la accreditano. Le nostre lingue degenerano e le più belle si fanno brutte, le più conosciute si fanno oscure, la poesia è morta, la prosa può solo scegliere tra il caos e la banalità. Le arti sono svanite già da molte generazioni e i nostri artisti più rinomati assomigliano solo a grandi saltimbanchi, che il futuro disprezzerà. Non sappiamo né costruire né scolpire né dipingere, la nostra musica è un abominio, e perciò restauriamo i monumenti antichi anziché distruggerli, perciò diveniamo conservatori di tutti gli stili, duplice ammissione di impotenza.

La simultaneità degli stili accresce la confusione delle forme, il secolo ha voluto scegliere tutto e perciò non abbiamo trovato niente, siamo come i moribondi, la Storia ci sì rivela interamente facendoci toccare il fondo della nostra impotenza. In verità, siamo in piena agonia nel momento in cui sopravvalutiamo la nostra forza, perché una forza che non conosce se stessa ha come fine il caos. Il nostro futuro è una passione, e malgrado la smania che ci anima, la mancanza di coesione ci impedirà di giungere ad alcunché, insomma giriamo in tondo, diventando preda di contenuti mentali più liberi di noi. Siamo ormai perduti, abbiamo rinunciato all'idea di sintesi e arriviamo al punto di supporre un accomodamento tra l'ordine e l'incoerenza, crediamo di poter sopravvivere impunemente a ciò che ci distrugge, siamo in brandelli e lo vedremo alla prima prova, non ci ristabiliremo più e l'orrore ci attende, un orrore indicibile, che lascerà intatto solo l'elemento intemporale, di cui non abbiamo cognizione. Giacché stiamo per morire insieme con le nostre opere e per causa loro.

Elevo un canto di morte sull'universo, e prevedo l'annientamento da un polo all'altro del mondo che abitiamo e di quelli che ci hanno preceduto e che stiamo finendo di portare alla luce affinché siano distrutti insieme con il nostro. Le cento e più città morte che abbiamo risuscitato da un capo all'altro dell'universo moriranno una seconda volta, senza resurrezione possibile, e se ne perderà anche il ricordo, i nostri musei saranno distrutti insieme con i tesori che contengono. Tutte le nazioni perderanno il loro passato, poiché la specie umana non può sopravvivere se non si osserva questa condizione preliminare, ognuna di esse deve immolare le sue profusioni, le sue leggende, le sue speranze. Questo è il senso del Giudizio Universale, in cui compariremo nudi, per ritornare sia nel nulla sia nella vita nuova, allora vedremo se i fedeli delle religioni rivelate, che da tanti secoli le loro tradizioni preparano alla prova, vorranno spropriarsi di buon grado e rispettare i loro impegni, ammireremo il loro spirito di sacrificio. Elevo un canto di morte e saluto il caos che sale dall'abisso e il terrore antico riemerso dal profondo dei tempi!

Canto il caos con la morte, la morte e il caos stanno per celebrare il loro matrimonio, l'incendio dell'ecumene illuminerà le nozze, le nostre città andranno in rovina e le loro case saranno la tomba degli insetti che le popolano e le insozzano. Giacché la soluzione dei nostri problemi sarà il fuoco, solo il fuoco ci libererà di mille paradossi insolubili e farà crollare le mura del labirinto in cui vaghiamo in preda all'equivoco, è nel fuoco che si concentra ormai la nostra speranza. Noi aspiriamo alla semplicità, la semplicità verrà a noi quando il caos sarà passalo, quando la morte avrà trionfato, quando non resterà che un uomo dove se ne vedevano brulicare a centinaia, quando la "ferra, quasi vuota, sarà restituita alla verginità, nel tempo beato in cui le foreste inghiottiranno i resti carbonizzati delle città, in cui le acque rinasceranno e i fiumi scorreranno di nuovo trasparenti, nel futuro in cui non vi sarà più massa, perché ogni massa è una massa di perdizione. Il caos e la morte ce ne separano, ma noi non temiamo né la morte né il caos, è l'universo attuale quello che aborriamo e che non vogliamo più, per nessuna ragione.

