venerdì 12 ottobre 2012

Gli esistenzialisti dell'anarchia


Gli esistenzialisti dell'anarchia 


 di Pietro Adamo

[Tra gli elementi che più hanno caratterizzato il pensiero anarchico alcuni pongono l'estrema varietà di analisi e soluzioni etiche, politiche ed economiche proposte dai suoi esponenti. Comunisti, individuali­sti, collettivisti, gradualisti, e così via: le tendenze dell'anarchismo sembrano costituire un'intera galassia di sperimentazioni, alquanto diverse tra loro.


Secondo Pietro Adamo, storico e redattore di Volontà, alla radice di alcuni dei contrasti più significativi tra i libertari si trova il dissidio tra i fautori dell'impegno diretto in contrapposizione ai poteri forti e i sostenitori di una via esistenziale all'anarchismo, fondata sul tentativo di «secessione» dalla società esistente. Adamo ha curato l'edizione italiana di Paul Goodman, Individuo e comunità (1996), ed è autore di Il Dio dei blasfemi (1993) e La libertà dei santi (1997).]


Nel 1887 Benjamin Tucker affrontò il problema del “metodo” dell’anarchia in un breve intervento su Liberty, replicando a chi limitava a tre le possibilità di risolvere la questione sociale: la rinuncia volontaria ai suoi privilegi da parte della classe dominante, il voto e la forza fisica. Tucker ne discusse invece una quarta, la “resistenza passiva”:



Quando un determinato gruppo di persone, sufficientemente potente in numero e in forza di carattere per incutere timore e rendere pericoloso tentare di metterne i membri in prigione, deciderà di chiudere tranquillamente la porta in faccia all’esattore delle tasse, cessando di pagare il tributo ai padroni del denaro, ed emettendo nel contempo propria moneta sfidando la proibizione legale, il governo, con tutti i privilegi che accorda e i monopoli che sostiene, verrà spazzato via [17, pp. 415-16].



Ciò che Tucker proponeva, discutendo in questo caso solo della sfera economica, era l’adozione di uno “stile di vita”, di una soluzione “esistenziale” del problema del cambiamento. Confutando sia i sostenitori del mutamento istituzionale attraverso il voto, sia i propugnatori dell’azione violenta diretta, il direttore di Liberty si chiedeva se fosse poi “tanto impraticabile” un metodo fondato sulla progettazione di una società “altra” che non implicasse lo scontro frontale con l’esistente, ma piuttosto un processo di separazione e autonomizzazione di gruppi e individui dalle strutture statali e dal sistema del dominio. Ben sapendo di inserirsi in una consolidata tradizione, Tucker ipotizzò che l’unico metodo accettabile per giungere all’anarchia consistesse in una sorta di secessione sociale che fosse strumento di resistenza contro i poteri costituiti e contemporaneamente creazione di un sistema di valori alternativo. In questo senso il rifiuto della politica istituzionalizzata e del mito della rivoluzione “giacobina” non si configurava come una fuga, come un’evasione delle domande rilevanti, ma piuttosto come il presupposto dell’unica strategia possibile.



Espandendosi alle altre sfere dell’azione umana, la tattica tuckeriana della “resistenza passiva” (termine troppo ristretto per il concetto che esprime) si identifica con il rifiuto di sottostare alle regole dominanti e con il progetto di sostituire alle istituzioni vigenti fondate sulla gerarchia i valori di una società libera: per esempio, opponendo al matrimonio il libero amore, alla famiglia la comune, alla produzione capitalista l’associazionismo e l’autogestione, e così via. Tucker, e con lui molti altri “classici” del pensiero anarchico come William Godwin e Pierre Joseph Proudhon, Josiah Warren e Pétr Kropotkin, sino a “post-classici” come Paul Goodman e Hakim Bey, localizzava così un peculiare spazio nell’immaginario anarchico, in cui si fondono le sue istanze forse più radicali. In questo spazio ha preso forma un altrettanto peculiare paradigma del mutamento, i cui elementi sono stato spesso sottoposti a critiche feroci dagli esponenti del giacobinismo anarchico, dai sostenitori della funzione positiva della “politica” o dai fautori del diretto impegno “sociale”. Non dobbiamo sforzarci molto per riassumere gli argomenti di questi gruppi, perché di recente Murray Bookchin li ha compendiati in un vispo libretto intitolato Social Anarchism or Lifestyle Anarchism. An Unbridgeable Chasm, ovvero Anarchismo sociale e anarchismo esistenziale. Un abisso incolmabile. Secondo Bookchin il lifestyle anarchism, che qui ho tradotto come “anarchismo esistenziale”, eliminando il dispregio insito nell’espressione americana, caratterizza una sorta di generico “yuppismo” libertario middle-class, che ignora “l’esigenza di energiche forme rivoluzionarie di organizzazione con programmi coerenti e convincenti” [7, p. 7]. Gli elementi che compongono questa visione “esistenziale” dell’anarchismo sono l’individualismo, la predilezione per l’autonomia piuttosto che per la libertà, il rifiuto di una concezione “forte” di comunismo, la scarsa attenzione per la dimensione collettiva dei fenomeni sociali. In altri termini,



tra la discendenza socialista dell’anarcosindacalismo e dell’anarcocomunismo (che non hanno mai negato l’importanza dell’autorealizzazione e della gratificazione del desiderio) e quella fondamentalmente liberale e individualistica dell’anarchismo esistenziale (che incoraggia l’inefficacia sociale, se non la totale negazione sociale) esiste uno spartiacque che non può essere attraversato se non trascurando completamente gli scopi, i metodi e le filosofie di fondo che le distinguono [7, p. 54].



