sabato 17 agosto 2013

I MIEI RAPPORTI [ primo frammento ]

'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''

PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ primo frammento ]


Nella società umana potrà esser soddisfatto il postulato umano, ma quello egoistico avrà sempre la peggio.
Siccome è assai noto che l'età nostra a nessuna questione prende tanto interesse quanto a quella "sociale" bisogna fissare una speciale attenzione sulla società. Certo, se l'interesse non fosse tanto cieco e appassionato, non si dimenticherebbero così facilmente i singoli e si riconoscerebbe esser impossibile rinnovare una società sino a tanto che le persone che la compongono rimangono immutate. Così p. es. se nel popolo giudaico dovesse sorgere una società destinata a propagare nel mondo una nuova fede, gli apostoli di essa non potrebbero continuare ad essere dei farisei.
Tu ti riveli altrui e agisci secondo quello che sei. Un ipocrita si comporterà da ipocrita, un cristiano da cristiano. Perciò il carattere d'una società e determinato di quello dei singoli; essi l'hanno creata. Ciò dovrebbe esser chiaro anche senza analizzare il concetto " società ". Ma incuranti sempre di attendere al proprio sviluppo, di far valere sé stessi, gli uomini non hanno saputo fondare la società sulla base di sé stessi, e non ad altro hanno inteso che a costituirsi in società e a vivere socialmente. Le società restavano sempre persone, potenti persone, cosiddette "persone morali" fantasmi dinanzi ai quali il singolo si sentiva preso da un brivido di rispettoso terrore. Tali fantasmi potremmo designarli più facilmente col nome di "popoli" od anche di "popolucci"; il popolo dei patriarchi, il popolo degli Elleni, ecc. — poi il popolo umano, l'umanità (Anacarsi Clootz s'accendeva d'entusiasmo per la "nazione" dell'umanità), poi le suddivisioni in cui quello si scisse; il popolo francese, lo spagnolo ecc., e in mezzo a codesti popoli, gli Stati, le città, in breve le corporazioni d'ogni specie, e, quale estrema derivazione il breve popolo della famiglia. — Invece di dare a tutte le società finora esistite per modello il popolo, si potrebbero porre in luogo di esso i due estremi, vale a dire "l'umanità" e"la famiglia" che sono le due unità originarie. Noi abbiamo scelto la parola "popolo" non solo perché questa si ricollega per l'etimologia al vocabolo greco "polloi" che significa "molti" (la "moltitudine"), ma più ancora, perchè le "aspirazioni nazionali" oggidì ricorrono continuamente al pensiero e nel discorso, e perchè anche i ribelli di più recente data non hanno saputo liberarsi di quel fantasma, quantunque gli si dovrebbe preferire il vocabolo "umanità", visto che ormai tutti vanno in sollucchero per "l'umanità".
Dunque il popolo — l'umanità e la famiglia — è stato, quanto sembra, fin qui l'operatore unico della storia: all'interesse egoistico dovevano in quelle società prevalere gli interessi comuni, nazionali o popolari: interessi di casta, interessi famigliari ed interessi universalmente umani. Ma chi ha tratto alla rovina i popoli, dei quali la storia ci narra la caduta? Chi, se non l'egoista, che cercava l'utile proprio?
Se un interesse egoistico vi si insinuava, la società diventava "corrotta" e andava incontro alla sua dissoluzione; cosi avvenne della schiavitù allorché il diritto privato prevalse, cosi del cristianesimo quando la "coscienza dell'io" l' "autonomia dello spirito" riuscì ad affermarsi.
Il popolo cristiano ha prodotte due società, quant'esso durevoli: lo Stato e la Chiesa. Possono queste chiamarsi associazione d'egoisti? I fini che noi, appartenendo ad esse, proseguiamo, sono essi individuali e personali; o non più tosto popolari? Posso e devo io, vivendo in essi, affermare l'individualità mia, rivelarmi quale io sono?
Posso io pensare ed operare come voglio, e manifestarmi e vivere, svolgendo interamente il mio carattere, esercitando tutte le mie forze? Non devo forse, invece riguardar come intangibili la Maestà dello Stato, la Santità della Chiesa?
Dunque, io non posso fare ciò che voglio. Ma troverò in un'altra società, quale che essa sia, una smisurata libertà di potere? No di certo! Dunque, potremmo accontentarci di quella che abbiamo? Né pure? Altro è che il mio volere, il mio io, si spezzi contro un altro "io", altro che s'infranga contro un popolo. Nel primo caso io sono un avversario degno del mio nemico; nel secondo sono disprezzato, legato, sotto tutela; là stanno di fronte l'uomo contro l'uomo; qui, io sono lo scolaretto, impotente contro al suo condiscepolo, perchè questi ha chiamato in soccorso il padre e la madre sotto al cui grembiale egli è corso a nascondersi, mentre io, ragazzaccio mal educato, devo piegarmi e rimanermi dal far valere le mie ragioni; là io combatto contro un nemico in carne ed ossa; qui contro l'umanità; cioè contro qualcosa di generale, contro una maestà, contro un fantasma. Ma per me, ne la maestà né la santità sono ostacoli, nessuna cosa anzi è ostacolo se io posso superarla. Solo ciò ch'io non posso vincere pone un limite al mio potere; poiché la mia forza non è infinita, io sarò sempre un essere limitato, ma non già da forze esteriori, bensì dall'insufficienza del mio potere, dalla mia impotenza. Però "la guardia muore, ma non si arrende". Anzitutto ponetemi di fronte un avversario in carne ed ossa!
