venerdì 13 luglio 2012

LUCE NELLE TENEBRE

ultimo capitolo di "La bandiera dell'anticristo"
 

LUCE NELLE TENEBRE
Il cristiano non pensa. Se pensa non sarebbe più cristiano. Perché comprenderebbe la spaventosa assurdità dei dogmi che la sua fede gl’impone e le miserabili contraddizioni fra le quali lo costringe a dibattersi.
Prendiamo, ad esempio, l’eucaristia. Essa non è, come comunemente si crede, un semplice simbolo. A tale riguardo la chiesa non transige ed il Concilio di Trento lancia la scomunica maggiore contro colui che oserà negare «che il corpo, il sangue, l’anima e l’esistenza divina, in una parola Cristo tutto intero, non siano in realtà entro l’ostia ed il calice». (Canone I).
Ed aggiunge al canone VIII: «Se qualcuno dice che Gesù, nell’eucaristia, non è mangiato che spiritualmente, e non sacramentalmente e realmente, colui sia anatemizzato».
Il comunicando mangia dunque effettivamente l’uomo-dio come nel banchetto totemico il selvaggio australiano mangia l’animale che considera sacro. Ed entrambi fanno finire nel loro stomaco la divinità che amano, rispettano, adorano, venerano.
Lo stomaco digerisce i cibi. Quindi digerisce anche l’ostia miracolosamente trasformatasi in tutta la carne e in tutto il sangue di Cristo. E, dopo la digestione, una parte del corpo di Gesù diventa nostro sangue; un’altra parte passa nell’intestino; da dove poi segue la sorte d’ogni cibo da noi mangiato e digerito e perciò è anche la sorte dell’ostia della quale, dopo la consacrazione, non resta che l’apparenza, mentr’essa, in realtà, si è mutata nel corpo e nel sangue del Nazzareno (Concilio di Trento, Canone II).
Cristo, se esistesse veramente e fosse dio, dovrebbe sbattere all’inferno coloro che, esaltandolo ed adorandolo, lo riducono materia cambronniana e lo relegano nel tempio del pozzo nero.
Tempo fa nel parlamento della repubblica (del S. Cuore) italiana il molto onorevole democristiano Monterisi ha tuonato contro l’anarchico Donato Giordano, custode del cimitero di Canosa, accusandolo di avere bruciato il cadavere di un noto fascista.
L’imputato è stato assolto in istruttoria, per non avere commesso il fatto, da magistrati che non erano certo ben disposti verso lui per le idee che professa.
Quindi ciò dimostra che il troppo onorevole baciapile Monterisi ha calunniato un innocente. Ma se anche il fatto fosse risultato vero, il meno indicato a scandalizzarsene sarebbe stato proprio uno di quei zelanti sostenitori della chiesa cattolica la quale di vivi e di morti ne ha bruciati a bizzeffe.
Per i vivi hanno pensato gl’inquisitori. La sola Inquisizione di Spagna, iniziatasi nel 1209, dette 429.067 vittime secondo i dati cattolici (Bandiera Catholica, giornale clericale spagnolo, 29 luglio 1883). Aggiungiamo a queste tutte le altre vittime arse vive dall’Inquisizione negli altri paesi e otterremo la cifra di milioni di assassinati.
Nemmeno il pentimento valeva a salvare gli eretici. Con una mirabile applicazione dei principi cristiani di amore, carità e perdono delle offese, i preti non risparmiavano coloro stessi che facevano ammenda dei presunti falli. Un editto del 1535 di Maria d’Ungheria stabiliva che «in caso di pentimento gli uomini siano uccisi con la clava, le donne sepolte vive. Se non vi è pentimento gli uomini e le donne siano bruciati vivi».
La Cecilia nella sua «Storia segreta delle famiglie reali» narra che nei sotterranei dell’Inquisizione di Madrid i buoni padri domenicani immettevano il piombo bollente liquefatto nella natura delle donne accusate di eresia.
E il re Filippo II sadico e mostruoso paladino del fanatismo cattolico assisteva a quegli spettacoli, godendone.
L’Inquisizione fu il prodotto di un’alleanza fra la chiesa e la monarchia, alleanza che, per circa cinque secoli, permise ai tribunali ecclesiastici di giudicare e condannare a morte gli eretici che poi venivano consegnati al braccio secolare per la esecuzione della sentenza. Ed ancora oggi la chiesa, attraverso i suoi teologi, rivendica il diritto di ripristinare quello stato di cose.
Nell’opera «De stabilitate et progressu dogmatis», approvata dal Papa Pio X e stampata nel 1910 nella tipografia del Vaticano, il gesuita Lèpicier scriveva: «Se i tempi non fossero così perversi per la Chiesa, questa dovrebbe denunziare gli eretici al potere civile, e i re dovrebbero sterminarli nei loro regni sotto pena di scomunica e di perdita del trono».
Per quanto poi concerne i morti è da notare che i preti cattolici hanno bruciato anche quelli.
I Crociati di Simone di Montfort che, accompagnati e benedetti dal legato pontificio, sterminarono nel 1209 tutti gli albigesi, aprirono a Bèziers ed altrove le tombe dei vescovi eretici e ne arsero i cadaveri. Ma c’è di più. Alcuni secoli prima Papa Stefano II, succeduto a papa Formoso nella cattedra di S. Pietro, fece disseppellire il cadavere di Formoso ch’era stato, in vita, suo acerrimo nemico, e lo fece processare e condannare. Quindi, alla presenza di Stefano e del clero e del popolo tutto, il carnefice mozzò una mano del morto, gl’insozzò il viso e poi lo bruciò interamente, gettando le ceneri nel Tevere.
Dunque se anche il custode del cimitero di Canosa avesse fatto quello che il molto onorevole Monterisi gli ha rimproverato, non potrebbe proprio uno zelante cattolico indignarsi per tanto poco. Perché l’anarchico Donato Giordano avrebbe imitato, debolmente, un pontefice romano.
Mai l’uomo è stato tanto schifosamente pecora quanto lo è ora. Mai ha marciato cosi bene nei ranghi, mai ha segnato il passo con perfezione maggiore, mai ha sentito un timore reverenziale per l’autorità simile a quello che sente in pieno, stupido, ventesimo secolo. L’umanità si è trasformata in una moltitudine di fantocci che si sforzano per rendersi sempre più uguali gli uni agli altri e per pensare, sentire ed agire in un unico modo, ossia come ì capi stabiliscono.
Basta che appaia l’uniforme dì un poliziotto e tutti cominciano a tremare e ad inchinarsi. Trent’armi fa, a Napoli, quando una guardia municipale comunicava ai vetturini da nolo che, per ordine del Sindaco, non potevano fermarsi in una certa piazza o in un altro luogo, tutti i vetturini, per istintiva ribellione alla legge, sostavano nel luogo vietato. E se la guardia voleva elevare contravvenzione, essi scendevano dalle carrozze, con le fruste in pugno, e la facevano fuggire. Oggi un tale spettacolo d’indisciplina non si osserva più; prima ancora che il vigile abbia finito di parlare tutti gl’i autisti e i vetturini eseguono i suoi ordini.