Devo subito ammettere di giudicare piuttosto corretta e accettabile la tesi sulla contrapposizione tra queste due forme di anarchismo. Chiarendo, per quanto mi riguarda, l’orientamento generale: mi è sempre parso che 1′anarcosindacalismo e 1′anarcocomunismo progettassero un futuro abbastanza estraneo al più profondo ethos libertario e individualistico dell’anarchismo stesso. Inoltre, mi sembra che spesso i due opposti atteggiamenti descritti da Bookchin non siano così distinguibili, nel concreto intreccio della storia e nel concreto evolversi delle idee, come egli afferma: molti esponenti dell’anarchismo sociale “avrebbero sostenuto di puntare a una liberazione esistenziale (come lo stesso Bookchin ricorda nel passo sopra citato), mentre molti “esistenzialisti”, per esempio Tucker, avrebbero descritto il loro come un concreto programma di rivoluzione sociale (qualità che Bookchin invece gli nega). Pur giudicando persuasiva l’impostazione data al problema (ma dal lato opposto della barricata), trovo che le analisi specifiche di Social Anarchism and Lifestyle Anarchism, e in particolare l’idea dell’ “inefficacia” sociale dell’anarchismo esistenziale, siano fondate su una serie di pregiudizi storico-politici che devono molto a una vulgata priva di vitalità e mancante di spirito critico.



Tuttavia bisogna riconoscere a Bookchin un indubbio merito: aver disegnato un quadro in cui le differenze tra i diversi modi di concepire l’anarchismo balzano agli occhi, permettendo di afferrare in modo forse nuovo una serie di contraddizioni e antinomie che sono parte integrante della tormentata storia della tradizione libertaria stessa.




Secessione sociale o rivoluzione



Uno dei più dibattuti problemi di strategia tra gli “esistenzialisti” e i loro avversari, o meglio, tra la tendenza “esistenzialista” e quella “sociale”, riguarda la natura del cambiamento. Come è noto, l’anarchismo si è sviluppato come ideologia articolata nel crogiuolo delle teorie rivoluzionarie e socialiste del secolo scorso, presentandosi come un concreto programma di mutazione dell’esistente. Tra gli appartenenti alla tradizione, alcuni hanno privilegiato una progettualità fondata sull’intervento diretto, chi preparando un’insurrezione politica mondiale, chi lottando per il riscatto della classe operaia, con qualche scheggia impazzita impegnata in folli schemi “bombaroli”. Altri hanno perseguito l’obiettivo fondando “utopie”, costruendo comuni, incoraggiando libere sperimentazioni nella sfera economica, in quella sessuale o in quella pedagogica.



I primi hanno spesso privilegiato una visione dell’interazione sociale in chiave di lotta e conquista, con contadini e operai nel ruolo di sfruttati e di reietti della storia. Pur concettualizzando il potere e il domino nell’usuale ottica anarchica, essi hanno a volte scelto di combattere sullo stesso piano dell’avversario, servendosi dei suoi medesimi strumenti (la violenza, la coartazione fisica, e così via). Non è un caso che il loro universo simbolico sia incentrato su metafore guerriere di matrice quasi apocalittica, su un linguaggio dalle potenti risonanze militari, su un materialismo storico quasi fatalistico. “È vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni”, ricordava Emile Henry a Errico Malatesta nel 1892, “ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne e ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni”, concludeva, “cioè colpire gli uomini” [14, p. 491. E Armando Borghi, noto antimilitarista, rispondeva a un commento sulle agitazioni del 1914 usando in modo acritico l'immagine dell' "insufficienza di armamento e di inquadramento delle classi operaie" [8, p. 381.



E’ evidente che non si possono mettere i fanatici come Henry e i teorici della rivoluzione come insurrezione quale il Borghi del 1925 sullo stesso piano di coloro che propongono oggi un ponderato intervento nelle istituzioni locali, in organismi collettivi indipendenti dagli stati nazione, in organizzazioni pacifiste o ecologiste. D'altro canto, una progettualità anche "minimalista" che punti a incanalare il cambiamento attraverso azioni di questo genere si ritroverà di fronte al medesimo problema che Henry e Borghi avevano ignorato: il rapporto tra mezzi e fini. Detto in breve: se l'obbiettivo cui si punta, il modello regolativo che dovrebbe ispirare le nostre azioni, è una società in cui siano assenti dominio e gerarchia, è lecito - o, se preferite, è etico - servirsi di mezzi che diffondano e incoraggino ulteriormente questi stessi "valori"? "L'uomo e la società sono fini in se stessi, e poiché ogni mezzo proviene da essi, non devono essere sacrificati a nulla", ha notato Giovanni Baldelli, "usare uomini come mezzi e incorporarli in un'organizzazione o in un'istituzione che si propone di trascenderli significarli trasformarli in pezzi di macchinario, degradarli anche di più degli schiavi dell'antichità" [2, p. 1621.



È proprio da questo punto di vista che gli "esistenzialisti" forniscono la risposta più convincente. Il progetto di mutare la società esistente con la violenza, o anche con 1' "astuzia politica", cozza inevitabilmente con i presupposti etici dell'anarchismo, nonché con la sua stessa visione del mondo. Per certi versi la logica dell'anarchismo è inevitabilmente gradualista, e il suo obiettivo non può che essere il cambiamento nelle persone (nel lungo periodo) piuttosto che quello della società (nel breve). Questa tendenza al cambiamento graduale ha spesso preso l'aspetto della teorizzazione della "secessione", ovvero della costituzione di "corpi separati" dalla società in cui pensare e praticare l'anarchia. Ne abbiamo visto un esempio in Tucker, ma ne ritroviamo gli ingredienti in molti altri pensatori anarchici. E. Armand, per esempio, ha auspicato la proliferazione di libere associazioni di "individualisti": "anzitutto per resistere alle pretese e alle imposizioni sull'individuale, del sociale, del collettivo, del governamentale, dell'amministrativo, del legale, della maggioranza, del dittatoriale, del privilegio, del monopolio, della dominazione e dello sfruttamento, sotto tutti i loro aspetti" [1, p. 337]. A questo fine di difesa e di protezione della semplice qualità della propria vita, si aggiunge uno scopo di genere diverso; a parere di Armand, iniziative di questo genere potrebbero ricadere nella bieca suffisance e nel “commercialismo” se gli “sperimentatori” dimenticassero “che il loro tentativo ha il valore di un esempio, di un faro luminoso, d’una propaganda pratica verso la quale si volgono i loro compagni lottanti da soli nella società borghese” [1, p. 3471. Sono qui combinate una prospettiva "esistenzialista", nel senso che l'associazione anarchica è considerata il "luogo" migliore in cui vivere, e una sinceramente "rivoluzionaria", fondata sull'idea, che oggi appare forse un po' troppo ingenua, di una "propaganda seria, razionale e continua contro l'impiego del concetto dell'autorità in tutte le sfere dell'attività umana" [1, p. 532].



