lunedì 19 agosto 2013

I MIEI RAPPORTI [ secondo frammento ]

'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''

PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ secondo frammento ]


E. Bauer sostiene esser ingiusto che il sovrano acquisti i suoi diritti colla nascita in forza del caso. Ma se il popolo diventa "la sola forza dominante" nello Stato, non avremo noi anche in esso un padrone datoci dal caso? Che cosa è il popolo? Il popolo è sempre stato soltanto il corpo del governo. Il popolo si compone di molte persone raccolte sotto una sola dominazione (governo del principe), o composte in una unica costituzione. E la costituzione è in fin dei conti una dominazione pur essa. Principi e popoli esisteranno sino a tanto che non cadranno insieme.
Se vari popoli trovansi riuniti in un'unica costituzione, essi prendono nome di "province". Per me il popolo è nulla più che una potenza accidentale, una forza elementare, un nemico del quale io devo riuscir vittorioso.
Che cosa si deve intendere per un popolo organizzato? (p. 132). Un popolo non più soggetto, che si governa da sé medesimo. Dunque un popolo nel quale non emerge l'io, un popolo retto con l'ostracismo. Il bando inflitto all'io, l'ostracismo, rende signore di sé il popolo.
Se parlate di popoli siete costretti a parlare dei principi; poiché il popolo, per poter fare della storia da sé, deve avere, come tutto ciò che opera, una testa, un capo che lo guidi. Weitling ci espone questo nel "Trio" e Proudhon ribadisce: "une société pour ainsi dire acphale ne peut vivre".
La vox popoli oggidì ci viene sempre addotta come un argomento di ragione: "l'opinione pubblica" deve predominare sui principi. Certamente la vox popoli è anche la vox dei, ma hanno poi l'una e l'altra qualche valore? E la vox principis non è anche essa la vox dei?
Vogliamo accennare di passaggio ai nazionalisti. Pretendere che i trentotto Stati germanici operino come se costituissero una nazione sola è altrettanto assurdo quanto volere che trentotto sciami d'api, guidati da trentotto regine, debbano riunirsi in un unico sciame. Api resteran tutte, ma non già quali api esse sono unite sì per esser soggette alle regine che hanno il dominio. Api e popoli non possiedono una volontà; li guida l'istinto della propria regina.
Se si tentasse di far conoscere alle api, che esse sono api, si farebbe quella medesima cosa che oggidì col pretendere di insegnare ai tedeschi il loro germanesimo. L'esser germano ha con l'esser ape questo di comune: che importa la necessità di scissioni e di separazioni senza fine, anche se non si vogliono ammettere le ultime conseguenze che trarrebbero seco con la separazione assoluta il dissolvimento stesso del germanesimo. La Germania si divide, è vero, in vari popoli e rami, vale a dire "alveari", ma il singolo, al quale solo è proprio l'esser tedesco, è altrettanto impotente quanto un'ape solitaria. Eppure i singoli soltanto hanno potere di formare una società, e tutte le alleanze e tutte le leghe dei popoli non sono per contro che unioni artificiali e meccaniche, poiché le parti che si uniscono, cioè i popoli, sono senza alcuna volontà. Soltanto con l'estrema separazione finisce la divisione ed incomincia l'associazione.
Ora i nazionalisti s'affannano a costituire l'unità astratta, senza vita, del regno delle api; ma gli individualisti lotteranno per l'unità voluta da essi — per l'associazione. E comune a tutti i desideri reazionari l'intento di costituire qualche cosa di generale e di astratto, un concetto vuoto, senza, vita, mentre gli individui mirano a liberare la forte, la vivida originalità dall' involucro di astrazione in cui è avvolta. I reazionari vorrebbero far sorgere dalla terra un popolo, una nazione; gli individualisti non guardano che a sé stessi. Nell'essenza le due aspirazioni che oggi prevalgono, cioè quella alla ricostituzione delle franchigie provinciali, delle antiche divisioni per stirpi (Franchi, Bavari, ecc.), e quella alla ricostituzione dell'unità nazionale non sono l'una dall'altra diverse. Ma i tedeschi non saranno uniti se non quando saranno riusciti a spogliarsi delle loro consuetudini di api, ed avranno rovesciati tutti gli alveari; con altre parole — quando saranno qualche cosa più che tedeschi. Soltanto allora potranno formare l'associazione dei tedeschi. Non devono tendere a rientrare nella nazionalità — nel grembo materno — per rinascere, bensì devono rientrare in sé stessi. Quanto sentimentalismo ridicolo è nell'atto con cui un tedesco stringe a un suo connazionale la mano, con un sacro brivido, perchè anche l'altro "è tedesco"! Quasi che l'esser tedesco sia proprio qualcosa di particolare! Ma questa stessa commozione prevarrà finché non riusciremo a spogliarci dei "sentimenti di famiglia". Dal pregiudizio della "pietà" e della "fraternità" (quali che siano i nomi che si vogliono dare a questi concetti sentimentali), dallo spirito della famiglia insomma, i nazionalisti che ambiscono a formare una grande famiglia tedesca non sanno liberarsi.