Gl’imbecilli dicono che questo è progresso. Ma io aggiungo: nel pecorismo. La vita è sempre più meticolosamente ordinata, regolata, uniformata, civilizzata, ma gl’individui diventano tante marionette identiche che si muovono come vogliono i burattinai che tirano i fili. E gl’impostori, i politicanti, i demagoghi profittano del generale gregarismo per metamorfosarsi in duci venerati, in capi eccelsi, in esimi manovratori dei pupazzi che credono, ubbidiscono e si lasciano fregare.
Oggi un qualunque pulcinella che urla in piazza: «ho scoperto la ricetta infallibile della felicità universale. Ho trovato il paradiso terrestre. Seguitemi e vi ci condurrò», trova subito centomila tessi o un milione di pecore che bevono le sue panzane, gli battono le mani e si fanno dirigere e comandare, da lui. Cosi il pulcinella forma un partito; e, se nella lotta contro i pulcinelli rivali, che sono alla testa dei partiti opposti, riesce ad ottenere la vittoria diventa capo dello Stato e dittatore. Allora, come prima cosa, comincia ad opprimere, a sfruttare a spogliare il popolo idiota per ben riempire le tasche sue e quelle dei pulcinellini che lo circondano, dei gerarchi e gerarchetti che lo aiutano ad imbonire la massa. Ma questa massa quanto più è frustata e tosata, tanto più continua a curvare il groppo e a gridare: «il duce è grande. Il duce è sublime. II duce ha sempre ragione». E il duce, a furia di sentir ripetere ch’egli è grande, è sublime, è un dio in terra; a furia di veder tutti curvi che prodigano laudi e bruciano incenso davanti ai suoi piedi; si esalta, si suggestiona finisce per credere veramente ch’egli è il padreterno o ch’è investito di una missione divina. Per conseguenza vuole cambiare la faccia del mondo, vuole creare la nuova umanità di tipo unico, cioè del tipo che a lui piace, vuole immortalare il suo nome, estendendo il suo dominio sull’intero globo e realizzando in esso il suo ideale. Nella sua anima impera uno strano miscuglio di egoismo e di fanatismo e la sua volontà è determinata non solo dal bisogno di opprimere e smungere i gregari per vivere bene la sua vita, ma anche dall’assillo di utilizzare questi gregari come mezzi per la creazione del suo capolavoro, del nuovo ordine universale ch’egli vuole instaurare. Quindi Hitler scatena la guerra sognando la Germania padrona della terra e la razza tedesca che lo adora come dio e domina ed elimina le razze inferiori. Quindi Mussolini farnetica la ricostruzione dell’impero romano e lancia l’Italia allo sbaraglio. Quindi Stalin riduce nella miseria e nella schiavitù duecento milioni di slavi per procurarsi la forza e la ricchezza che gli permetteranno domani d’imporre la bolscevizzazione del mondo.
Ma se questi falsi grandi uomini, se questi despoti odiosi, per metà preti e per metà filibustieri, possono calpestare l’umanità e travolgerla nel abisso, la colpa è pur sempre dei popoli che li innalzano, li seguono e si fanno scannare. Se non c’è il servo non può esservi il padrone. Ergo: gli uomini hanno ciò che meritano.
E Mussolini, Hitler, Stalin, Franco, Peron, ecc., sono i degni pastori del gregge umano del ventesimo secolo, stupido e rognoso.
Ma per distruggere il gregarismo non basta trasformare l’organizzazione, politica ed economica, della società, passare dallo stato borghese allo stato socialista, o pure abolire lo stato e sostituirlo con la federazione dei comuni autonomi che sarebbe un nuovo Stato camuffato.
Per annientare il gregarismo occorre risvegliare in ogni individuo l’istinto naturale della libertà, l’insofferenza d’ogni catena, i sentimenti individualisti, il bisogno dell’espansione. Per natura, l’uomo nasce anarchico. Il bambino, appena uscito dal grembo materno, vuole muoversi a piacer suo, allungare o ripiegare le gambe, tendere le braccia, rivoltarsi nella culla; e quando la madre lo stringe nelle fasce che paralizzano la scioltezza dei suoi movimenti, egli si ribella e protesta col pianto. Il bambino sente dunque istintivamente che la libertà personale è la condizione necessaria per vivere con intensità. Ma questa sua tendenza spontanea viene subito compressa dai genitori che gl’impongono, con l’educazione, la suggestione e il castigo, di non fare quello ch’egli vuole ma solo ciò che babbo e mamma comandano.
Divenuto più grandicello il bambino viene mandato nella chiesa dove il prete gl’insegna ad ubbidire a Dio e a temerne l’ira. Poi entra nella scuola nella quale il maestro gli dice che non deve vivere per sé ma per rendersi utile alla società ed assolvere i doveri che questa gli prescrive. Infine, divenuto adulto, fa il suo ingresso nella vita sociale ed è costretto ad uniformarsi a tutte le leggi, le regole, le convenzioni per evitare le pene della galera, i tormenti della miseria e il disprezzo e le persecuzioni della gente onesta. Così, poco a poco, sottoposto a tante influenze narcotizzatrici e a tante coazioni soffocatrici, l’uomo ricaccia nei meandri del suo subcosciente l’istinto naturale della libertà ed acquista abitudini e bisogni gregari. Ma è appunto da tali abitudini e da tali bisogni ch’e necessario affrancarlo. E per riuscire a canto occorre convincerlo ch’egli non è nato per ubbidire ma per essere libero; che non deve soffocare i suoi impulsi naturali ma seguirli senza vergognarsene; che non deve sottostare a nessuna disciplina e a nessuna norma, ma fare tutto quello che gli pare e piace perché nulla esiste che sia proibito o permesso, ma tutto è lecito per chi ne ha la forza.
Se molti uomini si convinceranno di ciò e agiranno in conseguenza, la società organizzata si sfascerà, cadranno tulle le catene religiose, etiche e giuridiche, e avremo il ritorno alla natura e il trionfo della libertà istintiva dell’individuo. Se invece solo pochi uomini rimarranno convinti, questi pochi ostacoleranno, col pensiero e con l’azione, la crescenza spaventosa del gregarismo nella nostra specie e l’assoluta identificazione dell’uomo con la pecora, ma non potranno rinnovare il mondo.
Trotskij narra nelle sue memorie che, avendo chiesto ad un anarchico, suo compagno di galera, come avrebbero funzionato le ferrovie in un mondo senza autorità e senza Stato, ebbe questa risposta: «Se non potranno funzionare, ne faremo a meno». Allora, aggiunge Trotskij, compresi che non valeva la pena di parlarne più; cioè che l’Anarchia è un’assurdità.