Anche in un altro degli obiettivi polemici di Bookchin, Paul Goodman, compare una convincente sintesi tra la prospettiva “secessionista” e quella rivoluzionaria. Affascinato da sempre dall’idea di una comunità libertaria, “ricca di conflitti” [13, p. 83], di cui rintracciava il modello in diverse sperimentazioni storiche (dalle libere città del medioevo alle chiese congregazionaliste alle compagnie per azioni in epoca mercantilista), Goodman pensava che l’unica strategia possibile fosse il recupero di questa nozione forte di comunità, immaginando una sorta di diffusione dell’anarchia nella società contemporanea come un’operazione di filtraggio di atteggiamenti e valori attraverso le “zone libere” che ancora punteggiavano la società occidentale. Per tutta la vita Goodman ha cercato disperatamente un nucleo comunitario, ovvero una libera associazione sufficientemente autonoma e indipendente dai centri di potere politici ed economici, sul quale fondare un’azione efficace, pensando di volta in volta di averla trovata nelle idee degli urbanisti che si ispiravano a Patrick Geddes ed Ebenezer Howard, nelle libere università, nel movimento per i diritti civili, e infine nella “piccola anarchia” della Berkeley occupata dagli studenti e dagli hippies: “non sono un anarchico perché sono un `individualista’, o perché ho una persistente fede nella `spontaneità’ “, annotò in uno dei suoi diari, “lo sono perché sono un comunitario e spero in un Commonwealth in cui non vi siano quella coartazione e quell’ordinamento gerarchico che rendono stupida la gente” [12, p. 245-46].




Dalla “marginalizzazione” alla “sollevazione”



Peter Lamborn Wilson (alias Hakim Bey), uno dei più intelligenti lettori di Goodman (e altro bersaglio di Bookchin), ha portato forse agli estremi la propensione “antirivoluzionaria” delle tendenze esistenzialiste: “insomma”, ha scritto, “il realismo ci chiede non solo di smettere di aspettare la `rivoluzione’, ma anche di smettere di volerla” [6, p. 16]. In luogo della fantasmatica rivoluzione sociale, obiettivo sia illusorio in sé (in quanto nel corso della storia non ha fatto altro che riproporre l’usuale meccanica giacobina), sia impraticabile al momento attuale contro lo “stato megacorporato dell’informazione” [6, p. 14], Wilson propone l’azione di guerriglia delle Taz (zone temporaneamente autonome), ovvero l’azione di gruppi più o meno articolati che propongono “sollevazioni” temporanee, intendendo con “sollevazioni” ogni genere di iniziativa tesa a scalfire l’immaginario collettivo orientato verso i valori di gerarchia e dominio e nel contempo a incoraggiare i valori di segno opposto. Il modello di Wilson, con la sua insistenza sui problemi dell’informazione e della comunicazione, sono i gruppi di hippies/hackers diffusi, più che nella realtà, nella letteratura fantascientifica. Al di là dei riferimenti (dalla tradizione piratesca alla controcultura degli anni sessanta) e della sua matrice letteraria, la Taz ripropone le stesse esigenze che animavano Tucker e Armand:



realizzare i momenti e gli spazi in cui la libertà è non solo possibile, ma effettiva. Dobbiamo conoscere in quali modi siamo genuinamente oppressi e anche in quali maniere siamo autorepressi o intrappolati in una fantasia nella quale sono le idee a opprimerci. [...] La Taz non è un predecessore di una qualche Utopia sociale da torta-in-cielo alla quale dobbiamo sacrificare le nostre vite [...]. [6, p. 48]. Il concetto della Taz non è mai stato inteso come l’abbandono del passato o del futuro [...], ma piuttosto come un mezzo per massimizzare l’autonomia e il piacere per il maggior numero possibile di gruppo e individui il più presto possibile [...]. Il passato e il futuro ci aiutano a renderci conto dei nostri “veri” desideri (rivoluzionari), ma solo il presente li può realizzare: solo il corpo vivente, nonostante tutta la sua grottesca imperfezione. [5, p. 40].



Nella prospettiva di Wilson il processo di separazione dal corpo malato della società capitalista equivale non solo a proclamare una differente realtà, ma a vivere in modo pieno e completo questa stessa realtà, sia pure in modo temporaneo. In questo senso la ribellione dei “refrattari” (termine preferito da Armand) assume un carattere propriamente effimero, per lo meno dal punto di vista dei fedeli alla visione della cosiddetta rivoluzione sociale, ma nel contempo esprime nel modo forse più compiuto l’aspirazione profonda degli “esistenzialisti”: fondare un mondo alternativo qui e ora in cui i valori dell’anarchia siano validi e funzionanti.