Del resto se i cosiddetti nazionalisti sapessero comprendere bene sé stessi, uscirebbero tosto dall'unione coi sentimentali pantedeschi. Poiché la riunione per scopi ed interessi materiali, quale è quella che essi richiedono dai tedeschi, non tende ad altro che alla libera associazione.
Carrière applaude entusiasticamente al cammino che mena ad "una vita popolare di cui non si è ancora manifestata l'eguale". Sta bene, sarà una vita non mai rivelatasi per l'innanzi appunto perchè non è da vero "una vita popolare". E Carrière contraddice a sé stesso quando aggiunge: (pag. 10): "Il vero umanesimo non può esser meglio rappresentato che da un popolo che compie la sua missione". Con ciò soltanto ci si presenta la popolarità. "La nebulosa generalità" è posta più basso che non la figura chiusa in se stessa. Appunto il popolo è quella "generalità nebulosa" e l'uomo è soltanto una "figura chiusa in se stessa".
L'astrattezza di quello che si chiama "popolo, nazione" appare evidente anche da ciò, che un popolo il quale voglia svolgere nel miglior modo le proprie forze, è costretto ad innalzare sopra di se un regnante senza volontà. Esso si trova nell'alternativa di esser soggetto al proprio principe — il quale non cercherà di attuare che quello che a lui aggrada, quale individuo — o di porre sul trono un sovrano senza volontà propria, il quale potrebbe esser sostituito benissimo da una orologeria ben congegnata. Perchè non occorre molta sagacia per comprendere che il popolo è una potenza astratta, spirituale: è la legge. L' "io" del popolo — ciò viene di conseguenze — è un fantasma, non già un "io" reale. Io non sono io, se non in quanto creo me stesso; cioè in quanto non vengo già creato da un altro, ma sono opera mia. Invece che cosa è l' "io" popolo? Il caso è l'arbitro del popolo, il caso gli concede quel tale padrone o quell'altro. Il dominatore ch'egli accetta od elegge non può dirsi il prodotto suo, a quel modo che io posso dirmi il prodotto di me stesso. Pensa un po' che alcuno volesse darti a intendere che tu non sei il tuo io, bensì Pietro o Paolo. La stessa cosa avviene pel popolo, e con ragione poiché il popolo possiede tanto poco un proprio "io" quanto lo posseggono gli astri presi tutti insieme, quantunque si muovano intorno ad un centro comune.
È significativa l'espressione di Bailly sul servilismo da cui tutti sono animati verso il popolo e verso il principe : "La mia, propria ragione non conta più nulla, quando la ragione universale s'è dichiarata. La mia prima legge fu la volontà della nazione quando la nazione si compose, io non riconobbi altro all'infuori della sua volontà sovrana". Egli rinuncia alla ragione propria eppure, nel suo concetto, è questa ragione che sa tutto.
Non diversa è l'affermazione, declamatoria del Mirabeau: "Nessuna potenza al mondo ha il diritto di dire ai rappresentanti della nazione: io voglio!"
Come già al tempo degli antichi greci, si vorrebbe anche oggi ridurre l'uomo ad un zoon politicon, ad un animale politico. Per un non diverso errore egli fu tenuto gran tempo in conto di "cittadino del cielo". Ma il cittadino politico fu consacrato insieme col suo stato, il cittadino celeste insieme col suo cielo.
Noi vogliamo perire insieme col popolo, non vogliamo essere esclusivamente uomini politici.
"La felicità del popolo" è il fine supremo della rivoluzione in poi, e mentre si mira a render felice il popolo, a farlo grande, potente, ecc. si rende in realtà infelice l'individuo, il singolo! La felicità del popolo è la "mia infelicità".
Quanto siano sciocche le chiacchiere, le frasi vuote di senso dei liberali politici, si può vedere dall'opera del Neuwerk. "Sulla partecipazione al governo dello Stato". In quel libro si biasimano gli indifferenti e gli apatici, che non sono cittadini dello Stato nel vero senso della parola, e l'autore fa intendere che non si può esser uomini degni di questo nome se non si prende viva parte alle cose dello Stato. In ciò egli è logico, poiché, ammesso che lo Stato sia tutore di tutto ciò che è "umano", noi non possiamo aver in noi nulla di umano se non prendiamo parte alle cose dello Stato.