Ma un tale giudizio non può essere dato che da chi è affetto dall’inguaribile miopia dei marxisti.
La libertà è per l’uomo mille volte più necessaria di tutti i treni, le macchine, gli aeroplani e le radio. Un individuo libero nel mezzo di un bosco dove vive da selvaggio si sente soddisfatto e contento come non è il miserabile gregario imprigionato nella civiltà e costretto a fare sempre quello che vogliono gli altri e mai ciò che lui vuole.
Con ragione i filosofi cinici identificarono la felicità con l’indipendenza. Antistene e Diogene insegnarono che l’uomo deve cercare di bastare quanto è più possibile a se stesso e deve appagare i soli bisogni naturali, rinunziando a quelli artificiali che lo rendono schiavo della società. L’uomo vero ch’essi intendevano realizzare era l’uomo dello stato di natura; famiglia, città, diritti politici erano convenzione e artificio per i cinici che dichiaravano che il saggio è cittadino del mondo.
Prima ancora, i sofisti avevano compreso che l’anarchia è la sola forma di vita per la quale l’uomo è nato. E Protagora, negando l’esistenza d’ogni norma universale, aveva affermato che l’individuo è la misura di tutte le cose; e Callicle si era scagliato contro l’educazione che toglie ai fanciulli ogni natio vigore, li rende inetti, li uguaglia tutti e li avvezza all’ubbidienza servile; e Archelao aveva detto che il bene e il male non sono per natura ma per convenzione, che il più forte fa la legge e stabilisce anche ciò che bene e ciò ch’è male, che la legge è fatta solo per l’uomo che non ha la forza o l’audacia di sottrarvisi, e chi ha per sé la forza può ridersi di tutte le leggi, e ciò che appare giusto può ben dimostrarsi ingiusto.
Nel medioevo il filosofo arabo Abubacher nel suo romanzo «Il vivente» dimostrò la superiorità della vita libera e senza freni dello stato di natura sulla vita, schiava ed infelice, che vive l’uomo nella civiltà.
Sopravvenuti i tempi moderni il fine Rabelais suggeriva all’uomo «fais ce que veux», e nel secolo scorso Stirner e Nietzsche demolivano tutte le pastoie religiose, morali, sociali che opprimono l’individuo e incitavano quest’ultimo ad appagare il suo egoismo senza curarsi di altro.
Dunque, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, dei grandi pensatori, non asserviti al gregge e ai suoi pastori, hanno fornito la giustificazione razionale di quel profondo bisogno che gli uomini non addomesticati avvertono: vivere, seguendo la propria spontanietà, nella più ampia libertà.
Se filosofi appartenenti a scuole diverse hanno riconosciuto in ogni epoca che il fine dell’uomo non è sottomettersi agli altri ma sciogliersi da tutti i ceppi per muoversi a piacere suo, ciò significa che l’Anarchia non è un’assurdità come riteneva Trotskij; mi è lo stato di natura che, se sarà restaurato, offrirà nuovamente agli uomini la gioia di esistere che essi hanno perduto, da millenni, e che ancor peggio perderebbero nella caserma bolscevica, trotzkista o staliniana.
«Caro Martucci, quando si parla con voi, ci si sente bestia. Solo che bestie non potremo ritornare tutti perché l’uomo si è abituato alla civiltà e non sa vivere fuori da questa».
Così mi ha detto una giovane e graziosa pittrice. La quale, evidentemente, ha voluto ripetere nei miei riguardi il giudizio che Voltaire emise e su Rousseau; «Quando lo si legge si avverte il bisogno di camminare a quattro gambe».
E a lei è sembrato che un simile giudizio fosse più adatto per me che per Rousseau. Perché mentre Gian Giacomo, pur sostenendo la superiorità dello stato di natura sulla vita civile, credeva impossibile un ritorno ad esso dell’intero genere umano e consigliava a quest’ultimo di accettare la democrazia come il minor male necessario, io penso invece che la nostra specie potrebbe ritornare o riavvicinarsi ai primordi. Cioè potrebbe risvegliare in sé gl’istinti sopiti e le tendenze naturali che la spingono verso la libertà più sfrenata; ripudiare ogni legge, ogni autorità, ogni disciplina, ossia lutto quello che rappresenta la condizione indispensabile per la conservazione della società organizzata e della civiltà artificiale; e realizzare una vita anarchica che si svolgerebbe attraverso innumerevoli forme le quali andrebbero dallo stato primitivo, puro e semplice, allo stato semiprimitivo fino alla libera civiltà, aderente alla natura e mai staccantesi da questa, che sarebbe prodotta da gruppi e da comunità di contadini, di artigiani, di artisti e di pensatori, liberamente associati.
Ma ad una tale vita non saprebbe più adattarsi l’uomo che ha acquistato abitudini gregarie e bisogni artificiali, osserva la pittrice. Però io richiamo la sua attenzione su di un fatto: l’uomo si è abituato alla scienza del gregge la giudica bella e buona, la ritiene necessaria, coltiva i sentimenti pecorili e i bisogni innaturali che la Società gl’instilla; ma in lui rimane pur sempre, soffocato e represso, il bisogno istintivo della libertà e soffre per l’impossibilità di soddisfarlo. Prendiamo, ad esempio, l’operaio. Egli si è abituato ad entrare ogni mattina alle sei, quando fischia la sirena, nella fabbrica, imbrancato fra i compagni. Si è abituato a rimanere per otto ore nel suo reparto, compiendo sempre automaticamente gli stessi gesti e stancandosi in un lavoro che non lo appassiona perché non richiede l’impiego dell’intelligenza e della capacità creatrice ma è meccanicamente eseguito. Tuttavia per quanto sia abituato, per quanto sia convinto che quella vita è necessaria e deve continuare sempre nello stesso modo, l’operaio soffre sentendosi rinchiuso nella fabbrica senza poterne uscire prima che l’orario sia finito; soffre quando, affranto, non può interrompere il lavoro e riposarsi qualche minuto perché sorvegliato dall’occhio poliziesco del capo reparto; soffre quando quest’ultimo lo rimprovera e fa la voce grossa. Il che dimostra che l’istinto non si adatta mai completamente alla vita schiava della galera industriale.
Il soldato ritiene che sia suo dovere servire la patria e ubbidire ai superiori; però la disciplina della caserma non gli piace, gli ordini, sovente, lo irritano, vorrebbe fuggir fuori ed essere libero. Si piega infine, ma si piega con dolore, vincendo la sua natura.
Il fratello che avverte un impulso sessuale per la sorella, soffoca subito tale impulso se è, come dicono i moralisti, un uomo onesto, e sente vergogna di sé. Però egli soffre per il mancato appagamento del suo bisogno incestuoso.