Non occorre tuttavia scomodare le divagazioni postmoderne di Hakim Bey per rendersi conto del ruolo preponderante che i temi secessionisti svolgono nell’anarchismo postclassico. Possiamo rintracciare i segni di questa nuova presenza già negli anni venti, negli scritti di Errico Malatesta. Nel suo ultimo decennio di vita quest’ultimo, che per cinquant’anni era stato tra i più convinti apostoli del verbo rivoluzionario (nella sua versione insurrezionalista), dovette faticosamente rielaborare il proprio pensiero per far spazio a due elementi nuovi, che ne sconvolgevano la struttura: da un lato la marginalizzazione dell’anarchismo, che consegnava i suoi militanti a un ruolo secondario di stimolo e “guida spirituale”, dall’altro il successo del bolscevismo, che aveva dimostrato senza ombra di dubbio che la cosiddetta “rivoluzione” sociale in cui speravano i socialisti d’Occidente non avrebbe fatto altro che sostituire una nuova tirannia alle precedenti. La riflessione di Malatesta muove dalla constatazione dell’impossibilità di una rivoluzione “anarchica”. Troppa è la distanza tra il reale e l’ideale: “è evidente che quell’ideale non può raggiungersi d’un salto, passando di botto dall’inferno attuale al paradiso agognato” [16, p. 194]. Da qui una nuova enfasi nei suoi scritti: non più rivoluzione e insurrezione, ma franca accettazione della natura “gradualista” dell’anarchismo, che si esprime in una progettualità a lungo termine: “noi abbiamo bisogno del consenso della gente, e quindi dobbiamo persuadere colla propaganda e coll’esempio, dobbiamo educare e cercare di modificare l’ambiente in modo che l’educazione possa raggiungere un numero sempre più grande di persone” [16, p. 43]. Il ruolo degli anarchici diveniva quello di suggeritori e stimolatori, e nel contempo quello di custodi dell’ideale: “l’anarchia non poteva venire che gradualmente, a misura che la massa arriva a concepirla e a desiderarla; ma [...] non verrebbe mai se mancasse la spinta di una minoranza più o meno coscientemente anarchica, che agisce in modo da preparare l’ambiente necessario” [16, p. 396]. Proprio interrogandosi sul ruolo di questa minoranza, Malatesta giunse a concettualizzare la sua azione come il frutto di una sorta di “secessione” e “separazione” di “un nucleo di anarchici abbastanza forte per numero e capacità di bastare a se stesso ed irradiare intorno a sé la propria influenza”, con lo scopo di “organizzarsi per applicare l’anarchia o quel tanto di anarchia che diventa mano a mano possibile” [16, p. 195]. Quella di Malatesta non era una soluzione propriamente esistenziale, anzi restava saldamente ancorata a una prospettiva “politica”: immediatamente dopo la frase citata precisava per esempio che “non si può isolarsi per necessità di vita e per l’interesse della propaganda”. Tuttavia le sue riflessioni prefigurano gli sviluppi futuri; a partire dagli anni Sessanta, quando le “necessità di vita” (insieme a un più marcato pessimismo sulle possibilità reali del mutamento) acquisteranno nuova pregnanza nell’anarchismo, il progetto di Malatesta assumerà connotazioni alquanto diverse, sino a giungere al quasi paradosso delle Taz, trionfo dell’effimero e del momento magico.




Collettivisti e individualisti



Uno degli aspetti maggiormente evidenti delle soluzioni “esistenziali” è la presenza di una forte enfasi sull’individuo, contrapposto in genere alla società nel suo complesso. Ciò vale sia per il teorico dell’individualità Armand sia per il comunitario Goodman: in entrambi i casi la “secessione” dei singoli è in fondo il prodotto del rifiuto di condividere ulteriormente gli stili di vita e i modelli di pensiero di una particolare associazione di uomini ritirandosi del tutto (o quasi) dalla stessa, comprese le sue usuali modalità d’opposizione. Secondo Bookchin questo genere di scelta è indice di “ritorno prelapsariano (precedente alla caduta) a un ego primevo, spesso diffuso e anche petulantemente infantile” [7, p. 11]. Gli anarchici che optano per tale individualismo “stanno perdendo il contatto con l’esigenza di un’opposizione organizzata, collettivistica e programmata all’ordine sociale esistente”, mettendo in mostra “un atteggiamento di arrogante scherno verso la struttura, l’organizzazione e l’impegno pubblico” [7, p. 19]. Ferocemente ostile a ogni tesi che si avvicini all’individualismo metodologico, l’anarco-comunista Bookchin riprende in fondo, in forma ovviamente adeguata alla vulgata massmediatica verde-ecologista, le classiche tesi degli organizzatori anarchici, ponendo tra parentesi la sfiducia verso gli organismi “azionisti” e le burocrazie politiche che è invece uno dei tratti più caratterizzanti dell’immaginario anarchico stesso, a partire proprio da William Godwin, che già alla fine del Settecento aveva illustrato i pericoli della partecipazione ad associazioni, assemblee e consimili per lo spirito critico dei singoli.



