mercoledì 21 agosto 2013

I MIEI RAPPORTI [ terzo frammento ]

'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''

PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ terzo frammento ]




Gli uomini hanno tutti alcunché di proprio; questo solo è sacro. Questa proprietà di ciascun uomo può consistere in beni esterni ed in beni interni. — Quelli sono rappresentati da cose, questi da idealità, pensieri, convinzioni, sentimenti nobili, ecc. Ma io sono tenuto soltanto a rispettare la proprietà di diritto dell'uomo non quella che è contro il diritto e non umana. Bene interno di tal specie è, ad esempio, la religione; e siccome la religione è libera — dunque di spettanza dell'uomo — io non devo toccarla. La stessa cosa è dell'onore. Religione ed onore sono "proprietà spirituali". Nel novero delle cose sta sovra tutta la persona: la persona è la mia prima proprietà, la proprietà per eccellenza. Dunque libertà della persona; ma soltanto la persona secondo il diritto. La tua vita è tua proprietà: ma essa è sacra agli uomini solo sino a tanto che non è una vita inumana.
Quei beni corporali sui quali l'uomo come tale non può accampare un diritto, ci è lecito di rapirglieli: in ciò sta il significato della concorrenza nella libertà industriale. E del pari, quei beni spirituali che l'uomo non sa rivendicar come propri possono divenire nostra preda: in ciò consiste la libertà della critica, della discussione, della scienza.
Ma sono intangibili — si afferma — i beni che furono proclamati sacri. Consacrati, da chi? In primo luogo dallo Stato (dalla società) poi dall'uomo, o — a meglio dire — dall'idea, poiché il concetto dei beni sacri importa che essi siano veramente umani che l'uomo li possegga nella sua qualità d'uomo, come tale.
Beni spirituali sono pure la fede dell'uomo, il suo onore, il suo senso morale, il senso della decenza, del pudore, ecc. Gli atti che offendono l'onore (con discorsi e con scritti) sono punibili; punibili gli assalti contro i principi d'ogni religione, contro la fede politica, in breve contro tutto ciò che un uomo possiede a "buon diritto".
Sull'estensione che debba darsi al concetto della santità di quei beni il liberalismo critico non si è finora dichiarato; fors'anche crede falsamente d'esser contrario a tale santità. Ma siccome esso combatte l'egoismo, così è costretto a moltiplicare gli ostacoli, e non può tollerare che ciò che è anti-umano prevalga a ciò che è umano. Al suo disprezzo teoretico della "massa" dovrebbe corrispondere, quando fosse giunto a conquistare la forza, una pratica sanzione Sulla estensione che debba assegnarsi al concetto "uomo" — si da determinare con certezza che cosa sia di spettanza dell'uomo e che dunque sia veramente l'uomo o l'umano — non v'è accordo tra le varie scuole de' liberali: l'uomo politico, il sociale, l'umano vanno acquistando sempre più cose, uno a danno dell'altro, e tutto in favore d'un'astrazione. Chi ha compreso meglio quel concetto, sa anche meglio che cosa spetti "all'uomo". Lo stato lo intende ancora sotto il solo aspetto politico, la società sotto quello sociale, l'umanità (per quel che si afferma) lo comprende invece interamente. Ma, trovato che sia con esattezza l' "uomo", noi sapremo in che consista ciò gli è proprio, quali cose gli appartengano, e che sia in somma l'umano.
Ma accampi pure l'uomo quanti diritti egli voglia: che importa a me delle sue pretese? Se il suo diritto procede dagli uomini soltanto, ma non da me, esso non ha per me alcun valore. La sua vita, per esempio, non ha valore ai miei occhi che quel tanto che vale per me. Io non riconosco né il suo cosiddetto diritto di proprietà, né il suo diritto su cose determinate, e neppure quello ch'ei crede d'avere sul suo santuario interiore, né la pretesa che i suoi beni spirituali, le sue divinità, debbano esser rispettate dagli altri. I suoi beni materiali o spirituali appartengono a me, ed io ne uso secondo il mio vantaggio e per quanto il mio potere me lo consente.