L’affamato che, con occhio cupido, guarda attraverso la porta del ristorante i cibi succulenti che mangiano i signori, tende istintivamente a lanciarsi ad afferrare i piatti, a riempire lo stomaco vuoto. Si frena pensando che sarà arrestato, condannato come ladro, coperto d’ignominia. Ma spasima frenandosi.
In tutti, dunque, anche nell’individuo più gregarizzato si rivela la tendenza a soddisfare i propri bisogni a fare come gli pare, a muoversi a piacer suo. Questa tendenza il gregario cerca soffocarla in sé; ma non riesce mai a distruggerla del tutto. La indebolisce reprimendola continuamente, ma mai può annientarla. Anzi in taluni la repressione esaspera la tendenza coartata.
Quindi se gli uomini si decidessero a non imbrigliare più la loro natura e a seguirne gl’impulsi, trattenendoli solo quando un’estrema necessità lo esige e la forza della volontà lo consente, allora essi, restituiti alla spontaneità per la quale sono nati, sentirebbero un piacere intensissimo e si troverebbero tanto a loro agio che rinunzierebbero facilmente alle abitudini gregarie e ai bisogni artificiali succitati dalla società per mantenere la schiavitù. E i loro figli, generati in un ambiente libero, allevati naturalmente come l’Emilio di Rousseau, sarebbero ancora più naturali e spontanei dei loro padri. L’umanità, infine ritroverebbe la sua vita.
Del resto l’odierna civiltà industriale meccanica è destinata a scomparire anche se non vi sarà il risveglio anarchico dell’individuo umano. E dovrà morire per la stessa ragione per la quale sono morte le altre civiltà che l’hanno preceduta. Perché si sono staccate troppo dalla natura, si sono contrapposte ad essa e, con la pretesa di migliorarla e correggerla hanno spinto gli uomini e soffocarla con i loro freni e a falsarla con gli artifici. E la natura che, se cambia vuole cambiare da sé non per costrizione dell’uomo, si si è vendicata determinando gli uomini a distruggere le civiltà e
loro stessi.
Alcuni scrittori sostengono che gli abitanti della sommersa Atlantide avevano raggiunto un grado elevatissimo di cultura e d’incivilimento. Essi erano riusciti a scoprire e a dirigere una misteriosa forza della natura, una formidabile energia ipnotica, il Vril, col quale agivano non solo sugli altri uomini ma anche sulle cose materiali. Così operavano prodigi incredibili, costruivano monumenti giganteschi obbligando i macigni a sovrapporsi, deviavano con la volontà il corso dei fiumi, ecc. Ebbene essi finirono col servirsi del Vril nelle loro guerre intestine e provocarono tali cataclismi che
sprofondarono il continente nel mare.
Ora, se in tutto ciò vi è esagerazione e fantasia, non è però da escludere che l’Atlantide e gli abitanti — dei quali anche Platone assicura che sono realmente esistiti — siano scomparsi in seguito all’uso di una misteriosa forza naturale che avevano scoperto e largamente impiegata.
Gli antichi egiziani erano riusciti anch’essi ad impadronirsi di energie sconosciute e si dice che i templi di Tebe fossero illuminati da una magica luce simile a quella del Sole. Pure, guerre e flagelli d’ogni genere distrussero la civiltà egiziana che non risorse mai più.
Attualmente noi, dopo aver compresso la natura in tutti i modi, dopo di avere turbato il suo equilibrio con ogni sorta di sovversioni, dopo che abbiamo impiegato alla cieca certe sue forze che non sappiamo da cosa provengono e quali effetti producono nei rapporti tra gli elementi cosmici, siamo giunti al punto di disintegrare l’atomo e di sprigionare quella formidabile energia che la natura ha concentrata tutta nella particella piccolissima di materia perché, per la natura, è necessario che in essa rimanga. Noi, invece, abbiamo voluto impadronircene e servircene per i nostri fini. Ma sarà proprio questa energia da noi imprudentemente sprigionata ed usata, che ci distruggerà.
La prossima guerra che scoppierà inevitabilmente — se una rivolta anarchica degli uomini contro i loro governi, le loro forme sociali e la loro tirannica civiltà non saprà prevenirla — sarà combattuta con la bomba atomica. E centinaia di queste bombe annienteranno, con la loro spaventosa potenza distruttiva, non solo la civiltà industriale meccanica, non solo le immense metropoli, ma anche l’intera specie umana.
Probabilmente moriremo tutti. Ma potrà anche accadere che pochi riusciranno a salvarsi. Costoro, però, saranno affetti da degenerazione dovuta agli effetti dei raggi provenienti dalla dissoluzione dell’atomo. Nasceranno creature corrotte da vizi fondamentali del corpo, bambini con sei dita e bambine con otto paia di mammelle, (1) come ha previsto lo scrittore Aldous Huxley nel suo recente romanzo «Ape and Essence» (La scimmia e l’essenza). I sopravvissuti, ridotti in uno stato inferiore a quello bestiale, non sapranno più coltivare né tessere, anzi non potranno più coltivare perché il terreno sarà stato consumato dalle erosioni e sterilito dai raggi. E per difendersi dal freddo dovranno scavare fra le macerie i cadaveri e togliere loro i vestiti.
Agli uomini dunque, s’impone oggi il dilemma: o ritornare alla natura di cui sono parte e armonizzare col tutto senza più pretendere di cambiarlo, di correggerlo di governarlo; o continuare a tiranneggiare la natura per essere poi annientati dalla rivolta di essa e respinti allo stato delle bestie inferiori al di sotto dei serpenti e dei rospi.
L’uomo è avvisato. Scelga come vuole.
La rivista «L’Unique» giugno 1949, dimostra, con dati statistici, lo spaventoso aumento della specie umana che avanza allegramente verso la cifra di tre miliardi d’individui e finirà per morire di fame perché i prodotti della terra non basteranno a soddisfare i bisogni di tutti. E da quest’amara previsione l’organo di Armand — partigiano della limitazione delle nascite — desume la necessità di «proteggere la natura contro i suoi propri eccessi».
Però io credo che la superpopolazione del globo non sia dovuta ad un eccesso della natura, ma alla civiltà, alle morali e alle leggi che l’uomo si impone.