Dice il poeta:
"Oserò sfidare qualunque avversario purché io lo possa vedere e prender di mira, accendendo al suo il mio coraggio".
Molti privilegi furono certo soppressi col tempo, ma sempre pel vantaggio dello Stato, nel suo interesse, mai per quello dell'individuo. La sudditanza ereditaria fu p. es. soppressa per rafforzare la potenza d'un unico signore ereditario, del padrone del popolo, della potestà monarchica: con ciò la sudditanza ereditaria divenne ancora più gravosa. Solamente a vantaggio del monarca, abbia nome principe o legge, son caduti i privilegi. In Francia i cittadini se non sono sudditi ereditari del re, sono schiavi della "legge". La soggezione fu conservata; soltanto, lo Stato cristiano riconobbe che l'uomo non poteva servire a due padroni, perciò ad un solo conferì tutti i privilegi: ed egli ora può avvilire l'uno ed esaltare l'altra, concedere e togliere a suo talento i privilegi.
Ma che può importare a me dell'utile comune? Come tale esso non è l'utile mio. Esso può avvantaggiarsi, mentre io devo fremere in me stesso; lo Stato può esser circondato di splendore, mentre io muoio di fame. Dove mai si rivelò più aperta la stoltezza dei liberali politici, che nel voler contrapporre al governo il popolo e nel parlare di diritti popolari? Secondo essi il popolo dovrebbe esser maggiorenne, etc. Il singolo solo può esser tale, un popolo non mai. Cosi tutta la questione della libertà di stampa viene sconvolta quando la si esige quale un "diritto del popolo".
Essa non è che un diritto, o piuttosto un potere del singolo. Il popolo gode della libertà di stampa, ma io, parte di questo popolo, non la posseggo; la libertà del popolo non è la mia libertà, e la libertà di stampa, ammessa quale libertà popolare, avrà sempre al suo fianco una legge sulla stampa, che sarà diretta contro di me.
In generale, alle aspirazioni liberali dell'oggi bisogna sempre opporre questo.
La libertà del popolo non è la mia libertà.
Ammettiamo per ipotesi la libertà popolare e il diritto popolare: per esempio, il diritto che ognuno possa portar armi. Non si può perdere un tale diritto? Pur essendo proclamata la libertà popolare io posso esser incarcerato e come prigioniero esser privato del diritto di portar armi. Ma il diritto proprio non si può perdere mai.
Il liberalismo ci appare quale un ultimo tentativo di creare una libertà popolare, una libertà comunale, — della "società della generalità, dell'umanità; il sogno d'una umanità adulta, d'un popolo adulto, d'una comunità adulta, d'una società adulta".
Un popolo non può essere libero che a spese del singolo; poiché lo scopo essenziale di codesta libertà non è il singolo, bensì il popolo. Più un popolo è libero, e più asservito è il singolo: il popolo ateniese, proprio ai tempi di sua maggior libertà inventò l'ostracismo, bandì gli atei, propinò il veleno al più giusto dei pensatori.
Si elogia Socrate per gli scrupoli di coscienza che lo fecero resistere ai suggerimenti di fuggire dal suo carcere! Egli fu uno stolto concedendo agli Ateniesi il diritto di condannarlo.
Perciò quel che gli successe, sino a un certo segno, gli sta bene: perché volle egli ostinarsi a convivere con gli Ateniesi? Perchè non ruppe loro la guerra? Se egli avesse avuto coscienza di sé, non avrebbe concesso ai suoi giudici tali diritti né tali pretese.
Il non esser fuggito fu appunto la sua debolezza: fu falsa credenza la sua di avere ancora qualcosa di comune con gli Ateniesi, fu errore l'idea che egli fosse un membro, nient'altro che un membro di quel popolo. Egli compendiava tutto quel popolo nella sua persona: perciò egli soltanto poteva esser giudice proprio. Non c'era giudice al disopra di lui. E del resto egli aveva pur espresso pubblicamente giusto giudizio su sé stesso, proclamandosi degno del "pritaneo". Ma egli dovea restar fermo in ciò; e poiché non aveva pronunciata sentenza di morte contro sé stesso egli era in dovere di disprezzare quella degli Ateniesi e di sottrarsene. Ma egli volle sottomettersi al popolo, riconoscere in lui il suo giudice, e così sembrò piccolo a se stesso di fronte alla maestà del popolo. Dandosi in balia alla forza — che sola poteva trionfare di lui — ravvisando in quella forza un diritto, egli tradì sé stesso. Cristo il quale rinunzia al potere che ha sulle sue legioni celesti, vien posto dai suoi storici in una consimile posizione.
Lutero agi con molta prudenza ed assennatezza facendosi rilasciare per iscritto un salvacondotto nel suo viaggio a Worms: Socrate del pari avrebbe dovuto sapere che gli Ateniesi erano suoi nemici e che egli non poteva avere altri giudici che sé stesso. I pregiudizi di "diritto e legge" dovevano dileguare dinanzi alla convinzione, che ogni rapporto con la moltitudine è un rapporto forzato.
Con i sofismi gli intrighi ebbe fine la libertà ateniese. Perchè? Perché i Greci non seppero arrivare a quelle logiche conseguenze, che non poté raggiungere nemmeno quel loro eroe del pensiero che fu Socrate. Che cosa sono i sofismi se non l'arte di sfruttare l'ordine di cose esistenti, pur non avendo coraggio né forza di abolirlo?
Io potrei soggiungere "a proprio vantaggio" ma ciò è già compreso nella parola "sfruttare".
