giovedì 21 giugno 2012

I canti del meriggio

I canti del meriggio

I.
«In verità c’è un avvenire anche
per il male, e il meriggio più ardente
non è ancora scoperto dall’uomo».
F. Nietzsche “Così parlò Zarathustra”

Son solo, son solo! Solo e lontano...
ma che importa mai tutto ciò?
Sì, che mi importa?
Intorno a me si estende il deserto vasto e sconfinato ove gli abeti e i pini cantano — tra l’oro biondo del sole — le loro strane canzoni fatte con sinfonie di silenzio e musiche di mistero...
Anch’io canto!
Canto la canzone delle mie verità sanguinanti per tutte le anime insanguinate; canto la canzone del mio più grande e disperato meriggio: canto il poema solleonico della mia più calda estate!...
Ma canto soltanto per i miei fratelli solitari e ignoti: canto soltanto pei miei figli lontani...
Perché l’anima mia non è più un primaverile giardino cosparso di fragili rose fragranti; perché il mio cuore non è più uno scrigno vermiglio gonfio di vergini sogni.
Chi ha cantato il poema del mattino deve cantare il poema del meriggio. Ed io lo canto! Canto i solleonici canti della mia calda estate!
II.
Una volta sognavo...
Era la prima primavera festante della mia giovinezza!
Bei tempi in allora!...
Un misterioso ideale batteva sulle onde eteree le sue invisibili ali: il pianto della carne era illuminato dal riso dello spirito: il dolore umano si tramutava in me in un sogno armonico di bellezza futura!...
Sognavo i gran sogni della giustizia e della libertà... Della fraternità e dell’amore...
E per questo sogno vivevo; per questo sogno speravo; per questo sogno lottavo...
Avevo l’anima tutta cosparsa di fragili rose fragranti, ed il mio cuore era uno scrigno vermiglio gonfio di vergini sogni!...
Le mie pupille trasparivano di una luce rossa e dorata, e la mia fede era un drammatico «Sì» sentimentale che credeva e sperava...
Sì! Credevo in allora...
Credevo nella fratellanza; nella redenzione umana; nell’amore...
«Autoelevazione degli uomini...» «Elevazione delle folle...» «Ascensione dei popoli...» «sublimizzazione dell’umanità!...»
Ah! che gran poema di sogni la mia giovinezza!...
III.
Sulla via di tutti i nati ai grandi e generosi travagli — alle «virtù» prometee del pensiero — sta nascosto in agguato un demone liberatore.
Anch’io avevo il mio demone nascosto, ed un giorno mi attese al varco sorridente e sicuro...
Mi disse: «Io sono l’aquila dei culmini e il palombaro della profondità.
Vengo dall’eternità del passato e vado verso l’eternità del futuro.
Sono il Male eterno perché sono il Dolore. Sono il tragico No! che si perpetua. Lo spirito che nega e demolisce; la rivolta che libera e crea!...
Io sono le radici dell’uomo, l’io della vita. Sono lo spirito negatore delle tue più sotterranee profondità. E quando esco dalle mie paurose caverne per cavalcare i centauri del vento e fare urlare le mie verità sulla groppa del mondo, i fantasmi muoiono e gli uomini impallidiscono».
IV.
Me lo ha detto il demonio delle mie più sotterranee profondità. Colui che sa dire le terribili verità che fanno sanguinare...
Una volta il tiranno era dio.
Poi venne la famiglia e la società, il popolo e l’umanità!
Ma io ho parlato con colui che viene dall’eternità del passato e va verso l’eternità del futuro...
E li conosco tutti questi biechi fantasmi...
Ah, quanti fiumi di sangue, di sudore e di lacrime, gli ho veduto bere lungo il cammino dei secoli!...
Quante montagne di cadaveri gli ho veduto ingoiare!...
Quanti!...
Ed ogni morto che cadeva, mormorava: «Domani!»
«Domani?» «Dio e domani» «Umanità e domani» «Popolo e domani».
Ma oggi?
Ov’è dunque il mio eroe?
— Ove sono i miei fratelli solitari e ignoti, ove sono i miei figli lontani. Coloro che — o genii o forsennati — sappiano vivere e morire soli e liberati gridando — coscientemente e consapevolmente: «Io» «Oggi» «La mia libertà» «La mia realizzazione?».
V.
Son solo, son solo! Solo e lontano…
Una forte febbre mi martella la fronte e una sete nova mi arde: mi brucia la bocca…
I pozzi della plebe sono ormai da me troppo lontani, e le vergini sorgenti sono ancora per me ignoti misteri…
Sono ancora un Arco. Quando sarò una Vetta?