La natura ci ha dato la tendenza ad appagare la nostra sessualità in un modo che conduce alla riproduzione. Ma ci ha dato anche la tendenza a cercare, oltre questo modo, altre forme di piacere erotico che escludono la conseguenza dei figli. (1) L’inclinazione al cunnilinguismo nel maschio e al fellatorismo nella femmina, il bisogno del coito anale che, da molti, è più apprezzato del coito comune, e tanti altri impulsi che ci spingono verso le cosiddette depravazioni, provengono dalla natura e permettono la soddisfazione di esigenze eterosessuali non causanti la procreazione. E tale istinto esiste sia negli uomini, civili e selvaggi, sia nelle bestie. Karsch, nella sua interessante opera «Uranismo o pederastia e lesbismo fra gli animali», ha dimostrato che l’omosessualità è diffusissima nei mammiferi, uccelli, pesci, insetti, ecc. Dunque se l’uomo appagasse le sue diverse tendenze secondo il capriccio dell’istante; se cioè soddisfacesse or questa, or quella tendenza nel momento in cui si manifesta più forte delle altre, allora sarebbe portato a godere in vari modi e le nascite diverrebbero meno frequenti.
Invece, da millenni, la civiltà prescrive all’uomo, attraverso le sue morali e le sue leggi, di godere in un modo unico, ossia nel modo che causa la riproduzione. Moltissimi che sentono il bisogno di gustare altre forme di piacere, sono costretti ad astenersi perché terrorizzati dall’idea del peccato che commetterebbero, della punizione divina che piomberebbe sulle loro teste e del disprezzo con cui gli uomini li bollerebbero se sapessero che essi sono depravati e amorali. Altri ancora, che se ne infischiano dei pregiudizi; debbono rinunziare ugualmente alle voluttà proibite per paura della repressione legale e del carcere. Quindi, ad eccezione degli anticonformisti che sfidano la società o riescono a soddisfarsi nascosta mente la grande maggioranza degli uomini è obbligata a sfogare la propria libidine nella sola forma sessuale permessa. E allora come stupirsi dell’impressionante aumento della specie e perché darne la colpa alla natura che, se lasciata libera, non avrebbe prodotto eccessi?
Nello stato primitivo non esiste proprietà privata: la terra e tutte le risorse della natura sono a disposizione di tutti e ciascuno può servirsene come meglio crede. Nello stato di civiltà alcuni uomini si sono impadroniti della terra e di ogni altro mezzo di produzione creato dalla natura o dal lavoro umano, ed hanno detto: questo è nostro.
Gli altri, cioè la stragrande maggioranza degli uomini rimasti privi di ogni cosa, debbono rassegnarsi a lavorare come schiavi per conto dei proprietari che li sfruttano esosamente, pagandoli con miseri salari. E coloro che i padroni non ingaggiano, coloro che rimangono disoccupati sono condannati a morire lentamente di fame. Se si ribellano, se si servono di qualunque mezzo per strappare ai signori quel pane che i signori loro negano, lo Stato li sbatte in galera o li uccide sulle piazze e tutti i pecoroni, onesti e perbene, li condannano.
Perfino Errico Malatesta, che si dichiarava anarchico e predicava l’espropriazione rivoluzionaria della proprietà privata, definì «ladro volgare e delinquente» l’anarchico individualista Jules Bonnot che, insieme a pochi compagni, negli anni 1912 e 13, assaltò e svaligiò, con audacia incredibile, parecchie banche e gioiellerie di Parigi; e cadde infine, con l’arma in pugno, in un cruento conflitto con la polizia che cercava arrestarlo.
Secondo Malatesta l’azione di Bonnot era da deprecare perché l’espropriazione dev’essere collettiva e non individuale; con la prima si ottiene una trasformazione radicale della società umana e la eliminazione dei mali che la proprietà privata produce; con la seconda, invece, tutto rimane com’è e non si ha che il passaggio della proprietà da un individuo all’altro.
Il ragionamento di Malatesta sembra che fili, ma non fila affatto. Perché se io, anarchico, incito gli schiavi alla rivolta e all’espropriazione dei beni che dovranno essere messi in comune; e questi schiavi, paralizzati dal gregarismo, istupiditi dai precetti religiosi e morali, terrorizzati dalla legge e dal gendarme, non mi ascoltano e sopportano rassegnatamente la frusta e la fame; allora io non posso rimanere pecora perché pecore vogliono rimanere gli altri. A questi non sono legato, non sono costretto ad agire com’essi agiscono, ma debbo vivere per me, a modo mio. Debbo realizzare immediatamente la mia completa liberazione che, per me, è più importante della liberazione di un’umanità che bacia la mano che la sevizia. Dunque insorgo da solo; e se riesco e sfuggo alla morte, ho i mezzi per vivere bene, per non farmi sfruttare, per procurarmi soddisfazioni e per combattere più efficacemente la società che detesto.
Non è vero che tutto rimane come prima; perché c’è uno schiavo di meno. E l’esempio di questo schiavo che infrange la catena scuote anche quegli altri schiavi, non ancora impecoriti e rassegnati completamente, e li sprona a seguire l’illegalismo del ribelle. L’azione influisce meglio dei discorsi sul risveglio degli uomini; di guisa che se colpisco la proprietà privata, altri imitandomi, la colpiranno pure ed essa s’indebolirà sempre più mentre lo spirito d’insofferenza, d’irriverenza, d’iconoclastia e d’insurrezione si svilupperà maggiormente (1).
Gli espropriatori anarchici, non s’imborghesiranno dopo l’espropriazione, come temeva Malatesta. Ma avranno migliori possibilità di lotta contro la società che odiano. Ed anche se qualcuno s’imborghesirà, il passaggio della proprietà privata dalle mani dell’uno alle mani dell’altro non sarà stato inutile nemmeno in questo caso. Ma avrà servito a fare si che a godere non sia sempre uno e a soffrire sempre un altro. E che vi sia almeno un po’ di rotazione.
Il Papa ha scomunicato i bolscevichi per indicarli all’odio dei cattolici fanatici e dare alla prossima guerra contro la Russia il carattere di crociata, in difesa della fede, per la vittoria sugl’infedeli. Pio XII li ha anatemizzati in nome di Cristo, ch’egli dice di rappresentare sulla terra e mostra l’anima della legittima autorità opposta alla tirannide degli usurpatori rossi.
Stalin, dal canto suo, nei paesi che domina, cerca creare le chiese nazionali, sottoposte allo Stato, quindi nemiche del Vaticano e dipendenti dal Cremlino. In Ungheria, in Polonia,in Cecoslovacchia, ecc., i seguaci del truce georgiano esaltano costui come il vero continuatore dell’opera di Cristo che, tradita ed abbandonata dai Pontefici romani, è oggi portata a termine dal già ateo dittatore al quale nel gennaio 1946, il vescovo di Leningrado diceva: «Voi siete l’incarnazione di ciò che vi è di meglio nelle tradizioni religiose russe: è grazie ai soviet che la chiesa ha raggiunto una prosperità spirituale che, da secoli, non aveva mai visto».
Dunque Cristo è, al di qua del sipario di ferro al servizio degl’interessi del capitalismo anglosassone e del sogno teocratico di Pio XII; al di là del sipario è uno strumento per il trionfo dell’imperialismo russo e del dominio universale del piccolo padre Stalin.