La polemica in certo modo più rivelatrice che emerge dalle pagine di Social Anarchism or Lifestyle Anarchism, per quanto attiene all’antitesi tra collettivisti e individualisti, è quella condotta con la canadese Susan Brown. Quest’ultima ha proposto un’interpretazione storico-politica interessante, identificando in una sorta di “individualismo esistenziale”, ovvero nel primato dell’esigenza dell’autoespressione e dell’autonomia individuale contro “ogni genere dì istituzioni sociali, politiche, economiche e sessuali che coartano l’individuo e ne negano la libertà di scelta esistenziale” [9, p. 142], come il trait d’union tra liberalismo ed anarchismo, sottolineando come i rapporti tra queste due filosofie politiche siano in genere molto più pregnanti di quanto sospettino gli anarchici stessi, ipnotizzati piuttosto dalla superficiale assonanza, per quanto riguarda il rifiuto della proprietà privata e l’adozione di “relazioni economiche comunistiche” [9, p. 1], con il marxismo. La perorazione della Brown è costruita sull’esplicito contrasto tra i presupposti filosofici dei collettivisti e quelli degli individualisti: laddove i primi concedono il primato ai “fattori sociali” che determinerebbero i singoli, insistendo sul ruolo che i “grandi movimenti della storia” esercitano sugli individui e costruendo un immaginario che sottolinea la dipendenza degli individui e dei gruppi dalla società nel suo complesso, i secondi, pur senza disconoscere la peculiare costruzione “sociale” dell’immaginario, mettono l’enfasi sull’”esistenza di un libero arbitrio motivato interiormente e autentico“che definisce un tipo di “soggetto umano attivo” il quale creativamente “conferisce significato a se stesso e al suo mondo” [9, p. 12]. È importante comprendere che questa discussione delle potenzialità liberatorie dell’”anarchismo esistenzialista” si fonda sul rigetto di una nozione di individuo fondata su valori storico-culturali precisi: ciò che emerge dalla lettura libertaria dell’esistenzialismo proposta dalla Brown (e ripresa in gran parte da Simone de Beauvoir) è l’idea di un individuo “libero di proiettare se stesso in un futuro denso di significati” di sua costruzione, “libero d asserire i propri valori come fini in se stessi” [9, p. 167]. Sganciato da progettualità determinate, il “protagonista” della Brown rinuncia anche alla vulgata antropologica dell’anarchismo ottocentesco:



Molti scrittori anarchici, [...] pur accettando l’individualismo esistenziale, si riferiscono spesso a relazioni `naturalmente’ cooperative tra individui esistenzialmente liberi per sostenere le proprie idee. Ciò [costituisce] un regresso verso le radici ottocentesche dell’anarchismo. Se l’anarchismo dovrà ancora avere un suo ruolo nel ventunesimo secolo, tali obsolete radici devono essere abbandonate in favore della `natura’ più fluida e autocreata proposta dall’esistenzialismo filosofico. [9, p. 8]



Orripilato da tali “eresie”, Bookchin ha sottolineato come le tesi della studiosa canadese siano fondate, dal punto di vista teorico, su un fraintendimento complessivo dello spirito del collettivismo (si pensi, scrive, alle “generose tradizioni” di William Morris, Gustav Landauer, e così via, compresa quella, conclude, che fa capo a Karl Marx, [7, p. 14]); inoltre, sono costruite su un’analisi scorretta dell’azione sociale stessa: “la ricca dialettica e l’ampia storia che mostrano come l’individuo sia largamente plasmato da uno sviluppo sociale con il quale interagisce sono quasi assenti dal suo libro” [7, p. 18]. Reiterando la più classica delle accuse che i collettivisti rivolgono agli individualisti (e che è per esempio al centro dell’attacco che i filosofi comunitari contemporanei portano all’ethos libertario) – 1′ipostatizzazione di un individuo astratto scollegato dalla società in cui vive – Bookchin non coglie i punti salienti delle tesi della Brown, per la quale i singoli restano legati dal punto di vista culturale al loro contesto, ma sono capaci di emanciparsene, per lo meno in parte, in modo creativo. Tuttavia, se pure non sembra particolarmente colpito dalle conclusioni filosofiche di The Politics of Individualism, Bookchin ne afferra con usuale finezza le implicazioni sul piano dell’azione e dell’organizzazione politica, sostenendo che la prospettiva generale della Brown implica l’eliminazione di “ogni base possibile per l’istituzionalizzazione sociale, per il processo decisionale, e persino per la coordinazione amministrativa” (7, p. 17). La teorizzazione dell’incoercibilità dell’individuo, in quanto azione che viola la sostanza etica dell’anarchismo esistenzialista, nel quadro teorico tracciato dalla Brown conduce, secondo Bookchin, alla “denigrazione di ogni procedura razionale e discorsiva, fondata sulla democrazia diretta, che punti a processi decisionali collettivi, in quanto `impositiva’ e `dominante’”, e alla “concessione del diritto di abortire le decisioni della maggioranza all’ego sovrano di una minoranza di uno”. Invece, conclude, “resta il fatto che una società libera o sarà democratica o non sarà” (7, p. 17). Anche in questo caso Bookchin sembra trascurare la tradizione anarchica stessa, costruita in parte proprio sulla confutazione della regola della maggioranza su cui si fonda la democrazia moderna. In quanto alla democrazia diretta di cui si sono fatti campioni alcuni “classici” dell’anarchismo, si è in genere trattato di un second-best, di una scelta che non ha mai precluso la ricerca di un metodo altro: la democrazia diretta in quanto tale non può esser altro che “una discreta approssimazione di an-archia (assenza di dominio) politica” [8, p. 26], mentre la sostanza reale di quest’ultima non può che situarsi “al di là” della democrazia diretta stessa.