Non dissimili ai sofisti sono i teologi, che interpretano a loro "vantaggio" la parola divina; che cosa interpreterebbero, se la parola divina non esistesse già? Così operano anche i liberali che con le loro interpretazioni sofistiche si rivolgono contro l'ordine di cose esistente. Son tutti raggiratori del diritto.
Socrate riconosceva il diritto, la legge; i Greci conservarono sempre l'autorità della legge e del diritto. Se ciò non ostante essi cercavano il proprio vantaggio, dovevano cercarlo forzatamente nell'interpretazione sofistica o arbitraria della legge, nella frode e nell'artifizio. Alcibiade, un raggiratore di genio, apre il periodo della decadenza ateniese; lo spartano Lisandro dimostra che il vezzo del sofisma è diventato generale tra i Greci. Il diritto greco, su cui si fondavano gli Stati greci, doveva esser falsato e distrutto dagli egoisti entro i confini di quegli Stati; per ciò gli Stati perirono perchè i singoli potessero esser liberi, e il popolo greco cadde perchè i singoli meglio che del popolo ebbero cura di sé stessi. In generale tutti gli Stati, le costituzioni, le religioni sono perite per la diserzione dei singoli; poiché il singolo é il nemico irriconciliabile di tutto ciò ch'è comune. E pure oggi ancora si ritiene falsamente che l'uomo abbisogni di "sacri legami", egli ch'è nemico acerrimo d'ogni legame. La storia universale dimostra che finora non vi fu legame che non si sia potuto infrangere, dimostra che l'uomo indefessamente tende a spezzare ogni vincolo; e pure l'accecamento umano è tale che vincoli sempre nuovi si creano e si crede d'aver raggiunto l'ideale sognato quando si legano all'uomo mani e piedi con un bel nastro costituzionale, con la cosiddetta costituzione libera; quando gli si conferisce un bell'ordine il cui nastro serve qual legame di fiducia tra "...".
Tutto ciò che è sacro è un legame, un vincolo.
Tutto ciò ch'è sacro deve esser interpretato a proprio modo dai raggiratori del diritto; perciò la nostra età in tutte le classi sociali conta di tali raggiratori in buon dato. Essi spianano la via ai ribelli, agli anarchici del diritto.
Poveri Ateniesi accusati di sofismi, povero Alcibiade tacciato d'intrigante. Ciò che a voi si rimprovera è la miglior parte di voi stessi, il vostro primo passo verso il progresso. I vostri Eschili, Erodoti, ecc., volevano che il popolo greco fosse libero. Voi soltanto incominciaste ad aver una vaga idea della vostra libertà.
Un popolo opprime coloro che vogliono levarsi alla sua maestà, punisce coll'ostracismo i cittadini strapotenti, persegue coll'inquisizione gli eretici, i rei di alto tradimento contro lo Stato, ecc.
Poiché il popolo di non altro ha cura che del suo vantaggio, è naturale che esso richieda da ognuno un patriottismo pronto al sacrificio. Per il popolo l'individuo riesce indifferente, è un nulla. Il popolo non può fare; non può tollerare ciò che il singolo soltanto può: cioè far valere le proprie qualità. Ingiusto è ogni popolo, ingiusto è ogni Stato contro l'egoista.
Fino a tanto che un'istituzione dura ancora, finché il singolo non l'ha potuta distruggere, io sarò ancor lontano dall'esser padrone di me stesso. Come potrei p. e. esser libero, se col giuramento devo vincolarmi ad una costituzione, ad una "carta", ad una legge, se cioè devo legarmi "corpo ed anima" al mio popolo? Come posso esser padrone di me stesso, se le mie facoltà non possono svilupparsi che sino a quel limite oltre il quale turberebbero "l'armonia della società"? (Weitling).
Il tramonto dei popoli e dell'umanità sarà la risoluzione del mio "io".
Ma appunto mentre sto scrivendo questo, le campane incominciano a suonare, annunciando le feste di domani: il compiersi del millennio dal dì in cui cominciò ad esistere la nostra diletta Germania. Suonate, suonate l'agonia della moribonda! Il vostro suono è solenne, quasi sapeste di suonare a chi sta per morire. Il popolo tedesco ha una storia millenaria dietro di sé; quale lunga vita; Andate a dormire, o secoli, ne risorgete mai più, affinché siano liberi coloro che sinora erano avvinti in ceppi. — Morto è il popolo. — Ebbene vivrò io!
Ma tu, mio tormentato popolo tedesco, di che cosa più soffristi? Il tuo fu il tormento d'un pensiero che non seppe crearsi un corpo, il travaglio d'un fantasma funesto, il quale ad ogni canto di gallo vaniva nel nulla, eppure attendeva redenzione e compimento. Anche in me tu hai vissuto a lungo, o diletto pensiero o caro fantasma. Per poco io mi illudeva d'aver trovata la parola della tua redenzione, ed ecco, sento suonare le campane che ti accompagnano al riposo eterno, e con quel suono l'ultima speranza dilegua, svanisce l'ultimo amore, e io parto dalla casa deserta dei morti e ritorno tra i viventi. "Perchè soltanto chi vive ha ragione".
Addio sogno di tanti milioni, addio tiranna millenaria dei tuoi figli!
Domani ti si darà sepoltura; in breve ti seguiranno le sorelle: le nazioni. Ma insieme con loro sarà sepolta l'umanità ed io sarò finalmente padrone di me stesso: sarò l'erede gioivo.