Ma che prova cotesto contro l'egoista? Nulla poiché l'egoista considera sé stesso quale unico tutore dell'essenza umana e si contenta a dire allo Stato: Fatti in là perchè mi nascondi il sole.
Solo quando lo Stato entra in rapporti o in conflitto con la proprietà individuale, l'egoista prende un interesse diritto alle cose dello Stato. Se il dotto, solito a studiare tra le quattro pareti della sua stanza, non si sente oppresso dalle condizioni che impone ai cittadini lo Stato, dovrà egli occuparsi della cosa pubblica perchè "tale è il suo dovere"? Fino a tanto che lo Stato agisce in modo da non turbare i suoi interessi, che bisogno ha il dotto di levar gli occhi dai suoi libri? Lo facciano coloro che vogliono mutare quelle condizioni in modo più conforme ai loro bisogni. Il sacrosanto dovere non potrà mai costringere la gente a riflettere sulle condizioni dello Stato, come non la può costringere a dedicarsi alle scienze, o alle arti.
L'egoismo soltanto può spingerli a far ciò, e lo farà, non appena le condizioni accennino a peggiorare. Se dimostrerete agli uomini che l'utile loro richiede ch'essi si occupino delle condizioni dello Stato, voi non avrete bisogno di stimolarli per molto tempo; ma se fate appello al loro amor di patria, ecc., voi dovrete predicare lungamente e invano a sordi che non vogliono udire. Certamente dunque nel senso che voi desiderate gli egoisti non parteciperanno mai alle cose dello Stato.
Una frase schiettamente liberale la troviamo nel Neuwerk a pag. 16: "L'uomo adempie interamente alla sua vocazione solo quando ha coscienza d'esser parte dell' umanità, e come tale spiega l'attività sua. Il singolo non può attuare l'idea dell'umanesimo senza richiamarsi alla umanità tutta intera, e trarre da essa la forza, come Anteo dalla terra".
Alla stessa pagina si legge: "I rapporti dell' uomo colla res publica sono dalla teologia abbassati al grado d'una faccenda privata e per ciò disconosciuti ". Come se l'opinione politica agisse diversamente verso la religione! Per essa la religione non diventa forse una questione privata?
Se invece di parlar alla gente di "sacri doveri", di "destinazione dell'uomo", di "vocazione a svolgere interamente l'umana essenza" le si facesse capire che essa risente un danno col lasciar che le cose dello Stato vadan così come vanno, si raggiungerebbe lo scopo desiderato senza tanto sciupìo di vuote frasi, A questo si deve venire quando il momento è decisivo. Invece l'avversatore dei teologhi scrive: "Se mai ci fu un tempo in cui lo stato deve far appello a tutti i suoi, si è il nostro. L'uomo pensatore scorge nella partecipazione teorica e pratica alla cosa pubblica un dovere uno dei più sacri doveri che gli incombano" e prende poi a considerare più da presso la "necessità incondizionata che ciascuno abbia parte alle faccende dello Stato".
Politico è e sarà eternamente colui che porta lo Stato nel cervello o nel cuore, l'ossesso dello Stato, il credente nello Stato.
Lo Stato — si dice — è il mezzo più "necessario per il perfezionamento dell' umanità". Certo esso fu tale sino a tanto che la perfezione da noi ricercata rimase quella della società, ma se della nostra invece, della nostra unicamente, ci curiamo, lo Stato non potrà esserci che d'ostacolo. Si può anche ora riformare e migliorare lo Stato ed il popolo? Tanto poco quanto si può migliorare la nobiltà, il clero, la Chiesa, ecc. Possiamo eliminarli, distruggerli, abolirli, non mai riformarli Posso io forse mercé le riforme render sensata una cosa che non sia tale? Meglio dunque distruggerla senz'altro.
Si tratta quind'innanzi non più dello Stato (della sua costituzione, ecc.) bensì di me stesso.
Con ciò svaniscono tutte le questioni intorno ai poteri del principe, alla costituzione, e ad altre cose si fatte. Esse dileguano nel nulla. Io, che rappresento questo nulla, farò uscire da me quelle che sono le mie creazioni.

* * *

Al capitolo della società si ricollega anche l'argomento del "partito" che di recente fu esaltato.
Nello Stato ha solo valore il partito. Ma il singolo è l'unico, e come tale non appartiene ad alcun partito. Egli si associa liberamente, e volontariamente esce dall'associazione. Il partito non è altro che uno Stato nello Stato, nel quale si esige che regni la "concordia" come nell'altro.