La questione della proprietà racchiude in sé un significato più largo di quanto a primo tratto non appaia. Se la si riferisce unicamente a ciò che si chiama il nostro possesso, non è possibile risolverla con esattezza; deciderla non può che colui dal quale noi deriva tutto ripetere: il proprietario.
La rivoluzione ruppe la guerra contro tutto ciò che derivava dalla "grazia celeste", e al luogo della legge divina pose la umana. A ciò che viene "conferito da Dio" venne cosi contrapposto ciò che deriva a dall'essenza dell' uomo ".
E a quel modo che i rapporti tra gli uomini dovettero (per contrasto al dogma religioso : "amatevi l'un l'altro per amor di Dio") ricevere una sanzione umana dalla massima: "amatevi per amore dell'uomo", cosi la dottrina rivoluzionaria non seppe e non poté far altro, in quanto riguarda i rapporti degli uomini con le cose, se non stabilire che il mondo, sino allora retto da ordinamenti divini, dovesse appartenere quind'innanzi all'uomo.
Il mondo appartiene all'uomo, ed io devo rispettarlo quale sua proprietà.
Ma che è la proprietà, se non quello che ciascuno ha per se?
La proprietà, secondo il significato borghese, importa una cosa sacra che ciascuno deve rispettare in ciascuno, "Rispetto alla proprietà"! Ben per questo i politici vedrebbero volentieri che ognuno avesse la sua piccola particella di proprietà, e in omaggio a questa tendenza son pervenuti a sminuzzare ogni cosa. Ciascuno deve avere il suo osso da rosicchiare.
Ma le cose stanno ben altrimenti secondo il senso egoistico. Dinanzi alla tua ed alla vostra proprietà io non m'arretro tremante; sono pronto anzi a farla mia, s'io posso. Fate voi altrettanto riguardo alla proprietà mia.
In quest'ordine d'idee ci sarà più facile l'intenderci.
I liberali politici si danno faccenda per abolire tutte le servitù, affinché ogni uomo sia libero padrone sul suo terreno, quand'anche questo terreno fosse tanto ristretto quanto bastano gli escrementi d'un singolo ad alimentare. (È nota la storia di quel contadino che in tarda età si rammogliò per profittare delle feci della moglie a vantaggio del proprio terreno). Sia pur piccola quanto si voglia, purché sia proprietà di chi lo coltiva, e vale dire una proprietà rispettata, sacra!
E più crescerà il numero di tali piccoli proprietari, più grande diverrà quello da "gente libera dei buoni patrioti" su cui può contare lo Stato.
Il liberalismo politico, come tutto ciò che è religioso, fa assegnamènto sul rispetto, sulla umanità, sulla carità. Per questo esso è malinconico in eterno. Poiché nella pratica la gente non rispetta cosa alcuna, e non v'ha giorno che i piccoli possessi non vengano ingoiati dai grandi proprietari, sicché gli uomini liberi si trasformano in altrettanti operai asserviti.
Se invece i "piccoli" proprietari avessero considerato che anche la grande proprietà appartiene a loro, essi non ne avrebbero esclusi se stessi, e non ne sarebbero rimasti esclusi.
La proprietà com'è intesa dai liberali borghesi merita gli attacchi dei comunisti e di Proudhon, è insostenibile, poiché in fondo il proprietario borghese non è altro che un "senza possesso" un escluso da ogni cosa. Invece di avere il mondo in sua proprietà ei non possiede nemmeno il piccolo tratto di terreno sul quale passeggia.