La parola "società" richiama il concetto della sala. Se una sala comprende molte persone, la sala è la ragione per cui quelle persone si trovano in società. Esse sono società e formano infatti una società da salotto, e si trastullano colle solite frasi da salotto. Ma quando si tratta di rapporti reali, questi devonsi riguardare come indipendenti dalla società e si ha obbligo di considerarli in sé stessi. Parte della società sono in un salotto anche coloro che si mantengono silenziosi o che si contentano a profferir poche frasi convenzionali. I rapporti implicano una reciprocità, un'azione un "commercium" dei singoli; la società non consiste che nella comunanza della sala; e nella sala le persone sono ordinate come le statue in un museo, formano dei "gruppi". Si suol dire, è vero che si possiede in comune "una sala"; ma piuttosto è vero il contrario, cioè che la sala possiede noi e che ci contiene in sé. Questo il significato naturale della società. Da ciò si viene a rilevare che la società non è generata e formata da me e da te, bensì da una terza cosa che di noi fa due compagni.
La stessa cosa è d'una società o di una compagnia d'ergastolo, cioè di persone rinchiuse nella stessa prigione. Qui noi ci abbattiamo ad una terza cosa più ricca di contenuto che non fosse la semplice sala alla quale accennammo. La prigione non significa più un semplice spazio chiuso, bensì uno spazio che ha un rapporto diretto coi suoi abitatori; quello spazio è prigione soltanto perchè è destinato ai prigionieri, senza dei quali sarebbe un edificio qualunque. E chi da ai singoli ivi rinchiusi un' impronta speciale comune? Per certo la prigione, poiché senza di questa non sarebbero prigionieri. Chi dunque determina il modo di vivere della società carceraria? La prigione! Chi i loro rapporti? forse anche qui la prigione? E certo che essi non possono aver rapporti fra di loro che in quanto sono prigionieri, in quanto cioè lo consentano i regolamenti della prigione; ma tali regolamenti intervengono non ad agevolare bensì a circoscrivere i rapporti stessi. La prigione può obbligarci bensì a lavorare in comune, a metter in moto una macchina; ma farci dimenticare che noi siamo prigionieri, e favorire lo svolgere dei rapporti personali, la prigione non può, perchè ciò sarebbe per essa un pericolo: farà dunque di tutto per impedirlo.
Per questo motivo la santa e morale Camera francese ha deciso d'introdurre la "reclusione cellulare" ed altri santi siffatti escogiteranno qualche cosa di simile per impedire i "rapporti immorali". La prigionia è una cosa che esiste e che per ciò è sacra: non si deve tentar di toccarla.
Anche il più lieve tentativo in questo riguardo diviene punibile, quasi una ribellione dell'uomo contro una cosa che da lui, quale sacra, dev'essere rispettata.
Al pari della sala, anche la prigione dunque forma una società una compagnia, una comunità (p. e. per la comunanza del lavoro), ma non crea già dei rapporti, ne produce una vera unione. Al contrario, ogni unione entro le mura della prigione ha in sé il pericolo d'un complotto, il quale, favorito dalle circostanze, potrebbe tradursi in un'azione e quindi in un danno.
Ma in prigione di solito non ci si va spontaneamente, e di rado vi si resta di buon grado: anzi chi v'è rinchiuso sente il desiderio egoistico di riavere la libertà. Perciò si comprenderà di leggieri che i rapporti personali tra quei condannati saranno intesi non già a conservare la loro società, bensì a dissolverla, il che per essi significa riacquistare la libertà.
Osserviamo ora un po' quelle società nelle quali, a quanto sembra, noi viviamo volontariamente e di buon grado, senza metterne in pericolo l'esistenza coi nostri istinti egoistici.
L'esempio più comune d'una società di tal fatta ci è dato dalla famiglia. Genitori, coniugi, figli e fratelli formano un tutto e rappresentano la famiglia, che può esser ampliata quando vi si ammettono anche i congiunti laterali.
La famiglia sarà una vera comunità solo in quanto la legge della famiglia, la pietà o l'amor famigliare saranno osservate dai singoli suoi componenti. Un figlio, cui i genitori e i fratelli siano divenuti indifferenti, ha cessato d'esser figlio; poiché la virtù figliale se non può manifestarsi non ha maggior significato del legame materiale, l'ombelico, che unisce il figlio nascituro alla madre.
Che un tempo si sia vissuti in una cotale unione corporale è cosa che non si può negare: per ciò si rimane irrevocabilmente figli della propria madre e fratelli dei figli di lei, ma per conservare una tale unione è necessaria la pietà figliale, lo spirito della famiglia.
I singoli sono soltanto allora nel pieno senso membri di una famiglia quando s'impongono quale compito la conservazione della famiglia: soltanto in tali intendimenti conservativi essi si astengono dallo scalzare le fondamenta. Una cosa dev'esser sicura e sacrosanta ad ogni membro della famiglia, cioè la famiglia stessa, o meglio ancora, la pietà verso la famiglia: cotesta è, per colui che si mantiene lontano da ogni egoismo, una verità intangibile. In una parola — se la famiglia è santa, nessuno di coloro che ne fanno parte deve svincolarsi da lei, altrimenti diviene un delinquente rispetto ad essa; egli non deve mai proseguire alcun fine antifamigliare, per esempio non deve determinarsi ad una unione illegale. Chi fa ciò "disonora la famiglia" la "copre di vergogna", ecc.
Ora colui che non sente abbastanza forte lo stimolo dell'egoismo accetta volentieri il matrimonio che convenga alle esigenze della famiglia, e abbraccia una professione che armonizzi con la condizione sociale della famiglia, in breve fa onore "alla sua famiglia".