Noi invochiamo il caos e la morte sull'universo attuale e plaudiamo alla loro venuta, la perpetuità dell'ordine sarebbe peggiore, e se esso non si disgregasse, tramuterebbe gli uomini in insetti. La massa di perdizione: ecco il peccato dell'ordine, e se la massa ha invaso tutto, contaminato tutto, deterioralo tutto, ammorbato tutto, offuscato tutto, se ha reso tutto peggiore del caos stesso al punto da rendere il caos più desiderabile è perché l'ordine aveva bisogno di lei. L'ordine, che noi serviamo e che ci manda al supplizio, l'ordine ha bisogno di produttori e di consumatori, non già di uomini integri, gli uomini integri lo intralciano, a loro esso preferirà sempre gli aborti, i sonnambuli e gli automi, questa è la sua colpa, l'ordine è insieme peccatore e criminale, noi gli dobbiamo soltanto le fiamme, è grazie al fuoco che l'ordine morirà. Santo, santo, santo è il fuoco, che ci libererà dal mostro e dalle sue opere mostruose! Com'è amabile il caos vendicatore! E com'è bella la morte seconda! E come siamo lieti di attenderli e di sapere che l'uno e l'altra sono inevitabili! In verità, noi siamo già ora i conformisti del nostro domani.

L'ordine è fragile e anzi lo è sempre di più, perché riflette la sua dismisura e non supera la sua incoerenza, l'ordine è gravido della sua morte, perché riflette la sua soggettività sempre più caotica e sempre più destituita di qualsiasi ragione d'essere. I superstiti della prossima catastrofe chiameranno mondo alla rovescia quello che abitiamo, un mondo sempre più assurdo a forza di conformarsi a un ordine inaccettabile e che manteniamo a scapito del nostro fine ultimo. Giacché ritorno non è quaggiù per produrre e per consumare, produrre e consumale sono sempre stati soltanto un fatto accessorio, ciò che conta è essere e sentire che si esiste, il resto ci abbassa al rango di formiche, di termiti e di api. Noi rifiutiamo la sorte di insetti socievoli alla quale le ideologie di moda ci votano, preferiamo il caos e la morte, e sappiamo che sono in cammino, sappiamo che le nostre ideologie, dal canto loro, si precipitano immancabilmente incontro alla morte e al caos, quando si illudono di instaurare il Paradiso in Terra, il Paradiso perduto che ritroveremo sulla tomba delle masse, delle masse di perdizione.

Siamo già troppo numerosi per vivere, per vivere non da insetti ma da uomini; noi moltiplichiamo i deserti a forza di esaurire il suolo, i nostri fiumi sono ridotti a sentine e l'oceano entra a sua volta in agonia, ma la lède, la morale, l'ordine e l'interesse materiale si uniscono per condannarci alla tribù: alle religioni occorrono fedeli, alle nazioni difensori, agli industriali consumatori, il che significa che a tutti occorrono bambini, non importa quello che ne sarà una volta diventati adulti. Ci spingono incontro alla catastrofe e non possiamo mantenere i nostri fondamenti se non andando alla morte, mai si è visto paradosso più tragico, mai si è vista assurdità più palese, mai ha ricevuto più universale conferma la prova che l'universo è una creazione del caos, la vita un epifenomeno e l'uomo un accidente. Non abbiamo mai avuto nessun Padre in Cielo, siamo orfani, sta a noi comprenderlo, a noi uscire dall'infanzia, a noi rifiutarci di obbedire a chi ci fuorvia e immolare chi ci vota all'abisso, giacché nessuno ci redimerà se non ci salveremo da soli.

Ma a che serve predicare a quei miliardi di sonnambuli che vanno verso il caos con passo uniforme, sotto il pastorale dei loro seduttori spirituali e sotto il bastone dei loro padroni? Sono colpevoli perché innumerevoli, le masse di perdizione devono morire affinché una restaurazione dell'uomo sia possibile. Il mio prossimo non è un insetto cieco e sordo, il mio prossimo non è neanche un automa spermatico, il mio prossimo non sarà mai un anonimo in preda a idee oscure e confuse, questi sono i vari aborti dell'uomo e noi lasceremo che confondano nella notte la loro gioia e il loro dolore egualmente assurdi. Che ci importa del nulla di questi schiavi? Nessuno li salva né da se stessi né dall'evidenza, tutto si appresta a farli precipitare nelle tenebre, furono concepiti dai capricci degli accoppiamenti, poi nacquero alla stregua di mattoni che escono dallo stampo, ed eccoli formare file parallele in cumuli che arrivano alle stelle. Sono uomini? No. La massa di perdizione non si compone mai di uomini, giacché l'uomo ha inizio soltanto a partire dal momento in cui la folla, tomba dell'umano, si estingue.