Tant'è che appunto coloro i quali gridano più forte che nello Stato debba esistere un'opposizione combattono ogni discordia nel partito. Ciò prova come anche essi non vogliono che uno Stato solo. Soltanto il concetto del singolo può distruggere tutti i partiti.
Nessuna ammonizione suona oggi più frequente di questa: che conviene restar fedeli al proprio partito. Nessuno più del rinnegato è oggetto di disprezzo per parte degli uomini di partito. Bisogna seguire in tutti i modi il proprio partito e riconoscere e propagare incondizionatamente le sue idee fondamentali. Nel partito si sta ad ogni modo meglio che nelle società chiuse, perchè in queste i singoli sono vincolati da determinate leggi, dagli statuti, ecc. (p. es. gli ordini religiosi, la Compagnia di Gesù). Ma il partito cessa d'essere una libera associazione nel momento in cui rende obbligatori certi principî e tende ad assicurarli contro gli assalti di terzi; e pure quel momento è appunto l'atto suo di nascita. Come tale esso è già un'associazione morta, una idea divenuta fissa. Il partito dell'assolutismo non può tollerare, ad esempio, che i suoi membri dubitino della verità inconfutabile di quel principio; potrebbero dubitarne se fossero tanto egoisti da voler essere qualche cosa anche fuori del proprio partito, vale a dire "imparziali". E "imparziali" non possono essere quali uomini di parte, bensì solamente quali egoisti. Se tu sei protestante ed appartieni a questa setta, tu non puoi che giustificare, e tutt'al più riformare il protestantismo, ma non già ripudiarlo; se tu sei cristiano non ti è possibile abbandonare o respingere i principi del Cristianesimo, se non allora quando il tuo interesse proprio ti faccia giudice imparziale della dottrina comune. Quanti sforzi non hanno fatto i cristiani venendo giù sino all'Hegel ed ai comunisti, per render forte il loro partito? E oggi ancora essi persistono ad affermare che il Cristianesimo contiene la verità eterna, e che tutto sta nel sapervela trovare, determinare e giustificare.
In breve, il partito non ammette imparzialità. Ma che importa a me del partito! Troverò all'infuori di esso molti che si uniranno a me, senza obbligarmi a giurare in una comune fede.
Chi passa da un partito all'altro vien chiamato "apostata". Certamente la morale esige che si resti fedeli alla propria parte: abbandonarla per un'altra significa macchiarsi d'infedeltà; ma l'individualità non conosce obblighi di fedeltà; essa ammette tutto, anche l'apostasia. Senza avvedersene, gli stessi moralisti si lasciano guidare da questo principio quando si tratta di giudicare alcuno che possa nel loro partito, e cercare anche di far proseliti; ma essi dovrebbero avvertire in pari tempo con cosciente chiarezza che è necessario operare immoralmente, affermare di fronte alla collettività la propria natura, vale a dire, in questo caso concreto, che è necessario rompere la giurata fedeltà per affermar sé stessi anziché lasciarsi determinare da considerazioni morali. Agli occhi delle persone strettamente morali un apostata è sempre una natura equivoca, indegna della lor fiducia, poiché porta impresso il marchio incancellabile dell'infedeltà, cioè d'una immoralità. Presso il popolo quest'opinione è pressoché generale; i più illuminati, anche in questo caso come in tanti altri, divengono preda della incertezza e della confusione, e il contrasto, necessariamente fondato sul principio della moralità, per la confusione dei concetti non riesce a manifestarsi chiaramente nella loro coscienza. Chiamare senz'altro immorale l'apostata non osano, poiché essi stessi cercano d'indurre altri all'apostasia, al passaggio cioè alla lor religione, e d'altra parte non hanno il coraggio di sacrificare il concetto convenzionale della moralità. Eppure dovrebbero afferrare quest'occasione per uscir dal campo della morale comune; forse che i singoli formano un partito? Come potrebbero a questo patto essere singoli ed unici?
Dunque dovremmo tenerci lontani da ogni partito? Certo, poi che questo non mi può giovare se non fino a tanto ch'io proseguo interessi ad esso comuni. Se l'utile mio sia col suo in contrasto, m'è forza divenirgli infedele. Il partito non ha dunque nulla d'obbligatorio per me e non può pretendere al mio rispetto; anzi se non fa più per me, io lo avverserò.
In ogni partito che voglia esser duraturo, i singoli sono dipendenti e schiavi; l'individualità loro di tanto è sacrificata di quanto s'accrescono le esigenze dell'associazione. L'indipendenza del partito ha per condizione la dipendenza dei singoli.