Invece l'egoista vero preferisce essere un delinquente rispetto alla famiglia, pur di sottrarsi al peso delle sue leggi.
Quale mi sta più a cuore; la salute della famiglia, o la mia? Assai volte i due interessi procedono d'accordo, si che l'utile della famiglia è anche il mio: in tali casi, è difficile il giudicare se io agisco egoisticamente, per mio vantaggio, o disinteressatamente, pel ben comune. Ma verrà il giorno ch'io dovrò pur scegliere: posto nella necessità o di rinunciare a un mio piacere o di guastarmi co' miei, come mi condurrò? Allora si chiarirà da vero quel che io pensi in fondo del cuore; allora apparirà aperto se la pietà era stata collocata da me al disopra dell'egoismo, ed io non potrò più celare l'interesse mio dietro un disinteresse apparente. Un desiderio sorge nell'anima mia e di ora in ora s'accresce finché prorompe in passione. A chi mai s'affaccerà in tal caso l'idea, che anche il più lieve pensiero che possa cozzare contro lo spirito di famiglia, contro la pietà, porti già in sé il germe d'un delitto? Chi mai in un tal caso sarà cosciente di quello che fa? Tale è il caso di Giulia "nella Giulietta e Romeo". La passione non ha più freno e abbatte il culto della pietà. Voi mi opporrete certamente che le famiglie per egoismo soltanto respingono da sé coloro che prestano più ascolto alla passione che non alla pietà. I buoni protestanti si sono valsi, e con successo, di questo argomento contro i cattolici e hanno finito a rimanerne persuasi.
Ma ciò non è che una scusa, un pretesto, per allontanare da sé stessi ogni colpa. I cattolici eran teneri dell'unità della Chiesa cristiana e respingevano da sé, quali eretici, coloro che non sapevano dar tanto valore a quell'unità da sacrificarle i propri convincimenti. Coloro che non sentono la religione della famiglia, non sono già espulsi, ma si escludono da sé con l'anteporre ai vincoli famigliari la propria passione o il proprio capriccio.
Ma talora s'accende un desiderio in cuori meno appassionati e tenaci, che non fosse quello di Giulietta. La fanciulla proclive a cedere offre sé stessa in olocausto alla pace famigliare. Si potrebbe dire che anche da ciò non è escluso l'egoismo, poiché una tale risoluzione può ben dimostrare che colei che cede si sente più soddisfatta nel trovarsi in pace con la propria famiglia, che non nel compiacere ai suoi propri desideri. Forse: ma che dovremmo dire, se avessimo sicuro indizio che l'egoismo è stato sacrificato alla pietà? Se il desiderio diretto contro la pace domestica, anche dopo il sacrificio fatto, restasse nella memoria quale un "olocausto" recato in omaggio a un sacro vincolo? Che cosa diremmo, se colei che ha ceduto avesse sempre coscienza di aver lasciata insoddisfatta la propria volontà e d'essersi sottomessa umilmente ad una forza maggiore? Sottomessa e sacrificata, perchè il pregiudizio della pietà esercitò su di lei il suo imperio?
Là ha vinto l'egoismo, qui la pietà, e il cuore dell'egoista sanguina; là l'egoismo era forte qui si dimostrò debole. Ma i deboli — lo sappiamo molto bene — sono i disinteressati. Di codesti membri fiacchi si prende cura la famiglia, poiché essi appartengono alla famiglia, non a se stessi, e di sé non sanno prender cura. Questa debolezza ha gli elogi di Hegel il quale vorrebbe lasciata all'arbitrio dei genitori la scelta dei matrimoni.
Alla famiglia, quale sacra comunità cui il singolo deve rispetto ed obbedienza, spetta anche l'officio del giudice. Un tale "giudizio di famiglia" è efficacemente descritto nel Cabanis di Willifaldo Alexis. Il padre, in nome del "consiglio famigliare", costringe il figlio, in punizione dell'onta recata alla famiglia, a farsi soldato, e ad abbandonare la casa. Le conseguenze più logiche della responsabilità domestica son quelle sancite dal diritto cinese, secondo il quale per la colpa d'un singolo membro tutta la famiglia è condannata all'espiazione.
Ma ai dì nostri il braccio della giurisdizione famigliare non si stende tanto da colpire seriamente l'apostata della famiglia. Il delinquente contro la famiglia trova un rifugio nel territorio dello Stato ed è libero, al pari del delinquente politico, cui è dato rifugiarsi in America.
Egli, il figliuolo degenere, che ha disonorato la propria famiglia, ottiene protezione contro la persecuzione famigliare, perchè lo Stato, questo patrono, toglie al potere domestico l'aureola della "santità", e lo profana, decretando che la punizione da quello minacciata non altro è che vendetta. Esso s'oppone alla punizione, perchè al suo cospetto, dinanzi alla "santità" dello Stato, la santità subordinata della famiglia impallidisce. Quando però tra i due poteri non sia contrasto, lo Stato lascia libera la via alla giurisdizione famigliare: ma in altri casi esso giunge ad imporre il delitto "contro la famiglia", ordinando p. e. al figlio, di ricusare obbedienza ai genitori quando questi volessero indurlo a perpetrare un delitto contro lo Stato.