Proudhon non vuole il "propriétaire" bensì il "possesseur" ovvero "usufruitier" (Que cest que la propriété? p. 83). Che cosa significa ciò? Egli vuole che nessuno possa appropriarsi il suolo, né altro averne che l' uso; ma per quanto piccola sia la parte dei frutti ch'ei concede a ciascuno, costui non ne sarà per ciò meno il proprietario. Chi non fruisce che del reddito d'un terreno, non è certo il proprietario del suolo; meno o lo sarà ancora chi, come esige Proudhon, dovrà cedere agli altri quella parte di utile che sorpassa i suoi bisogni; ciò nondimeno egli sarà però sempre il proprietario della parte di frutti che gli rimane, Sicché Proudhon nega tale e tale altra proprietà, ma non già la proprietà. Se noi vogliamo togliere al proprietario il suo podere, noi ci uniremo a questo scopo, formeremo una associazione, una "société" che se ne renderà proprietaria; se il colpo ci riesce, il nostro intento sarà ottenuto. E come cacciamo dal lor terreno i proprietari, così noi possiamo cacciarli da molte altre proprietà e ridurre queste in proprietà nostra, proprietà dei conquistatori. I conquistatori formano una società che si può immaginare tanto vasta da abbracciare l'umanità tutta intera; ma anche la cosiddetta umanità, come tale, non è che un'idea, un fantasma. La realtà è nei singoli di cui quella si compone. E questi singoli riuniti non si comporteranno meno arbitrariamente nella questione del terreno di quel che si comporta ciascuno separatamente. Anche così dunque continua a sussistere la proprietà, né cessa di essere esclusiva poiché l'umanità esclude il singolo dalla sua proprietà (limitandosi tutt'al più ad affittargliene una parte, a dargliela in feudo), così come ne esclude tutto ciò che non sia umanità, p. es. non permettendo che il mondo degli animali possegga alcunché di proprio. E così sarà sempre. Quella cosa a cui tutti vorranno partecipare sarà sottratta a chi vorrebbe averla per lui solo, diverrà proprietà comune.
Alla proprietà comune ha diritto ciascuno per una parte e questa parte costituisce la sua proprietà. Così anche nelle nostre presenti condizioni una casa che appartiene a cinque eredi, è loro proprietà comune; ma la quinta parte del reddito è proprietà d'ogni singolo erede. Proudhon poteva risparmiarci la sua retorica quando disse: Vi sono alcune cose che appartengono solamente a pochi ed alle quali non vogliamo dare la caccia. Prendiamocele, poiché col prendere si acquista proprietà, e quella che ora ci è negata gli attuali proprietari se la sono presa un tempo da loro stessi. Potremo meglio sfruttarla quando sarà in nostre mani, nelle mani di noi tutti che noi allora quando pochi soltanto avevano facoltà di disporne. Associamoci pertanto allo scopo di questo furto (vol). — Ma per giunta egli ci vuole far credere, che la società sia stata la proprietaria in origine e la sola legittima, e che verso di lei il proprietario si sia reso colpevole di furto (la propriété c'est le vol.); sicché sia lecito concludere che se essa toglie al proprietario dell'oggi ciò ch'egli possiede non lo deruba, poiché fa soltanto valere i suoi diritti imprescrittibili.
A tanto si viene in virtù del fantasma d'una società, considerata come persona morale. Ma è vero invece l'opposto: all'uomo appartiene tutto ciò di cui egli sa insignorirsi: a me appartiene il mondo. Enunciate voi forse altra cosa coll'assioma contrario: "il mondo appartiene a tutti"? I tutti si compongono di tanti "io"; ma voi create con la parola "tutti" un fantasma che proclamate sacro, di modo che il "tutti" di viene un tiranno più terribile del singolo. Ed ecco che gli si colloca tosto a lato l'altro fantasma del "diritto".