Un partito, quale che esso sia, ha bisogno d'una professione di fede. Poiché nel principio del partito si ha obbligo di credere, quel principio non può esser per chi v'appartiene argomento di dubbio, ma deve per ciascuno rappresentare ciò che v'ha di più certo. Ciò significa che bisogna darsi al partito corpo ed anima, altrimenti non si è veramente uomo di parte, ma un egoista, in un maggiore o in un minor grado.
Se tu metti in dubbio un dogma cristiano, tu già non sei più un vero cristiano, poiché sei stato tanto "insolente" da voler prender in esame quel dogma e da giudicarlo dinanzi al tribunale del tuo egoismo.
Tu hai peccato contro il Cristianesimo. Ma fortunato te se non ti lasci impaurire: la tua insolenza ti aiuta a conquistare la tua individualità.

* * *
Sicché un egoista non dovrebbe mai appartenere ad alcun partito? Si; ma egli non deve lasciarsene legare. Il partito dev'esser per lui semplicemente un mezzo del quale si serve finché gli giova.
Il miglior Stato sarà evidentemente quello che possiede i cittadini più ligi; quanto più va perdendosi il sentimento di soggezione alla legalità, tanto più lo Stato, questo sistema fondato sulla morale, sarà diminuito nell'esser suo. Insieme coi "buoni cittadini" anche lo Stato perisce e si dissolve nell'anarchia. Il rispetto alla legge è il cemento che tiene unita la compagine dello Stato. La legge è sacra e chi le contravviene è un malfattore. Senza delitti non c'è Stato: il mondo morale — e tale è lo Stato — pullula di furfanti, d'imbroglioni, di ladri ecc. E siccome lo Stato rappresenta il "dominio della legge", così l'egoista in tutti i casi nei quali il suo interesse sarà diverso da quello dello stato non potrà soddisfarlo che col delitto.
Lo Stato non può rinunziare al principio che le sue leggi e le sue istituzioni devono esser tenute in conto di sacre. Perciò il singolo viene da esso considerato quale cosa non sacra (barbaro? uomo di natura egoista), come in altri tempi fu considerato dalla Chiesa. Così per esempio, si decreta una legge contro il duello. Due persone che si sono accordate tra loro di voler esporre la propria vita per una causa, quantunque essa sia, non devono poterlo fare, perchè lo Stato non lo permette, anzi colpisce con una pena i contravventori. Qual conto è fatto della libertà di disporre della propria vita? Le cose stanno diversamente, quando, come avviene nell'America del Nord, la società ha convenuto di far provare ai duellanti talune dannose conseguenze della loro azione, negando loro, ad esempio, la stima di cui avevano goduto sino allora. Negare la stima è un diritto di ciascuno, e se una società ciò fa verso una determinata persona, questa non può lagnarsi che la sua libertà personale sia stata in alcun modo menomata.
La società fa valere il suo diritto e niente di più. Questa non è una pena, non è un'espiazione per un "delitto". Il duello in tal caso non è un crimine ma semplicemente un atto contro il quale la società prende certe misure repressive. Invece lo Stato colpisce il duello col marchio del delitto, cioè di una violazione delle sue sacre leggi: ne fa un caso criminale. Se la società americana lascia al libero arbitrio di ciascuno il sopportare le conseguenze dannose derivanti dal suo modo di agire, riconoscendo con ciò la libertà delle sue risoluzioni, lo Stato fa precisamente l'opposto, poiché nega al singolo ogni diritto di liberamente determinarsi, e attribuisce tale diritto unicamente a sé stesso, sicché chiunque contravvenga alle leggi sue è tenuto nello stesso conto di chi contravvenga ai precetti divini; opinione che fu tenuta un dì anche dalla Chiesa. Dio è il santo per sé stesso, e i comandamenti della Chiesa e dello Stato sono ordini di quel santo che li trasmette al mondo col mezzo dei suoi sacerdoti e dei suoi principi per grazia di Dio. Se la
Chiesa aveva i peccati mortali, lo Stato ha i suoi delitti capitali; se quella aveva gli eretici, lo Stato ha i rei d'alto tradimento; se quella ha le pene della Chiesa, questo ha le pene criminali; se quella i processi inquisitoriali questo i processi fiscali; in breve quella ha i peccatori e questo i malfattori, e l'inquisizione è da una parte come dall'altra. La santità dello Stato non cadrà essa al pari di quella della Chiesa? Il terrore delle sue leggi, la venerazione della sua sovranità, l'umiltà dei suoi "soggetti" dovranno prevalere in eterno? Il viso del santo non verrà mai deturpato?