Dunque, l'egoista ha infranto i vincoli familiari ed ha trovato nello Stato un difensore contro lo spirito di famiglia che fu, per tal modo umiliato. Ma dove è andato a finire l'egoista? In un'altra società dove il suo egoismo è insidiato dalle stesse serpi, dalle stesse reti, alle quali poc'anzi era potuto sfuggire. Poiché lo Stato è anch'esso una società, non sia un'unione: è in somma una famiglia più estesa (il padre, la madre della nazione, del popolo, ecc.)
Quello che si chiama Stato è un tessuto di dipendenze e di colleganze; coloro che si sostengono per forza dello Stato sono soggetti gli uni agli altri. Lo stato è il regolatore di codesta dipendenza. Supposto che il re, il cui potere conferisce autorità a chiunque da lui dipenda (e quindi persino alla più umile guardia di polizia), sparisce, ciò nondimeno tutti coloro in cui fosse ancor desto il senso dell'ordine sosterrebbero l'ordine contro il disordine bestiale, perché comprenderebbero che se il disordine avesse il sopravvento, lo Stato dovrebbe pur cessare d'esistere.
Ma quest'idea prediletta dell'adattarsi l'uno all'altro, di dipendere reciprocamente l'un dall'altro è proprio tale da cattivarsi le nostre simpatie? Lo Stato sarebbe in tal modo l'incarnazione dell'amore, significherebbe il tutti per ciascuno, e l'uno per tutti. Ma nell'ordine non va forse perduto il sentimento della propria volontà? Sarà per noi soddisfazione bastante questa di sapere che l'ordine è mantenuto colla forza, vale a dire che si è provveduto che l'uno non calpesti l'altro impunemente, o, a dir più breve, che il gregge sia ordinato in modo ragionevole? Ma in tal caso tutto si troverebbe ad essere nel miglior ordine possibile, e questo miglior ordine possibile avrebbe, nome di Stato!
Le nostre società e i nostri Stati esistono senza che siano stati fatti da noi, sono composti non per forza della nostra riunione ma indipendentemente dal nostro volere, ed hanno una esistenza propria, autonoma, e formano contro noi egoisti l'esistente indissolubile. Le lotte odierne, dicesi, sono dirette contro tutto ciò che sussiste. Se non che s'intende sempre, ed a torto che tutto ciò che esiste debba essere sostituito con altre migliori forme d'esistenza. Ma la guerra per chi sa comprendere direttamente, potrebbe esser meglio diretta, non già contro uno Stato determinato o contro certe condizioni dello Stato, e non già a favore d'un altro Stato (p. es. lo Stato popolare) cui si aspiri, bensì a vantaggio d'una unione degli Stati.
Uno Stato esiste anche senza il mio concorso. Io nasco in lui, vengo in esso allevato, ho degli obblighi verso di lui, e devo prestargli "omaggio". Egli mi prende sotto la sua protezione ed io vivo dalla sua "grazia". E di tal modo l'esistenza indipendente dello Stato implica la mia dipendenza; il suo organismo richiede che la mia natura non si svolga liberamente, ma che sia adattata ai bisogni di esso. Affinché possa espandersi liberamente, egli applica su me la forbice della "civiltà"; egli m'impone un'educazione appropriata non già a me bensì ad esso Stato, e m'insegna p. es. a rispettare le leggi, ad astenermi dal ledere la proprietà sociale (vale a dire dei privati), a venerare una supremazia divina e terrena, in breve a vivere senza colpa, esigendo che io sacrifichi tutto ciò che m'è proprio alla "santità" (sacre son tutte le cose possibili, la proprietà, la vita degli altri, e cosi via). Questa è la specie di civiltà e di coltura che lo Stato è in condizione di darmi: egli forma del mio essere uno "strumento utile", mi rende un "membro utile della società".
Questo deve fare ogni Stato, sia esso popolare o costituzionale o dispotico, sino a tanto che noi siamo schiavi dell'errore che lo Stato sia un "io" e come tale dia a se stesso il nome di una "persona morale, mistica o politica". Questa pelle del leone dell'Io di cui l'insuperbito divoratore d'ortiche s'è rivestito, io, che sono realmente Io, devo cercar di strappargliela. Quante e quali spogliazioni fui costretto a tollerare nel corso dei secoli! Ho dovuto tollerare che il sole, la luna, le stelle, i gatti, i coccodrilli s'arrogassero l'onore di rappresentare l' "Io"; questo onore toccò poi a Geova, ad Allah, al Padre Nostro, tutti regalati dell' "Io". Poi vennero le famiglie, le tribù, i popoli, e in fine l'umanità tutta intera e si fregiarono dell' "Io"; all'ultimo anche lo Stato e la Chiesa pretesero d'esser un "Io", ed io assistetti indifferente a tale spettacolo. Quale meraviglia, che poi qualche "io"? genuino osasse sostenermi in faccia ch'esso non era un estraneo, bensì il mio proprio io? Questo è ciò che fece il figlio dell'uomo par excellence: o perchè non dovrebbe poterlo fare anche un figlio dell'uomo qual si fosse? E, così ho veduto sempre il mio io al disopra di me, fuori di me e non giunsi mai a fissarlo dentro di me.
Io non credetti mai all'Io nel presente, sempre lo vagheggiai nel futuro. Il ragazzo crede che sarà un vero io quando sarà adulto; l'uomo adulto s'immagina che solo nell'avvenire egli raggiungerà la perfezione. E per trovarci più vicini alla realtà, anche i migliori cercano di persuadersi vicendevolmente che è necessario comprendere in sé stessi e lo Stato e il popolo e l'umanità e Dio sa quale altra cosa per giunta; per essere dei veri "io", dei "liberi cittadini", "dei cittadini dello Stato", degli "uomini veramente liberi". Anch'essi scorgono la verità e la realtà del proprio "io" nella percezione d'un "io" estraneo e nel dedicarsi ad esso. Ma di qual "io"? D'un io immaginario d'un fantasma.