Luce di crepuscolo.
Ascolto il canto d’un uccello: lo guardo volare attraverso le trasparenze melanconiche d’un agonico Vespro e disperdersi laggiù nell’azzurro velluto delle ombre lontane.
Per una certa associazione di idee mi pare di vedere i sogni alati della mia giovinezza disperdersi anch’essi laggiù lontano, lontano, fra le ombre meste e tristi dell’oblio…
VI.
Non è stato niente. Solo un’ombra nostalgica di ricordo è passata attraverso la vivida luce del solleonico meriggio della mia calda estate.
Ora tutto è passato. La febbre mi martellava la fronte, la sete mi bruciava la bocca. Ho ripiegato su me stesso la causa della mia «necessità» e della mia «brama» dissetandomi alle sorgenti del mio sangue caldo ed alla pioggia del mio sudore amaro. Quest’auto-bevanda acre mi ha cagionato un delirio ebbro e folle che esalta e trasfigura.
Ora il miracolo della mia tragedia meridiana è compiuto.
Come Arco sono caduto, come Vetta m’innalzo nel mistero del vento e nella gloria del sole per dire le parole eroiche della mia esaltata trasfigurazione e della mia follia.
VII.
Ho parlato coll’ombra della mia «prima» solitudine. Mi ha detto: «Hai sognato la fratellanza con gli occhi chiusi nel velo della fede, ma quando li hai aperti nel sole della realtà, hai veduto il dramma tragico di Abele e di Caino».
Ho parlato coll’ombra della mia «seconda» solitudine ed ella mi ha detto: «Hai tanto sinceramente invocata l’amicizia pura, ma quando hai teso, con ansia, l’orecchio alla risposta della tua invocazione, hai inteso risponderti con un vivo tintinnio di metallo. Era il suono vile delle trenta monete di Giuda, che suonava ancora sul mondo».
Ho parlato coll’ombra della mia «terza» solitudine ed ella mi ha detto: «Hai invocata disperatamente la solidarietà vera fra gli uomini tutti ed al grido della tua disperazione ha risposto una beffarda sghignazzata sinistra fatta di calunnia e di scherno».
Ho parlato con l’ombra della mia «quarta» solitudine ed ella mi ha detto: «Hai innalzato tanti canti e poemi all’amore tra l’uomo e la donna, ma questo amore si è risolto in una sorda guerra fra i due sessi».
Ho parlato coll’ombra della mia «quinta» solitudine, ed essa mi ha detto così: «Tu credevi che l’io potesse diventare il noi perché l’uomo ha bisogno della società.
Ma non comprendesti che è proprio questo bisogno che rende l’uomo schiavo ed infelice? Tu credevi che ci fosse una via? Ma la via non c’era..... La vita è un cerchio chiuso (lastricata dal peso morto dei più ed arginata dalle maggioranze eternamente bestiali) entro il quale l’uomo è dannato ad una guerra perpetua di vitale conquista e di individuale possesso. L’uomo della vita non ha mai avuto, non ha e non avrà, che quello che lo autorizza ad avere la sua forza individuale e la sua propria capacità di potenza». E siccome a queste affermazioni della mia quinta solitudine, anch’io — come tu, o mio lettore maligno — crollai il capo, ella riprese a parlare, continuando così: — «Guai a colui che per o compassione o pietà verso il vecchio se stesso, teme la luce dell’io nuovo che viene. Tu tremi di sgomento e di paura. Sei incerto ed indeciso come qualche cosa che trema sull’orlo d’un abisso… Sei tu forse un nichilista cristiano? Ti spaventa questa tragica fatalità che pesa sulla realtà della vita? Sei forse un mio nemico? Ebbene, se così fosse, deponi — come i cristiani — la tua causa al di là della vita; ma io insegno a ponere la vita al di là del bene e del male. Là dove palpita e sfolgora l’io liberato. Là dove lo spirito negatore si erge contro l’idea società e la condanna: là dove i veri solitari cantano la libertà nella guerra!».
E quando l’ombra della quinta solitudine disparve, venne quella della «sesta» e prese a parlarmi così: «Io sono l’ombra di te stesso: uccidimi se vuoi essere solo e senza testimoni. La settima solitudine ti attende. Ella ti dirà il segreto estremo. Ti scioglierà l’enigma dell’ultimo mistero».