Quale stoltezza il pretendere che la forza dello Stato sostenga una lotta leale contro ogni singolo, distribuendo — come si domanda per la libertà di stampa — equamente il sole e il vento. Se lo Stato, questa idea, deve essere una forza che si fa valere, è necessario che tal forza sia superiore a quella del singolo. Lo Stato è sacro e non può esporsi agli "impudenti assalti" dei singoli. Se lo Stato è sacro, la censura è necessaria. I liberali ammettono la prima parte di quest'assioma e negano la seconda. Ma in tutti i casi attribuiscono allo Stato il diritto di misure repressive poiché convengono anch'essi che lo Stato è da più del singolo individuo e che a ragione per ciò esso esercita la sua vendetta, cui dan nome di punizione.
La punizione non ha un significato se non quando deve servire d'espiazione per la violazione di qualche cosa sacra. Se alcuno ha per sacra una cosa, giusto è che egli sia punito allorquando la profana. Uomo religioso è appunto colui che rispetta la vita umana perchè essa gli è sacra.
Weitling imputa ai delitti la colpa del "disordine sociale" e spera che con le istituzioni comunistiche essi saranno tolti di mezzo perchè mancherà la tentazione a commetterli: il denaro, tra altro. Ma poiché anche la sua società organizzata è sacrosanta e inviolabile, egli sbaglia nel conto, non ostante tutta la sua buona volontà. Non farebbero certamente difetto coloro che professandosi con le labbra per zelatori dalla società comunistica, lavorassero di sottomano alla rovina di essa. Malgrado tutto Weitling deve limitarsi ai "rimedi" contro il resto delle malattie e debolezze naturali e la parola "rimedi" rivela sempre che egli considera i singoli come chiamati ad una determinata salute, e che fa conto di trattarli in conformità di tale "vocazione umana". Il "rimedio" non è che il rovescio della medaglia: la teoria dei rimedi salutari corre parallelamente a quella delle pene; se questa intravede in un atto un peccato contro la legge, quella vi scorge un peccato dell'uomo contro se stesso e per ciò quasi un principio di malattia. Ma la verità è che io considero una cosa nel rispetto che meglio mi è a grado come una mia proprietà che io posso conservare o spezzare a mio piacere. Tanto il "delitto" quanto la "malattia" non sono concetti egoistici d'una cosa, sono giudizi che procedono non da me ma da altra persona. Se non che, col "delitto" si è inesorabili, con la "malattia" si abbonda invece di pietà e di compatimento.
Al delitto tiene dietro il castigo. Se il delitto, col dileguarsi del concetto del "sacro", scomparisce, è giusto che scompaia anche la punizione; poiché anche essa non ha valore che in quanto ha rapporto con la cosa "sacra". Si sono abolite le punizioni ecclesiastiche. Perchè?
Perché ognuno è padrone di condursi come meglio crede verso il buon Dio. Ma allo stesso modo che sono scomparse quelle punizioni della chiesa devono pur sparire tutte le punizioni. Allo stesso modo che il peccato contro Dio è faccenda privata d'ogni singolo, cosi faccende private devono essere tutte le altre contravvenzioni contro le cose "sacre". Secondo le nostre teorie di diritto criminale, che invano ci arrovelliamo a riformare a norma delle "esigenze moderne", si vorrebbero punire gli uomini per questa o per quella "inumanità" commessa, e si rende invece più manifesta la puerile illogicità di tali sforzi coll'impiccare i ladri piccoli e lasciar correre i grandi. Per le violazioni della proprietà si hanno le case di pena, e per la "costrizione del pensiero", — per l'oppressione dei "diritti naturali umani" non si hanno che gli argomenti logici e le preghiere.
Il codice penale non sussiste che in virtù del concetto religioso, e si dissolve da sé, con l'abolizione delle pene. Da per tutto si vuol creare un nuovo Codice penale, senza tuttavia riguardi circa le pene da infliggere. Ora ciò che appunto importa è che la pena ceda il posto alla soddisfazione non già della legge e della giustizia ma di noi stessi. Se alcuno farà a noi cosa che non tolleriamo ci sia fatta, noi spezzeremo la sua forza, e faremo valere la nostra: noi soddisfaremo su di lui noi stessi e non commetteremo la sciocchezza di voler soddisfare la legge (un fantasma). Non è già il "sacro" che debba difendersi dell'uomo, bensì l'uomo dall'uomo. Cosi ora Dio più non si difende dall' uomo, mentre in altri tempi e in qualche parte anche oggi, tutti "i servi di Dio si univano a punire il sacrilegio", proprio come ai di nostri si collegano per punire chi viola una cosa "sacra". Tale devozione alla cosa sacra fa si che senza farci un giudizio proprio, noi diamo i delinquenti in mano alla polizia ed ai tribunali: e poniamo un'apatica fiducia nell'autorità, che sola è in condizione di tutelare ciò ch'è "sacro". Il popolo poi ha un cotal pazzo uso di chiamare in aiuto la polizia a proposito d'ogni cosa che gli sembri immorale, o anche semplicemente indecente, e questa mania protegge la polizia meglio che non la potrebbe proteggere qualsiasi governo.