L’individuo e la comunità



E tuttavia l’elemento più interessante della polemica Brown/Bookchin è un altro: la studiosa canadese, infatti, nega decisamente di appartenere alla corrente dell’anarchismo individualista: “il mio testo”, ha scritto replicando a Bookchin, “è chiaramente un attacco vibrato non solo contro gli individualisti liberali [...1 che adottano una credenza strumentale nella proprietà privata, ma anche contro gli individualisti anarchici che analogamente sostengono il `diritto' di un individuo di possedere e vendere proprietà, sia reale sia `nella persona' " [10, pp. 137138]. In The Politics of Individualism la Brown distingue infatti, servendosi delle teorie dello studioso marxista Crawford Macpherson, due tendenze nella tradizione liberale: la prima può esser definita appunto individualismo esistenziale, la seconda individualismo strumentale. Quest’ultima è fondata sull’idea che “l’individuo umano sia un possessore competitivo di proprietà privata, sia nei termini di proprietà reale, sia in termini di possesso della proprietà sulla persona’ “ e sulla credenza “che gli individui posseggano i loro corpi e le facoltà e abilità a esso associate, ovvero la `forza lavoro’ che si accompagna ai loro corpi”. Secondo la Brown il termine indica “una forma di individualismo che mira alla libertà non come un fine in se stesso, come nel caso dell’individualismo esistenziale, ma piuttosto come un mezzo per promuovere gli interessi individuali” [9. p. 3]. Il carattere di questa distinzione lascia perplessi. La perplessità è peraltro aumentata dal fatto che nel libro la Brown riafferma costantemente la distinzione senza darsi mai pena di spiegarla, se non in senso tautologico. Dopo aver innalzato l’individuo e la sua capacità di creare immaginativamente e liberamente propri valori a principali criteri della vita associata, l’autrice di The Politics of Individualism sostiene che alcuni di questi valori (quelli fondati sull’idea di proprietà, di scambio, di lavoro salariato, e così via) sono inconciliabili con la visione complessiva esistenzialista; d’altro canto, non si può fare a meno di notare che quello che a me pare il problema teorico centrale posto dal suo libro, ovvero perché mai l’individuo non sia padrone assoluto di se stesso e del suo lavoro, non è neppure sfiorato.



In questo senso la prospettiva della canadese esemplifica una più generale propensione nella tradizione anarchica stessa: dopo aver gettato fuori dalla porta le spinte totalitarie del marxismo nella sua forma di filosofia fondata sull’organizzazione collettivistica della società, si permette loro di rientrare dalla finestra sotto l’aspetto più gradevole e apparentemente meno pericoloso del sospetto verso la società di mercato. La Brown ha di fatto sostenuto che l’anarchismo esistenziale non può che culminare in un “libero comunismo volontario” [9, p. 7]. Rileggendo niente di meno che Alexander Berkman, l’anarco-comunista americano, l’autrice di The Politics of Individualism accetta in primo luogo l’idea dell’insensatezza della teoria del valore-lavoro proposta soprattutto da Marx (in quanto il valore del prodotto è determinato dal contesto economico-culturale e non certo dalla quantità di lavoro in ore che ha implicato); rifiuta in secondo luogo l’uso del sistema dei prezzi, in quanto “deplorevole” strumento del profitto. Non resta quindi che un “free exchange del lavoro e dei suoi prodotti” [9, p. 76], intendendo uno scambio non determinato dal prezzo o altre amenità del genere. Il sospetto verso i termini associati al mondo del mercato capitalistico e della globalizzazione è forse giustificabile; è tuttavia evidente che il meccanismo del mercato in sé, pur strettamente connesso storicamente allo sviluppo del sistema in cui ci ritroviamo a vivere, è suscettibile di interpretazioni e interventi tali da rivelarsi funzionale alle esigenze di una “comunità libertaria” [15, p. 130]:



Bisogna riconoscere che il mercato, o meglio il suo meccanismo, è uno strumento molto efficiente nella distribuzione dei beni e dei servizi. Una società complessa necessita di informazioni sulle preferenze dei consumatori per decidere cosa produrre e quali tecniche impiegare in modo da ottenere una razionale distribuzione secondo le preferenze espresse. Inoltre il mercato per il suo funzionamento non necessita di alcuna centralizzazione. Esso mette in grado le imprese di leggere i suoi dati con uno sforzo minimo, grazie ai suoi automatismi. Per operare, le unità produttive non necessitano di una conoscenza generale dello scacchiere economico, ma di una conoscenza limitata al settore in cui operano. [15, pp. 123-24]



Le contraddizioni della Brown mi sembrano rispecchiare in primo luogo una certa atmosfera prevalente nell’anarco-comunismo di lingua inglese, in cui l’avversione per il capitalismo, presunto prodotto obbligato della civiltà legata alle dottrine liberali, si trasforma in una sfiducia complessiva nell’ethos libertario stesso, e nei suoi indispensabili costituenti individualistici: lo scambio, il conflitto, il mercato, la concorrenza (cosa diversa dalla competizione). Il fatto che questi siano oggi bastioni retorici degli alfieri della globalizzazione e dello sfruttamento non implica che in una prospettiva libertaria non ottenebrata dalle perversioni collettivistiche essi non possano divenire le pietre angolari di ogni progetto pregnante:



Le regole [di una società libertaria] si conformano al principio del libero accordo che sostituisce la legge imperativa: in pratica l’accordo assume la dimensione del `contratto’, anche se con connotazioni nuove. La dimensione nuova è data dall’effettiva eguaglianza tra le parti contraenti [...]. Si rendono altresì possibili manifestazioni di conflitto. L’ipotesi del conflitto non deve essere accantonata come troppo spesso amiamo fare. Perché, se è vero che, in una ipotesi di società realmente egualitaria, spariranno i presupposti per il `conflitto di classe’ [...] è pur vero che altri conflitti, con connotazioni diverse, potranno ancora esistere [...]. Come porsi allora di fronte ad essi, mancando un’istanza superiore che regoli d’imperio la loro soluzione? Ritengo che i conflitti devono poter esprimere tutta la loro potenzialità diversificante, perché in ciò risiede uno degli aspetti pluralistici della società. Il processo decisionale [diventa quindi] il momento di conoscenza delle differenze, e realizza la loro possibile mediazione oppure la loro esaltazione, che si traduce in più soluzioni adottate. [15, p. 111]