La «settima» solitudine mi ha parlato. Ma ciò che mi ha detto resta un mio segreto. Chi mi dà le parole per dire i misteri delle mie intimità più profonde?
Chi mi comprenderebbe?
O miei fratelli solitari e ignoti, non sentite voi, nelle vostre più oscure profondità, il ruggito di un «No» senza argomenti?
Ebbene quello è il mio «No» fratelli miei!
VIII.
Passa innanzi ai miei occhi una lunga teoria di macabre visioni.
Sono i biechi e mostruosi fantasmi della mia vecchia fede.
Hanno la bocca insanguinata e stringono dei morti fra i denti insanguinati.
Quei morti che cadendo mormoravan: «domani!…»
Il primo morto dice: «Io ho incendiato e rubato in nome di Dio e per la gloria di lui sono morto uccidendo».
Il secondo dice: «Io ho incendiato e rubato in nome della mia patria e per la grandezza di questa sono morto uccidendo».
Il terzo dice: «Io ho incendiato e rubato per il bene del popolo e per la libertà di questo sono morto uccidendo».
Il quarto dice: «Io ho rubato e incendiato per il bene dell’umanità e per amore di questa sono morto uccidendo».
Il quinto dice: «Io avevo l’anima gonfia di un grande e sublime ideale. Sognavo tutti gli uomini liberi, grandi e felici. Volevo che la libertà e l’eguaglianza, l’amore e la fratellanza avessero il possesso della vita e il dominio del mondo. E per la realizzazione di questo mio sogno — che il mondo non volle comprendere — io rubai e incendiai e sono morto uccidendo».
E dietro il cadavere di questi cinque schiavi assassini stanno divise cinque parti del mondo pronte a sgozzarsi a vicenda percorrendo la medesima via.