Potremo ricostruire l'universo quando sarà distrutto e gli uomini saranno divenuti più rari delle cose. Allora e soltanto allora il nostro Umanesimo non sarà più una vana parola in mezzo ai sordi e ai ciechi, giacché non moriremo più pei' il solo l'atto di udire e di vedere, come avviene ai nostri giorni, in cui non ci è concesso di concepire noi stessi nel timore di occupare troppo posto. Dove l'uomo è in eccesso, l'alienazione è il primo dovere, e le moltitudini lo adempiono, esse sono alienate e consenzienti ad un tempo, sono impotenti e possedute. Potremo ricostruire l'universo sulla tomba delle masse di perdizione, quelle masse generate dal caos e votate alla morte, che tutti i salvatori messi insieme, moltiplicati per mille, non riusciranno più a tirar fuori dall'abisso, giacché la salvezza non ha più senso quando si è in molti miliardi a pretenderla. Non si raddrizzano i mattoni in un muro, e l'ordine è un caos di muri che formano ormai un labirinto. Che cos'è l'uomo lì dentro? Un elemento sostituibile senza difficoltà, un elemento intercambiabile, sfornato in massa da un medesimo stampo.

I nostri peggiori nemici sono coloro che ci parlano di speranza e ci prospettano un futuro di gioia e di luce, di lavoro e di pace, in cui i nostri problemi saranno risolti e i nostri desideri appagati. A loro non costa niente rinnovare le promesse, ma a noi costa enormemente ascoltarli, e quel che abbiamo da guadagnarci sono solo idee sbagliate, più andiamo avanti e più queste idee diventano dominanti e più il giogo dell'equivoco ci piega, noi vacilliamo sotto un cumulo di nozioni o- scure e confuse, che vorrebbero essere scientifiche e ci fanno smarrire il ricordo di tutto quello che da ormai tre secoli ci aveva disincantati. La logomachia, chiamata dialettica, permette di dimostrare qualsiasi cosa, secondo le necessità del momento e l'interesse dei suoi dimostratori, perché abolisce i punti di riferimento insieme con le possibilità di resistenza: è la macchina per produrre il caos, fosse pure in nome dell'ordine, è davvero l'ultimo sforzo del nostro intelletto messo al servizio dell'assurdo e grazie al quale, la dissoluzione ha campo libero, con i suoi promotori che saranno gli ultimi a perire, dopo aver immolato tutto, continuando a sentirsi importanti nel nulla.
L'ordine prepara metodicamente la propria liquidazione osservando la disciplina che ci predica; gli scienziati moltiplicano le scoperte e l'ordine se le appropria, in preda alla follia; insomma, tutto si mette al peggio e noi perseveriamo, in nome della morale e della fede, nelle strade che a esso conducono; le tradizioni rivaleggiano in impostura e le invenzioni in malvagità, non sfuggiremo più a tale concorso di cose e l'ordine presiede all'accomodamento, in fondo al quale si spalanca il precipizio. L'assurdo ha la sua logica e noi ne sposiamo le fasi, magari crediamo di improvvisare, mentre non facciamo nulla che non rimandi a quel piano generale, che - senza volere - mettiamo in atto: è un meccanismo le cui migliaia e migliaia di ingranaggi discettano a lungo su una libertà che ritengono attributo dell'uomo, con l'ordine che si accontenta di farsene assurdamente portavoce. Siamo ciechi per dovere e ci affidiamo all'ordine, più cieco di noi e persuaso di essere chiaroveggente: è un raggiro a partita doppia e ormai nessuno sfugge al fallimento che tale operazione prepara in egual misura a tutti i popoli.


Le lezioni della Storia sono piene di eloquenza, ma noi non vogliamo più farci illuminare da esse, noi ricusiamo la Storia, al solo scopo di poter negare l'evidenza e di perseverare nelle nostre illusioni, noi crediamo nel miracolo, fosse pure abbandonandoci alla fatalità, ci lasciamo andare a ciò che ci trascina, sperando in un cambiamento che nulla giustifica, tranne la fede che abbiamo nell'utopia. È una sorta di delirio, che si è impadronito delle menti più fredde, più matematiche e più ciniche, è questo Io scotto che pagano all'idealismo, e il futuro si farà beffe di questi grandi calcolatori e di questi cosiddetti dialettici, in balia di idee oscure e confuse. Tra noi non vi è nessun responsabile che abbia il colaggio di prevedere la catastrofe e meno ancora di prenderne atto, l'imperativo categorico del nostro tempo è l'ottimismo, fosse pure sull'orlo del baratro, siamo ritornati alla magia verbale, scongiuriamo ed esorcizziamo, la cosa più strana è che la ridicolaggine dei nostri atteggiamenti sembra ormai nell'ordine delle cose, i nostri Capi dì Stato non sono più nient'altro che taumaturghi e noi, sotto di loro, non saremo nient'altro che vittime consenzienti.

Albert Caraco