Il mercato, inteso come strumento che garantisce il pluralismo delle scelte nell’ambito delle esigenze di una comunità complessa e differenziata, è l’unica antidoto concepibile a una “totalitarizzazione degli aspetti economico associativi” che “pretenda di ricomporre i contrasti in una ecumenicità soffocante” [15, p. 111]. Mi sembra peraltro che le tesi della Brown mettano in evidenza qualcosa di più di una semplice avversione culturale per il nesso libertà/mercato, che illuminino cioè una “tensione essenziale”, irrisolta e forse irrisolvibile, al cuore dell’anarchismo stesso: quella tra individuo e comunità. La condizione per cui gli “esistenzialisti” della Brown non cadano nel nichilismo del “tutto è concesso” è che essi “scelgano un’etica che affermi realmente e attivamente la libertà degli altri. Si tratta di un’etica che è inerentemente sociale, visto che implica che l’individuo non può esser libero da solo” [9, p. 139]. In altri termini, l’esistenzialista può esprimere appieno la propria indipendenza e autonomia nel campo della creazione dei valori solo all’interno di una comunità di persone che condividono la sua prospettiva. Quale tipo di comunità può concedere quello spazio (indefinito) di libera sperimentazione implicato dal concetto stesso di una società di esistenzialisti? La Brown non affronta il problema, che compare invece, seppure in forma non articolata, negli scritti del pensatore anarchico più capace di catalizzare i problemi del secondo dopoguerra: Paul Goodman. Come abbiamo visto, quest’ultimo aveva trovato una soluzione: “una comunità ricca di conflitti”, ovvero una comunità, per definizione caratterizzata da sentimenti di appartenenza e fedeltà nei suoi membri e da una serie di valori condivisi di base, in cui fosse permesso ogni genere di sperimentazione, comprese quelle che mettono in discussione i suoi stessi fondamenti etico-politici, producendo un meccanismo di constante revisione dei principi della convivenza (ed escludendo, ovviamente, ogni meccanismo di coercizione del singolo da parte della maggioranza `democratica’). Se la comunità di Goodman sembra difficilmente realizzabile, è senza dubbio preferibile, quale “lume regolatore”, alle società impositive e `dominanti’ al centro dell’immaginario collettivista, si tratti anche di quel misterioso genere di personaggi che va sotto il nome di “anarco-comunisti”.




Dalla libertà all’autonomia



Alla ricerca di un comune denominatore sotto cui radunare le diverse tendenze “esistenzialiste” (lifestyle) dell’anarchismo, correttamente Bookchin lo individua nella preminenza concessa all’autonomia del singolo rispetto a una concezione di libertà che potremmo definire “pubblica”, o “sociale”: “mentre l’autonomia è associata con un individuo presumibilmente sovrano di se stesso, la libertà intreccia dialetticamente l’individuo con il collettivo”. A suo parere, porre tale enfasi sull’autonomia significa semplicemente sacrificare “le ricche connotazioni sociali della libertà”. E quindi le idee di Goodman, scelto come caso esemplare di anarchico “autonomista”, sono “più adeguate a un esteta che a un rivoluzionario” [7, p. 12].



Anche in questo caso Boockhin coglie nel segno, per lo meno nel senso di aver identificato un’antinomia quasi connaturata al pensiero anarchico classico. In esso queste due definizioni di libertà – autonomia del singolo ed emancipazione della società – hanno convissuto in modo a volte disarmonico, se non incoerente. Nel pensiero di William Godwin, il “primo” anarchico dell’età moderna, ne troviamo una delle esemplificazioni più chiare: da un lato l’individuo è pienamente libero e sovrano di sé stesso, la sua ragione (il suo “giudizio privato”, scriveva) è uno strumento di autoliberazione più che sufficiente, le forze coartanti della società (lo stato, la comunità, il lavoro dipendente, e così via) sono impotenti a fronte della sua autonomia spirituale e intellettuale; dall’altro lo stesso individuo ha una serie di obblighi nei confronti dei vicini, mentre questi ultimi hanno il diritto, anzi il dovere, di controllare il suo comportamento privato e pubblico. Questa specie di schizofrenia intellettuale – caso tutt’altro che isolato tra i pensatori anarchici – si fonda sul tentativo affascinante, e ovviamente destinato al fallimento, di mantenere in equilibrio i due termini dell’equazione a cui abbiamo già accennato (individuo/comunità, ovvero autonomia/emancipazione sociale), senza instaurare tra di essi alcuna relazione di subordinazione.



Potremmo del resto tentare di rileggere la storia dell’anarchismo usando proprio questa antinomia come criterio direttivo. L’anarchismo classico europeo, da Proudhon a Malatesta, ha privilegiato la dimensione collettiva della liberazione, legando le sorti dell’anarchismo ai movimenti operai e contadini; l’avvento del bakuninismo ha altresì segnato l’accettazione della logica “giacobina” della rivoluzione, con tutti i suoi corollari (la concettualizzazione delle classi subalterne quale soggetto “emergente” nella modernità, l’inevitabilità della violenza “insurrezionale”, una lettura storica in chiave materialista, e via di seguito). In sostanza, tolti alcuni elementi ormai obsoleti, siamo nei pressi di ciò che Bookchin definisce “anarchismo sociale”. L’anarchismo classico americano e la tradizione individualista europea (decisamente minoritaria) hanno invece coniugato la teoria della liberazione al “singolare”; gli americani (per esempio Tucker) hanno interpretato l’anarchismo come il perfezionamento delle premesse liberali che avrebbero dovuto costruire la “società aperta” d’Occidente, valorizzando sia l’esigenza di autonomia e di piena espressione del singolo sia le peculiarità culturali e la diversità degli stili di vita delle comunità, in un quadro di sostanziale accettazione di una società di mercato purificata da monopoli, sfruttamento e gerarchia; gli europei (per esempio Àrmand) hanno condiviso questa prospettiva di fondo, prestando però ai contorni della teorizzazione della resistenza individuale un’aura di eroica “refrattarietà”. Entrambe le tendenze hanno proposto, sia pure con modalità differenti, una tattica di “secessione” dalla società capitalista in nome di un’autogratificazione e un’autorealizzazione separata di gruppi e individui: siamo nei pressi di ciò che Bookchin definisce “anarchismo esistenziale”. Non è tuttavia difficile identificare uno spartiacque storico che può contribuire a definire meglio le caratteristiche del contrasto: la scomparsa del cosiddetto “soggetto rivoluzionario”, ovvero il completo riassorbimento in una logica legalitaria di quelle classi che secondo i teorici della rivoluzione “giacobina” erano destinate dalla storia a ergersi a emancipatrici dell’umanità intera. Ciò ha provocato un vero cataclisma nell’immaginario anarchico, potenziandone gli elementi costitutivi più vicini all’ethos esistenziale:



L’anarchismo [...] si autoidentifica nel totale rifiuto della dimensione mondana e mediatrice tipica della politica. [...] Tutta l’azione politica del movimento anarchico è diretta a negare la politica stessa, nel senso che rinuncia aprioristicamente a una sua possibile gestione [...]. Il disincanto del mondo è stato portato alle sue ultime conseguenze, ma nello stesso tempo, pensando il mondo senza dominio e senza privilegio, l’anarchismo ha costituito un nuovo incanto proiettandolo nel futuro. Ciò ha significato, inevitabilmente, passare dalla politica all’etica. [3, pp. 17, 18]



Il “nuovo incanto” dell’anarchismo postclassico presenta fattezze irresistibilmente esistenziali. Ciò che Bookchin ha registrato come l’emergere di nuove “eresie” pare invece configurarsi come il prodotto di una crisi epocale dell’anarchismo stesso, liberatosi definitivamente delle scorie marxiste e giacobine. La vocazione alla secessione (sociale o individuale che sia), la spinta verso la libera sperimentazione, l’adozione di stili di vita non omologati e idiosincratici, il rifiuto di ogni dimensione “mondana e mediatrice” in quanto illusoria e ingannevole, sembrano così costituire un programma rivoluzionario forse non tanto concreto e “socialmente efficace” quanto desidererebbero alcuni, ma più che soddisfacente sul piano etico. E non sarà quindi reato di lesa maestà trovare proprio nell’”esteta” Goodman un progetto convincente, un progetto che può conferire un senso accettabile all’azione degli anarchici:



L’anarchia richiede competenza e fiducia in sé, richiede il mento che il mondo sia lì per noi. Non ha successo tra gli sfruttati, gli oppressi, i colonizzati. E quindi, sfortunatamente, manca di una poderosa spinta verso il cambiamento rivoluzionario. E tuttavia nelle ricche società liberali dell’Europa e del Nord America abbiamo, si spera, una possibilità come la seguente: gente abbastanza autonoma, tra la classe media, i giovani, gli artigiani e i professionisti, non può fare a meno di vedere che non possono continuare così nell’attuale situazione. Non possono lavorare in modo onesto e utile, oppure praticare una professione in modo nobile; le arti e le scienze sono corrotte; un’impresa di modeste proporzioni deve gonfiarsi a dismisura per poter sopravvivere; i giovani non riescono a trovare una propria vocazione; è duro allevare i figli; il talento viene strangolato dai titoli dì studio; si sta distruggendo l’ambiente naturale; la salute è in pericolo; la vita comunitaria è vacua; i quartieri sono brutti e insicuri; i servizi pubblici non funzionano; si sprecano le tasse in guerre, insegnanti e politici. E allora potrebbero fare dei cambiamenti, per estendere le aree di libertà minacciate dal dominio. Questi cambiamenti potrebbero essere a spizzichi, non drammatici, ma dovrebbero essere decisivi, perché molte delle attuali istituzioni non possono essere salvate e la tendenza del sistema nel suo insieme è disastrosa. Mi piace la locuzione marxista “estinzione dello stato”, ma il processo dovrebbe cominciare ora, non dopo, e il suo obiettivo non è una Nuova Società, ma una società tollerabile in cui la vita può andare avanti. [11, p. 33].





Riferimenti bibliografici :



1. E. ARMAND, Iniziazione individualista anarchica, edito a cura degli Amici italiani di Armand, Firenze, 1957.



2. Giovanni BALDELLI, Socìal Anarchism, Aldine-Atherton, Chicago, 1971.



3. Nico BERTI, Un’idea esagerata dì libertà, Elèuthera, Milano, 1994.



4. Amedeo BERTOLO, Al di là della democrazia. L’anarchia, in Volontà, numero 4/1994.



5. Hakim BEY, Primitives & Extropians, in Anarchy, numero 42/1995.



6. Hakim BEY, TAZ. Zone temporaneamente autonome, Shake, Milano, 1993.



7. Murray BOOKCHIN, Social Anarchism or Lifestyle Anarchism. An Unbridgeable Chasm, Ak Press, Londra e San Francisco, 1995.



8. Armando BORGHI, La rivoluzione mancata, Azione Comune, Milano, 1964.



9. Susan BROWN, The Politics of Individualism, Black Rose Books, Montreal, 1993.



10. Susan BROWN, A Reply to Murray Bookchin, in Anarchist Studies, ottobre 1996.



11. Paul GOODMAN, Decentralizing Power, Black Rose Books, Montreal, 1994.



12. Paul GOODMAN, Five Years, Vintage, New York, 1969.



13. Paul GOODMAN, Individuo e comunità, Elèuthera, Milano, 1995.



14. Emíle HENRY, Colpo su colpo, Vulcano, Treviolo, 1978.



15. Luciano LANZA, Autogestione ed economia, in Interrogations, numero 17-18/1979.



16. Errico MALATESTA, Scritti. Volume III. Pensiero e volontà e ultimi scritti, Edito a cura del Movimento anarchico italiano, Carrara, 1975.



17. Benjamin TUCKER, Instead of a Book, Benjamin Tucker, Boston, 1897.

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