Ma vi è una seria ragione per cui tutti coloro che vogliono comandare e divenire padroni assoluti dell’umanità, si pretendono rappresentanti di Cristo e prosecutori della sua opera. Perché Cristo incarna il principio dell’autorità divina contro la quale ogni rivolta è sacrilegio. Perché predica l’ubbidienza ai superiori e la rassegnazione al dolore e, quindi induce i popoli a sopportare la schiavitù e a non cercare di sottrarsi alle pene che lo stato di schiavo comporta. Perché consola con la promessa della ricompensa nell’altra vita e fornisce quella speranza senza la quale gli uomini insorgerebbero per vivere meglio su questa terra.
Ecco il motivo per il quale tanto il papa, quanto Truman e Stalin, parlano in nome di Cristo e preparano, per la sua gloria, il futuro macello.
Ma proprio perciò coloro che aspirano a non rimanere vittime della bomba atomica e del raggio cosmico, coloro che non vogliono farsi scannare per Stalin o per i capitalisti yankee, ma aspirano invece alla conquista della libertà: debbono riunirsi intorno alla nera bandiera dell’Anticristo.
Questa è simbolo di anti-autorità, di anti-Stato, di antigregge. Sventolando, schiaffeggia gl’impostori che governano, sveglia i servi che dormono, sprona i rassegnati a scuotersi dall’inerzia ed a lottare attivamente per una vita migliore.
Smaschera tutti gl’inganni con i quali, da migliaia di anni, l’uomo è stato convinto a caricarsi di catene e a soffocare la natura e gl’istinti. Svela infine l’ultima, gesuitica menzogna che, conferendo alla guerra imminente il crisma della santità e della benedizione divina, spingerà gli schiavi a massacrarsi, come sempre, per una causa che non è la loro.
La bandiera dell’Anticristo è il segno della riscossa. E’ il labaro di un impulso che potrebbe ancora im-pedire il cruento conflitto e rigenerare l’umanità nell’anelito dell’Anarchia. Ed anche se le masse, stupide e pecorili, non sapranno riconoscerla e non vorranno salvarsi accettandola come loro vessillo, essa rimarrà — fino al vicino giorno della pan distruzione — il drappo di quei pochi che opporranno il tragico no di una disperata rivolta al sì generale dei popoli incretiniti e condotti al macello.
Cosi la nera bandiera dei reprobi e dei fuorilegge, la bandiera corsara di Stirner e di Bonnot, sarà l’animatrice dell’ultimo eroismo nel turpe mondo gregario che la bomba atomica inabisserà.
Il giornale dei faisti «Umanità Nova» (che Mario Mariani chiama, con ragione, «Umanità decrepita»), ha pubblicato nel suo numero del 2 ottobre 1949 uno scritto dallo stile contorto e confuso e dal titolo « Indisciplina fine a se stessa?».
Leggendo quest’articolo mi è riaffiorata alla memoria la vecchia massima latina «Sutor, ne ultra crepidam » il cui senso suona: «Ciabattino, non permetterti di andare al di là della ciabatta. Non parlare di ciò che non puoi capire ».
Infatti l’autore dell’articolo — che si firma con lo pseudonimo di Taglia — rivela la mentalità, vanesia e saccente, del maestrino, ben imbottito di frasi fatte e di precetti convenzionali, di menzogne scolastiche e di presunzione educativa. Cioè la mentalità del fesso che si dà delle arie e che,è la meno adatta per comprendere e, tanto meno, per criticare due supreme espressioni dello spirito anarchico: l’individualismo e l’indisciplina.
Da queste due espressioni deriverebbero, secondo Taglia, non solo il Risorgimento «svoltosi per episodi individualistici», ma anche l’interventismo, il dannunzianesimo e, infine il fascismo del «io non adoro la massa», della «vita dura» dell’uomo forte»,«dell’eroe» ; ossia il fascismo che «su questi temi puramente individualistico - eroici imbastisce il suo anti-borghesismo, espressione ultima di una piccola borghesia insaziata di sensazioni, inguaribilmente malata di nazionalismo, di volontarismo, del bel gesto, di giovinezza, di guerra igiene del mondo».
Ora se è vero che il fascismo ha avuto, nella sua iniziale propulsione, degl’impulsi individualistici e nietzschiani, (l’insofferenza all’adattamento gregario, il bisogno di affermarsi e prevalere, la smania della lotta e dell’attacco), è anche vero che il fascismo ha potuto stabilirsi come dittatura proprio perche nella stragrande maggioranza degl’italiani abbondava il pecorismo, l’inclinazione a sottomettersi al forte, a farsi comandare e dirigere. Se gl’italiani avessero avuto lo stesso spirito, individualista e nietzschiano, dei primi fascisti; se avessero voluto, come loro, vivere intensamente, non sopportare freni e correre allo sbaraglio piuttosto che chinare la testa; allora si sarebbero ribellati all’aggressione fascista, avrebbero contrapposto « volontà di vita» a «volontà di vita», manganello a manganello, bomba a bomba, e non sarebbe stata possibile l’instaurazione della dittatura mussoliniana né di qualunque altra.
L’equilibrio non si forma che fra uguali, fra uomini fieri, fra individui che pur essendo naturalmente diversi, sanno però tutti difendere la loro libertà, servendosi di ogni mezzo. In questo caso essi si contengono a vicenda e nessuno riesce ad opprimere l’altro che si fa uccidere, resistendo e colpendo, piuttosto che piegarsi.
Ma se invece da una parte c’è un gruppo di lupi e dall’altra un gregge di pecore stupide e belanti, è naturale ed inevitabile che i primi divorino le seconde. Dunque la vittoria del fascismo non è dovuta tanto allo spirito individualista e battagliero dei primi fascisti, quanto alla mancanza di spirito individualista, ossia al gregarismo, degl’italiani.
E se si vuole impedire che nuove esperienze fasciste vengano a deliziarci, non si deve predicare la cristiana e dolciastra morale del «rispetta il tuo prossimo», del «limitati e sii virtuoso», del «ricordati che la tua libertà finisce dove comincia quella degli altri».
Questa morale non riesce, in ultima analisi, che ad addormentare gli uomini, privandoli di ogni energia naturale e lasciandoli senza difesa alla mercé di coloro che hanno la saggezza di seguire il solo istinto.
Occorre invece dire ad ognuno : «Sii individualista. Vivi a modo tuo. Non lasciarti sacrificare. Se il tuo vicino ti attacca, non sottometterti, non umiliarti, ma difenditi. Cerca moltiplicare le tue forze cerca acquistarne delle nuove. Muori piuttosto che rinunziare alla tua libertà».