Mentre nel medio evo la Chiesa poteva tollerare facilmente l'esistenza di molti Stati ch'ella componeva in un'ideale unità, gli Stati, dopo la riforma e più ancora dopo la guerra dei trent'anni, impararono a tollerar molte Chiese (confessioni) raccolte sotto uno stesso scettro. Ma tutti gli Stati sono religiosi e cristiani, e si assegnano per compito di costringere i "refrattari", gli "egoisti" sotto un giogo contrario alla natura, cioè di cristianizzarli. Tutte le istituzioni dello Stato cristiano convergono allo scopo di cristianizzare il popolo. Così i tribunali hanno per intento di costringere gli uomini alla giustizia, la scuola di obbligarli a coltivare la mente, in breve, di tutelare chi opera cristianamente e di difenderlo contro chi opera contrariamente ai precetti cristiani, di dare la dominazione all'opera cristiana, di renderla oltre ogni altra potente. Tra questi mezzi coercitivi, lo Stato annovera anche la religione, poiché richiede da ciascuno ch'egli accetti una confessione determinata. Dupin si espresse di recente in senso anticlericale? "L'istruzione e l'educazione sono di spettanza dello Stato".
Questione di Stato è certamente tutto ciò che tocca alla moralità. Per questa ragione lo Stato cinese s'impaccia nelle faccende famigliari e nella Cina non ha pregio chi prima d'ogni cosa non sia un buon figlio. Le questioni domestiche sono anche presso di noi questioni di Stato, con questa sola differenza: che lo Stato ha fiducia nella famiglia e per ciò non la sottopone ad una rigorosa vigilanza. Col matrimonio esso la tiene legata così che senza il suo consenso quel nodo non può esser disciolto.
Ma che lo Stato tenga me responsabile dei miei principi, e me ne imponga più d'uno, la è cosa che mi costringe a domandare: O che glie ne importa allo Stato? Assai — mi risponde — poiché esso è il principio dominante. Si ritiene che nelle questioni di divorzio e più largamente in tutte quelle che hanno attinenza al matrimonio, si dibatte la prevalenza del diritto tra la Chiesa e lo Stato. Si tratta invece di quest'altra indagine: se la religione, sia pur essa fede o morale, debba imperare sull'uomo. Lo Stato si conduce da dominatore come la Chiesa; e la morale è per esso ciò che per la Chiesa la fede.
Si parla della tolleranza, della liberalità di cui gli Stati civili dovrebbero dar prova col consentire alle opposte tendenze di svolgersi senza impedimenti. Certo tra gli Stati ve ne ha di tali che si sentono forti tanto da assistere tranquillamente anche ai meetings più tumultuosi, mentre altri sguinzagliano gli sbirri alla caccia di pipe da tabacco. Ma per tutti gli Stati, senza eccezione, i giochi degli individui, la vita loro di ogni giorno, i lor diporti, son cose di nessun rilevo, ch'essi non intralciano perchè non ne saprebbero che fare. Vero è bensì che alcuni s'occupano delle piccole cose e trascurano le importanti, mentre altri sono più assennati e s'impacciano meno dei fatti dei cittadini. Ma libero veramente io non sono in nessuno Stato. La celebrata tolleranza degli Stati non altro è che il tollerare ciò che è "innocuo" il non curarsi delle minuzie: un dispotismo in somma, più rispettabile, più grandioso, più orgoglioso. Uno Stato, ch'io mi so, sembrava per qualche tempo voler esser superiore alle lotte "letterarie" che si combattevano col massimo ardore; l'Inghilterra è superiore ai tumulti popolari e lascia libero l'uso di fumar tabacco. Ma guai alla letteratura che ardisca assalire lo Stato, guai alle riunioni popolari che siano una "minaccia" per lo Stato. Nello Stato da me accennato si sogna una "scienza libera", in Inghilterra una "libera vita del popolo".
Lo Stato permette ai cittadini di sollazzarsi liberamente, ma operar seriamente essi non possono se non col suo consenso e nel modo ch'ei vuole. L'uomo non può avere rapporti di qualche rilevanza col suo simile, se non con la vigilanza e l'intervento superiore. Io non posso svolgere tutta la mia attività in tutta la sua pienezza, ma unicamente quel tanto di essa che lo Stato mi permette: io non posso far valere come meglio mi piaccia le mie idee, il mio lavoro, nulla anzi in genere di ciò che è mio.
Lo Stato ha sempre il fine di circoscrivere l'operosità del cittadino, di domarlo, di renderlo soggetto a qualche interesse generale. Esso è insomma l'espressione della limitazione individuale e rappresenta per l'Io la schiavitù. Non mai esso si proporrà il compito di agevolare il libero svolgimento dell'attività dei singoli, ma sempre avrà cura soltanto di quella attività che alla ragion sua è necessaria. E né pure è capace di produrre al meno alcun che di collettivo. Poi che non può dirsi da vero che un tessuto sia l'opera collettiva delle differenti parti di una macchina: non esso è piùttosto il risultato del lavoro di tutte le macchine considerate come unità? Lo stesso deve dirsi di tutto ciò che esce dalla macchina dello Stato. Ogni libera attività è impedita nel suo svolgimento mediante la censura, la vigilanza, la polizia: e l'attraversarsele pare allo Stato un dovere, perchè realmente ciò gli è imposto dalle necessità della propria conservazione. Lo Stato vuole fare dell'uomo qualche cosa che gli torni utile, perciò non favorisce che gli uomini ch'esso ha foggiati a sua immagine; ognuno che voglia essere padrone di sé stesso diviene per questo solo un avversario dello Stato e più non vi conta per nulla. "E un uomo da nulla", si dice in fatti di persona di cui lo Stato non sa che fare, non avendo modo di impiegarla e d'adoperarla ai suoi fini.