Dio, patria, società, popolo, umanità? Avvenire ideale?
Ma io sono una realtà e vivo oggi!
La realtà della vita è guerra? E sia! Ma io non sono una bestia sacrificale. Non voglio che il mio spirito sia schiavo: non voglio che il mio corpo sia sacrificato sopra nessun altare: non voglio che nessun mostro mi stritoli le ossa. Gridate pure il vostro anatema, o sacerdoti del popolo, o servi della patria, o apostoli dell’umanità.
Gridate pure il vostro crocifige contro di me. Gridate al feroce egoista, ma io non mi commuovo. Io canto le mie iconoclastiche canzoni di negazione e di rivolta. Io canto il mio poema meridiano.
— Il poema solleonico della mia calda estate!
IX.
L’Anarchia è, per me, un mezzo per giungere alla realizzazione dell’individuo; e non l’individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se così fosse anche l’Anarchia sarebbe un fantasma.
Se i deboli sognano l’Anarchia come un fine sociale, i forti praticano l’Anarchia come un mezzo d’individuazione. I deboli hanno creato la società e dalla società è nato lo spirito della legge. Ma colui che pratica l’Anarchia è nemico della legge e vive contro la società. E questa guerra è fatale ed eterna. È fatale ed eterna perché caduto lo Czar sorge Lenin, abolita la guardia regia viene la guardia rossa… L’anarchismo è un patrimonio etico e spirituale che è stato, è, e sarà sempre di una piccola falange aristocratica, e non delle folle e dei popoli. L’anarchismo è tesoro e proprietà esclusiva di quei pochi che sentono nelle loro più sotterranee profondità, echeggiare il grido di un «No» senza argomento!
X.
Io appartengo alla razza più estrema dei vagabondi dello spirito: alla razza «maledetta» dell’inassimilabile e degli insofferenti. Non amo nulla di ciò che è conosciuto, ed anche gli amici sono quelli ignoti.
Sono un vero ateo della solitudine: un solitario senza testimoni!
E canto! Canto le mie canzoni intessute d’ombra e di mistero…
Canto per i miei fratelli ignoti e pei miei figli lontani…
Mi sono liberato dalla schiavitù dell’amore per sentirmi libero nell’odio e nel disprezzo…
Perché io non sento con l’anima della folla. Io non peno le pene del popolo. Io non credo ad una possibile armonia sociale.
Io sento coll’anima mia, peno le mie terribili pene, credo soltanto in me stesso: nel mio profondo dolore. Quel dolore che nessuno comprende e ch’io amo: ch’io amo attraverso l’odio e il disprezzo delle umane menzogne. Perché io lo amo questo mio dolore. Lo amo come tutte le cose mie. Come le mie amanti ideali; come i miei fratelli ignoti; come i miei figli lontani!


XI.
Ove sono dunque coloro che — genii o forsennati — sanno vivere e morire soli e liberati, gridando — coscientemente e consapevolmente: «Io» «Oggi» «La mia libertà» «La mia realizzazione»?
O miei fratelli, ove siete?
O razza «maledetta», quando sarà compresa la vostra profonda «umanità»? Ma, è poi necessario che tutto ciò sia compreso?
Anche la più pura bellezza non vive forse ignorata?
XII.
Com’è terribile la mia tragedia, com’è strano e profondo il mio mistero.
Io sogno ancora!
Sogno amici mai conosciuti, amanti mai possedute, idee mai create, pensieri mai pensati, uomini mai vissuti, fiori mai odorati, foreste mai calcate, oasi mai scoperte, soli mai veduti…
Sogno!
Sogno una grande e tremenda rivolta di tutti coloro che sono impalliditi nelle lunghe attese. Sogno il risveglio satanico di tutto ciò che vive incatenato… Deve essere bello accendere i roghi nella notte!… Vedere i centauri della morte correre tutte le contrade del mondo cavalcati e spronati dai tragici eroi impalliditi nelle lunghe attese: Vedere gli spiriti della rivolta e della negazione ballare sovrani sul mondo!…
Ahimé! Io sono sempre l’eterno sognatore di una volta!…
Eppure la voce della realtà me lo dice: Morto lo Czar sorge Lenin… Abolita la guardia regia viene la guardia rossa…
Sì, io sono un sognatore dell’impossibile, ma l’Anarchia la pratico e non la sogno. L’umanità di oggi l’ho condannata e contro di lei — e non dentro di lei — tendo l’arco della mia volontà per realizzare me stesso. Perché oggi mi disseto soltanto alla sorgente delle mie bellezze interiori.
O miei fratelli ignoti e solitari, che ne sarà dei nostri figli lontani?
Eppure vi deve essere un avvenire anche per il male, perché il meriggio più ardente non è ancora scoperto dall’uomo.
Perché se oggi la nostra «fatalità» ci danna a vivere contro il mondo, la loro «fatalità» di domani non potrebbe eleggerli a danzare liberamente sul mondo?
«Domani!»
Ma oggi?
Oggi non ci resta che urlare il tragico No della nostra negazione e della nostra rivolta.
Per la realizzazione della nostra individualità; per la conquista della nostra libertà; per il possesso pieno ed integrale della nostra vita! Perché noi — i vagabondi — siamo gli inassimilabili della rivolta e della negazione!
Renzo Novatore

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