E se gl’individui accetteranno e praticheranno questi consigli che trovano riscontro nella loro natura, sbarazzatisi dalla soffocazione della disciplina e dell’educazione sociale, nessuna dittatura — fascista o no — potrà più insediarsi e la schiavitù sparirà da un capo all’ altro del globo. Ma, secondo Taglia, il tipo « che costruisce il mondo intorno all’asse della propria persona, rimane fuori di un tempo in cui la scena è calcata, per la prima volta, con piede sicuro, da masse sociali, fuori di un tempo in cui la svolta storica è al comunismo (non bolscevismo); in cui le soluzioni sociali e morali sono soltanto nella collettività come garanzia sicura della libertà economica e della formazione libera della personalità del singolo».
Però come si possa ottenere la formazione libera della personalità del singolo, quando questo singolo è ridotto ad una pura recettività dominata dall’azione esterna, e le soluzioni sociali e morali non deve cercarle in se stesso ma deve accettarle dalla collettività organizzata, comportandosi con gli altri non nel modo ch’egli sente e trova migliore ma bensì nella maniera che la maggioranza gli prescrive; questo è un mistero che il solo Taglia riesce a conoscere. A me sembra invece che la sua Anarchia che non tende a decomporre la società presente in individualità libere, autonome, decentrate, ma vuole trasformarla in una nuova società più casermistica dell’attuale; in una società omogenea, con un solo sistema economico, con un’unica struttura sociale, con una disciplina uniforme stabilita dalle masse che dominano ed alle quali l’individuo non può opporsi, essendo invece costretto ad accettare da esse gl’ideali e le norme di condotta; sia una copia, riveduta e corretta, della Russia bolscevica al cui modello Taglia evidentemente s’ispira.
Ecco perché si scaglia tanto contro l’individualismo e l’indisciplina. Perché vuole gli uomini in serie, gl’individui fantocci.
L’individualismo, secondo Taglia, spinge l’uomo isolato «all’incantucciamento, alla ricerca dell’angolino tranquillo dove disporre in bell’ordine i suoi straccetti intimi, all’arrangiamento egoistico, in quanto anche un iniziale spirito di lotta o esplode nel gesto improvviso o si esaurisce in forme di sfiducia che sono il diretto riflesso della propria impotenza».
Ma anche quando l’individuo si ribella da solo, «quando compie il bel gesto, non lascia conseguenze sociali». Ed il suo atto esprime «tutta una situazione sociale già gonfiata in precedenza e, per questo stesso, rientra nella concretezza sociale di lotta di masse».
A tali affermazioni dell’aspirante caporale faista è possibile rispondere in primo luogo che nella determinazione della rivolta del singolo influiscono, meglio ancora della situazione sociale, la particolare sensibilità dell’individuo e l’irriducibilità della sua natura. Talché mentre, nella stessa situazione, altri si adattano o reagiscono con mezzi meno pericolosi, egli esplode in una forma eroicamente violenta.
In secondo luogo non è vero che l’atto dell’isolato non lascia conseguenze sociali. Quando, agendo solitariamente o in libera e revocabile intesa con pochi compagni, gli anarchici si chiamavano Henry, Ravachol, Caserio, Bresci, Bonnot, Novatore, Pollastro, Di Giovanni, essi sconvolgevano la società costituita, ne inceppavano il funzionamento, accendevano gli spiriti, portavano nel gregge il soffio della rivolta e la forza della disintegrazione e, odiati o amati, maledetti o ammirati, s’imponevano all’attenzione del pubblico e influivano su di esso.
Oggi che gli anarchici son precipitati dalle vette dell’individualismo, eroico ed illegalista, nella grigia palude dell’organizzazione partitaria; oggi che si sono inseriti nella normalità e nella legalità, che son diventati persone per bene e marciano indrappellati nei ranghi; nessuno più si occupa di loro, la massa li ignora, non esercitano su essa nessuna influenza ed il partitino scompare al fianco dei partitoni che scimmiotta. Ecco dunque il mirabile progresso realizzato dai nuovi anarchici.
Ma Taglia, non limitandosi a deplorare solo i grandi ribelli e la sterilità (sic) dei loro atti, si scaglia anche contro «l’atomizzazione delle volontà», contro ogni forma d’indisciplina, contro «il tipo napoletano vagabondo, stornellatore, che vive alla giornata o finisce il suo individualismo, insofferente più di logicità e di coerenza che non di disciplina, nelle caserme della questura».
Per Taglia che sogna la vita spartana ed il soldato disciplinato, è un grave male anche «la piccola indisciplina — caos di chi traversa la strada quando c’è il rosso, di chi va sotto le armi col proposito d’imboscarsi, di chi diluisce la sua rivolta nei piccoli gesti del ribellismo quotidiano, della piccola indisciplina, del piccolo individualismo».
Io credo invece che anche queste blande rivolte e queste minime indiscipline non siano da condannare ma da incoraggiare. Perché esse rappresentano un inizio di risveglio della natura soffocata e compressa dalla coercizione e dall’educazione sodate. Costituiscono una tendenza dell’individuo a fare come vuole e non come vogliono gli altri, un’insofferenza della legge che l’obbliga ad agire come tutti agiscono. Rivelano una reazione della personalità, libera ed originale, all’assorbimento nella massa gregaria, un desiderio di rimanere se stesso e di muoversi a modo proprio e non secondo la regola. Sono, in una parola, il primo sintomo della riscossa individuale. Sono, in potenza, una forza centrifuga che, sviluppatasi in atto, porterebbe al dissolvimento di ogni organizzazione sociale e di ogni forma di vita irreggimentata. E se i caporali faisti, che aspirano alla caserma perfetta, deplorano queste manifestazioni irrazionali e si sforzano per indurre l’uomo a segnar meglio il passo, io invece le guardo con simpatia e godo del terrore ch’esse ispirano a tutti i sagrestani delle diverse chiese che prosperano nel nostro tempo.
E non trovo, per i sagrestani, che la parola di Cambronne.
Lo scrittore Mario Mariani mi ha invia, una vivace lettera polemica alla quale ho così risposto:
«Caro Mariani,
dalla sua rilevo che lei, pur dicendo di avere imparato da Sant’Ambrogio che l’uomo non può essere offeso se non da se stesso, è invece offeso perché le ho mostrato qualcuna delle contraddizioni nelle quali frequentemente incorre nell’esposizione del suo pensiero. E, punito dal risentimento, ha ribattuto che io ubbidisco al qui do et dixit e potrei imparare a riconoscere le mie contraddizioni invece di rinfacciarle le sue. Però ha aggiunto che «la contraddizione non è in me, né in lei, ma è implicita nell’argomento nella proposizione e da essa indissolubile».