E. Bauer nelle sue aspirazioni liberali (II. 50) sogna ancora di un " governo " che, sorto dal popolo, non si troverà mai in opposizione con esso! Egli stesso in seguito cancella, è vero {p. 69), la parola "governo": "In una Repubblica non ha valore nessun governo, ma soltanto la forza esecutiva". Derivazione diretta e pura del popolo, questo potere non rappresenterebbe per lui né una forza indipendente, né un principio indipendente, né avrebbe altri ufficiali che quelli dal popolo eletti, né trarrebbe il suo fondamento e l'autorità sua d'altronde che dal popolo, unica e suprema possanza dello Stato. Il concetto "governo" non s'adatta quindi a quello di "Stato popolare". Ma la cosa non muta, se pur cambiano le parole. Ciò che è "sorto, fondato, emanato" diviene cosa "indipendente"; e, come il bambino staccato dal grembo materno, si mette tosto in contrasto con chi l'ha creato. Il governo, se non fosse alcunché d'indipendente e d'opposto al singolo, cesserebbe d'esser qualche cosa.
"Nello Stato libero non esistono governi, ecc." (pag. 94) Ciò vuol dire che il popolo, quand'è sovrano, non si piega a un potere superiore. Ma forse che nella Monarchia assoluta le cose procedono diversamente? C'è forse in essa per il sovrano una potenza più alta della sua? Al disopra del sovrano, sia questo un principe o un popolo, nessun governo impera: ciò va da sé. Ma al disopra di me ci sarà sempre un governo, tanto nello Stato assoluto quanto nel repubblicano "libero". L'io si trova a disagio cosi nell'uno come nell'altro.
La repubblica non è per nulla migliore della Monarchia assoluta, poiché poco importa che il monarca abbia nome "principe" o "popolo": l'uno e l'altro sono "maestà". Appunto il costituzionalismo dimostra che nessuno può né vuole essere un semplice strumento. I ministri signoreggiano il loro padrone — il principe; il deputato cerca, pur egli, di dominare il suo — il popolo. Il principe deve acconciarsi alla volontà dei ministri, il popolo deve ballare secondo la musica delle Camere. Il costituzionalismo segna si un progresso sulla Repubblica, ma per ciò solo che esso rappresenta il cammino dello Stato verso la dissoluzione.
E. Bauer nega (p. 56) che il popolo nello Stato costituzionale sia "una personalità"; ma è tale almeno in una Repubblica? Nello Stato costituzionale il popolo rappresenta un "partito", e un partito infine è una "personalità" se s'intende designare con questo nome "una persona morale" (pag. 76). La verità è che una persona morale, si chiami essa partito popolare, popolo, o "signore", non è in nessun caso una persona, bensì sempre un fantasma.
Poi, cosi prosegue E. Bauer (pag. 69), "la tutela e il carattere che contrassegna ogni governo".
Ma tal carattere si afferma, per verità, anche in maggior grado nel popolo e nello "Stato popolare"; esso è il segno di ogni dominazione. Uno Stato popolare che raccoglie in sé tutta "l'onnipotenza", non può permettere che l'io diventi potente. E quale chimera il non voler più chiamare i "funzionari popolari" col nome di "servi", di "strumenti", perchè essi sono gli esecutori della "libera, ragionevole volontà popolare"! (p. 73). Dice lo Stato popolare: "Soltanto coll'assoggettare gli impiegati alle idee del governo, si può assicurare la unità in uno Stato". E poiché di tale "unità" deve godere pur esso, eccolo costretto a imporre agli impiegati di sottomettere al volere del popolo la volontà loro.
"Nello Stato costituzionale il sovrano ed il suo modo di pensare sono il fondamento di tutto l'edifìzio del governo" (p. 130). Sarebbe forse diversa la cosa nello Stato popolare? Non sarei io governato anche qui in conformità del modo di pensare del popolo? E posso io scorgere una distinzione in ciò, che io sia dipendente dal modo di pensare d'un principe, o in vece da quello del popolo (cioè dalla cosiddetta opinione popolare), se dipendente o nell'un modo o nell'altro sono pur sempre?
Se dipendenza è il vero senso del "rapporto religioso", come afferma Bauer, con tutta ragione nello Stato popolare il popolo sarà per me la "potenza superiore", la "maestà" (poiché nella maestà si assommano l'essenza vera di Dio e quella del principe) alla quale io mi troverò legato da un rapporto religioso. — Al pari del sovrano, anche il popolo non potrebbe esser colpito da alcuna legge. Tutti gli sforzi del Bauer si risolvono nell'ottenere un cangiamento di padrone. Ma invece di voler render libero il popolo, egli avrebbe dovuto porre ogni suo studio nel dar la libertà a se stesso, — dacché questa è la sola libertà che si possa ottenere da vero. Nello Stato costituzionale l'assolutismo ha finito a mettersi per disperato in lotta con sé stesso, dividendosi in due parti: il governo e il popolo. Entrambi vogliono essere assoluti. E questi due assoluti finiranno col distruggersi reciprocamente. 

Max Stirner

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