Sin qui l'egoista si è affermato col delitto, ridendosi di tutto ciò che è tenuto sacro. Perchè non lo dovremo tutti imitare? Se oggi una rivoluzione non è più possibile, potremo aver di meglio.
Un delitto collettivo, oltrepossente, impetuoso, irrefrenato, si annuncia col rumore d'un tuono lontano. Non vedi tu come il cielo si fa cupo per un presagio silenzio?
Colui che si rifiuta di odoperarsi a vantaggio di società così ristrette come la famiglia, il partito, la nazione, desidera nondimeno sempre una società più degna e più vasta, e crede di aver trovato nella "società umana" o nell' "umanità" il vero oggetto del suo amore, e considera come un onore il sacrificarsi ad essa; da quel momento egli non vive che per l'umanità.
Popolo si chiama il corpo, Stato lo spirito di quella persona dominante che per tanti anni m'ha oppresso. Si cercò gran tempo di trasfigurare i popoli e gli Stati con l'innalzarsi al grado di "umanità" e col nobilitarli nel nome della "ragione universale". Ma in forza di quest'esaltazione la schiavitù divenne ancor più trista, e i filantropi e gli umanisti si chiarirono padroni assoluti al pari dei politici e dei diplomatici.
Alcuni critici moderni gridano contro la religione, perché essa pone — dicono — Dio, la divinità, la moralità ecc., fuori dell'uomo, mentre essi li vorrebbero riporre nell'uomo. Ma essi pure ricadono nel vero errore della religione, di voler cioè imporre una destinazione all'uomo, poiché anch'essi esigono dall'uomo che sia divino, umano, ecc., pretendono che la moralità, la libertà, la umanità ecc. formino la sua essenza. E come già la religione, cosi ora anche la politica vuole "educare" l'uomo, guidarlo verso la attuazione del suo vero "essere", dei suoi "destini", fare insomma di lui un "vero uomo": se non più nella forma "d'un vero credente", in quella almeno del "buon cittadino o del buon suddito". La cosa non muta: il divino e l'umano devono essere la destinazione dell'uomo.
Per virtù della religione e della politica l'uomo si trova sempre sul punto del dover fare e del dover essere. Con questo postulato egli si presenta non soltanto innanzi al suo prossimo, ma pure innanzi a se stesso. I critici poc’anzi accennati dicono: Tu devi essere un uomo, genuino, un uomo libero. E così essi pure stanno per cedere alla tentazione di proclamare una nuova religione, un nuovo assoluto, un nuovo ideale: la libertà. Gli uomini devono esser liberi. In tal caso vedremo sorgere i missionari della libertà allo stesso modo Cristianesimo — mosso dalla persuasione che tutti non avessero altra destinazione da quella in fuori di diventar cristiani — sorsero i missionari della fede. E così la libertà si costituirebbe, come finora la fede, in "comunità", e ordinerebbe una propaganda consimile. E ben vero che non si può sollevare alcuna obbiezione contro un'unione per fini comuni. Ma bisogna opporsi con tutte le forze all'intendimento, al principio di voler fare degli uomini qualche cosa; cristiani o maomettani, sudditi o liberi cittadini.
Si può affermare bensì con Feuerbach e con altri che la religione abbia strappato all'uomo ciò che è umano, per collocarlo a una grande distanza da lui, in un di là, dove l'inaccessibile poté condurre un'esistenza propria, personale, sotto il nome di Dio; ma con ciò l'errore della religione non è ancora finito. Mutate Dio nel "divino" e la religione continuerà ancora. Poiché il concetto religioso muove dal fastidio che si prova per l' "uomo" qual'egli è; e così dal desiderio di contrapporgli una "perfezione" da raggiungere, prestando alla fantasia l'immagine di un "uomo che lotta per la sua perfezione". (Epperciò voi dovete esser perfetti, come il vostro padre nei cieli, Matt., V. 481). Esso consiste insomma nel foggiare un ideale, una cosa assoluta. La perfezione è il "supremo bene", il finis bonorum; l'ideale di tutti è l'uomo perfetto, il vero uomo, l'uomo libero, ecc.