Verissimo, Mariani! Sennonché lei si è dimenticato di spiegare che quando uno accetta un argomento, in cui è implicita la contraddizione, deve svolgerlo in un senso o nell’altro, ma non può svilupparlo contemporaneamente nei due sensi opposti nei quali è possibile risolverlo. Almeno se vuole rimanere sul terreno della logica. Quindi se l’argomento è, come nel nostro caso, l’antinomia fra l’individuo e la società, si può ugualmente dimostrare o che tale antinomia è irriducibile o ch’è risolvibile. Però la prima soluzione comporta l’eterna lotta fra individuo e società; la seconda ammette la pacificazione finale mediante il sacrificio del singolo alla massa organizzata. Ora lei — nemico dello Stato, della legge, dell’autorità in nome della libertà dell’individuo — pretende potere conservare questa libertà integrale nella sua futura società socialista nella quale, per l’interesse generale, sarebbero imposte al singolo solo un piccolo numero di obbligazioni e sanzioni, strettamente indispensabili, stabilite dalla maggioranza. Ma questo, caro Mariani, significa volere che ci sia il giorno quando c’è la notte; mentre, per la logica, se c’è la notte non c’è il giorno e se c’è il giorno non c’è la notte. Ossia se c’è la libertà dell’individuo non vi sono le obbligazioni e sanzioni; e se ci sono le obbligazioni e sanzioni non c’è la libertà dell’individuo.
Infatti per quest’ultimo le obbligazioni e sanzioni anche se sono poche, anche se si riducono al solo «non ammazzare e non rubare», possono essere sentite cerne una coazione soffocatrice tanto terribile quanto le draconiane leggi di un despota. E questo impedimento all’espansione della sua vita, al suo modo particolare di sentire, è ugualmente doloroso per l’individuo sia se gli è imposto dal re Sole o dal Consiglio dei Dieci o da Masaniello o da un milione di compagni democraticamente organizzati. (La democrazia è la menzogna di moda).
In secondo luogo ogni società tende, per un impulso dettato dallo spirito di conservazione, a stabilire nel suo seno il monismo e il conformismo più assoluto. Palante lo ha egregiamente dimostrato.
Perciò una società, anche se è investita del diritto d’imporre all’individuo solo poche obbligazioni e sanzioni, cerca continuamente di annientare il numero di queste e di stroncare dapprima le più gravi trasgressioni al patto sociale per poi precedere, una volta scomparse le violazioni importanti, alla soffocazione, con la medesima violenza, delle violazioni lievi e blande. E ciò fino alla scomparsa di ogni pur minima violazione cioè fino alla assoluta identificazione nel sentimento, nel pensiero nell’azione — dell’individuo con la massa organizzata.
Durkheim — filosofo e sociologo non individualista — ha sostenuto che le più gravi rivolte dell’individuo contro la società impediscono un azione troppo tirannica esercitata da quest’ultima sull’individuo. Oggi infatti che la società non è riuscita ad estinguere i più fieri attacchi al patto sociale, quegli attacchi che, come l’assassinio e il furto, minacciano di dissolverlo, stabilisce pene gravi per tali delitti e pene lievi per quei delitti minori che, come l’oltraggio al pudore o lo schiamazzo notturno, non costituiscono un attentato all’esistenza del patto sociale, ma rappresentano sempre una violazione di certi suoi articoli. Però se la società riuscisse ad eliminare completamente assassinio e furto le stesse pene gravi che oggi sanziona per questi crimini le applicherebbe all’oltraggio al pudore e allo schiamazzo notturno; perché dopo avere ottenuto una prima e più importante vittoria sull’individuo, piegandolo all’osservanza di ciò che nel patto è fondamentale ed essenziale, essa vorrebbe piegare integralmente il singolo anche nelle cose meno importanti, per assorbirlo sempre più, per immedesimarlo con se stessa. Quindi, in mancanza di reati gravi, considererebbe capitali i reati oggi stimati lievi e li punirebbe con la massima severità. Dunque, caro Mariani, nella sua società socialista senza Stato (Società che, sia detto fra parentesi, e abbastanza simile a quella dei comunisti libertari suoi avversari), si comincerebbe col sanzionare la morte contro l’assassino o il ladro e si finirebbe, dopo 50 anni e in caso di successo, con l’applicarla contro chi piscia nella strada. Se in una tale società non vi fosse più Stato ciò avverrebbe solo perché l’individuo sarebbe perfettamente gregarizzato e assorbito dalla massa conformista che sostituirebbe lo Stato, e cadremmo dalla padella nella brace...
Io invece considero l’antinomia fra individuo e società come irriducibile. Penso che l’uomo, ritornato libero, potrà associarsi, se lo vorrà, con i suoi simili e collaborare con essi in base ad un contratto che conterrà anche delle rinunzie ad alcune sue libertà. Ma nel momento in cui vorrò sciogliermi dal contratto, nel momento in cui non vorrò più riconoscerlo, nessuno potrà impedirmelo. La società potrà espellermi dal suo seno, combattermi se la combatterò ma non potrà obbligarmi ad osservare un patto che io non riconoscerò più e non potrà pronunziare contro me una condanna morale solo perché avrò voluto riacquistare la mia libertà piena.
In questo caso il perfetto egoismo, scevro da ogni vincolo, potrà conciliarsi con l’associazionismo e con la comunizzazione dei mezzi di produzione Io aderirò al gruppo se mi piacerà; ci rimarrò anche sempre, se mi farà comodo; uscirò dal gruppo e mi metterò contro di esso nel momento che vorrò. La maggioranza non potrà trattenermi né costringermi a seguire il suo modo di vita. Ma quelli che rimarranno uniti — perché lo vorranno — avranno la facoltà di praticare qualunque sistema comunista, mutualista, cooperativista o di altro genere.
La lotta rimarrà, è vero. Ma la lotta è inseparabile dalla vita. Però essa diverrà lotta libera e, appunto perche tale, sfocerà nell’equilibrio. Quando ciascuno perderà l’illusione d’ essere protetto dall’organizzazione sociale, preparerà da sé la sua difesa, svilupperà le sue forze, imparerà a servirsi di ogni mezzo, si temprerà e si agguerrirà. Quindi conterrà con la sua resistenza l’attacco dell’avversario. E se cadrà, cadrà in bellezza. Ma quando il pecorone fesso rimane tale, fidando nello sbirro e nella società che sono alle sue spalle, viene fregato non solo dall’aggressore ma anche dalla società e dallo sbirro che, col pretesto di difenderlo, lo schiavizzano.
La salvezza dell’individuo è nell’individuo stesso. Se egli saprà diventare «unico» con Stirner, «superuomo» con Nietzsche, «anticristo» con me; se saprà riacquistare la libertà dei primordi e servirsi dell’intelligenza e della volontà non più per soffocare, come ha fatto finora, le tendenze naturali, ma per svilupparle maggiormente, allora si riscatterà. Altrimenti finirà come merita; sotto la bomba atomica. E sarà un bene».
Dicembre 1948 - novembre 1949

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