Le aspirazioni dell'età moderna tendono a comporre l'ideale dell' "uomo libero". Se si potesse trovarlo — ne risulterebbe una nuova religione, poiché un nuovo ideale darebbe vita a nuovi desideri, a nuovi affanni, a nuove devozioni, a nuove divinità, a nuove costrizioni.
L'ideale della "libertà assoluta" ci trae in inganno come ogni assoluto. Secondo l'Hess quella libertà deve attuarsi nella società umana assoluta; poco dopo essa è chiamata destinazione; in fine viene trasformata in moralità: bisogna iniziare il regno della giustizia (eguaglianza) e della moralità (libertà) ecc.
Certo è ridicolo colui che mena vanto delle lodi ottenute dalla sua stirpe, dalla sua nazione, dalla sua famiglia; ma non è forse accecato del pari colui che pretende di attuare in sé "l'uomo"?
Poiché né l'uno né l'altro ripongono il lor valore nella propria individualità, sì invece nella comunanza o nel vincolo che li lega agli altri: nei vincoli famigliari, nazionali, umani. In grazia degli odierni nazionalisti è risorto il litigio tra coloro che si vantano del lor sangue puramente umano e de' lor legami puramente umani e gli altri che si gloriano della lor stirpe speciale e dei lor portentosi legami.
Concediamo pure all'orgoglio il nome di coscienza nazionale; esiste nondimeno un immenso divario fra l'orgoglio di appartenere ad una nazione e quello di possedere una propria nazionalità. La nazionalità è il mio possesso, ma la nazione è quella che mi possiede, è la mia padrona. Se tu disponi di muscoli robusti, tu potrai far valere all'occasione la tua forza ed andarne orgoglioso; ma se invece il tuo corpo robusto possiede te, quella forza si manifesterà anche nei momenti più inopportuni, e tu non potrai, per un esempio, stringer la mano ad alcuno senza fargli male.
La coscienza d'esser da più che un semplice membro della famiglia, della stirpe, della nazione, ci ha condotto finalmente a dire: siamo da più di tutto ciò, perchè siamo uomini, oppure: l'esser uomo vale più che non l'esser ebreo, tedesco, ecc. Ciascuno dunque sia solamente e veramente uomo! Non si poteva dire piuttosto: Se l'essere nostro significa qualche cosa che oltrepassa i nomi che gli usan dare, noi vogliamo essere da più che uomini per la stessa ragione per cui voi volete essere da più che tedeschi od ebrei? I nazionali hanno ragione; non si può rinunziare alla propria nazionalità; e gli umanisti hanno ragione del pari: bisogna emanciparsi dagli angusti concetti dei nazionalisti. Nella individualità il contrasto si risolve. La nazionalità è una mia proprietà. Ma la nazionalità non comprende tutto il mio essere. Cosi anche l'umanità è una mia proprietà, ma soltanto l'individualità mia può far di me un uomo.
La storia va in cerca dell'uomo: ma l'uomo sono io, sei tu, siamo noi. Dopo averlo cercato quale un essere misterioso — quale un essere divino, quale un Dio, poi quale uomo — io lo trovo al fine quale singolo finito — quale unico.
Io sono il possessore dell'umanità, io sono l'umanità e nulla faccio pel benessere d'un'altra umanità. Quanto sei stolto, tu, che essendo per te stesso un'umanità unica, ti affanni a vivere per un'umanità diversa dalla tua!
I rapporti, sin qui considerati, che corrono tra me e il mondo degli uomini, presentano una tale ricchezza di fatti da non potersene trattare che di proposito e a parte; ma qui devo
interrompermi per discorrerne sotto due altri aspetti. Con gli uomini io non ho rapporto soltanto in quanto rappresentano in sé il concetto "uomo" e in quanto sono figli dell'uomo (dico figli dell'uomo, nel senso stesso in cui si parla dei figli di Dio), ma anche per ciò che essi posseggono di proprio quali uomini. Dunque bisognerà far entrare nel campo della nostra discussione, oltre al mondo degli uomini, anche il mondo dei sensi e delle idee, e dir qualche cosa a proposito dei beni, sì materiali si spirituali di proprietà umana.
Man mano che si svolse il concetto dell'uomo e che gli si poté dare una forma concreta, lo si fece conoscere a noi quale un ente che esige rispetto per molte ragioni; e dalla più lata compressione di questo pensiero uscì finalmente il precetto: "rispetto l'uomo in ciascuno". Ma se io rispetto l'uomo, il mio rispetto deve estendersi a ciò che è umano e a ciò che è pertinente all'uomo.

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