Proudhon al pari di tutti i comunisti combatte l'egoismo. Perciò le sue teoriche sono conseguenze e continuazione del principio cristiano, del principio dell'amore, del sacrificio, della rinunzia in pro-dell'universalità. Esse svolgono dal concetto di proprietà ciò che da gran tempo già vi è compreso, vale a dire l'espropriazione del singolo. Se nella legge sta scritto: Ad reges potestas omnium pertinet, ad singulos proprietas; omnia rex imperio possident, singuli dominio, ciò significa: Il re è il proprietario poiché egli soltanto può disporre a suo talento di ogni cosa, egli ha la potestas e l'imperium su ogni cosa. I comunisti resero più chiaro questo assioma col conferire tale imperium alla "società di tutti". Dunque, poiché si proclamano nemici dell'egoismo, essi sono "cristiani", o, per parlare in tesi più generale, sono uomini religiosi, superstiziosi, che credono ai fantasmi, dipendenti e servi d'una qualche astrazione (d'una divinità, della società, ecc. E il Proudhon conviene coi cristiani anche in ciò egli attribuisce a Dio quello che nega spettare agli uomini. Egli lo chiama p. es. (pag. 90) il propriétaire della terra, col che ben dimostra che egli non può passarsi del proprietario come tale. Per tal modo con le sue teoriche il Proudhon finisce ad ammettere un proprietario: se non che lo relega in un di là.
La verità è invece questa : che proprietari non sono né Dio, né l'uomo (cioè la "società umana"), ma è il singolo soltanto.
Proudhon (come Weitling) crede di lanciar l'anatèma contro la proprietà, proclamandola un furto (vol). Lasciamo la questione difficile delle obiezioni che si possono sollevare contro il furto, e domandiamoci: E’ mai possibile il concetto del "furto"se non si lascia sussistere quello della a proprietà"? Ciò che non appartiene a nessuno non può esser rubato; l'acqua che caviamo dal mare non è rubata. Per conseguenza, la proprietà non è furto: bensì è essa che rende possibile il furto. Anche Weitling è costretto a giungere a questa conclusione, da che egli considera il tutto quale proprietà di tutti: se tutto appartiene a tutti certamente il singolo, per appropriarsi una qualche cosa, deve rubare.
La proprietà privata vive per la grazia del diritto. Nel diritto soltanto essa ha le sue guarentigie. — Il possesso non rappresenta finora la proprietà, ma diviene tale, diviene mia proprietà pel consenso del diritto; — esso non è un fatto, un fait come asserisce Proudhon, bensì una finzione, un'idea. La proprietà di diritto, la proprietà legale; ecco la proprietà vera. Non per virtù mia essa m'appartiene, bensì in grazia del diritto.
Nondimeno la parola proprietà serve ad esprimere il dominio assoluto su qualche cosa (animali, uomini, oggetti) della quale io possa disporre a "mio talento". Secondo il diritto romano significa certamente l' " ius utenti et abutendi re sua, quatenus juris ratio patitur ", un diritto esclusivo ed illimitato. Ma la proprietà è condizionata dalla forza. Ciò che io posseggo con la forza, è mio. Sino a tanto che io so far valere la mia forza, io sono il proprietario d'una cosa; se questa mi viene tolta per qualsiasi potere — fosse perchè anche io riconosco i diritti d'un altro su quella cosa — la proprietà cessa. In tal modo proprietà e possesso finiscono a diventare la stessa cosa. Non già un diritto che sta all'infuori di me mi dà ragione, bensì unicamente la mia forza; se io non la posseggo, è per me perduta la cosa che vorrei possedere. Allorquando i Romani si trovarono impotenti contro i Germani, appartenne a questi ultimi l'impero romano e sarebbe ridicolo il voler sostenere che nonostante i veri proprietari sian rimasti i Romani. Chi sa conquistare e conservare una cosa ne diventa proprietario sino a che non gli viene ritolta: allo stesso modo la libertà è di chi sa conquistarsela e conservarla.
Della proprietà la sola forza decide, e siccome lo Stato — sia uno Stato di cittadini o di pitocchi — o di uomini senz'altro — è il solo potente, così esso è anche il solo proprietario. Io — l'unico — non ho nulla di mia proprietà, sono soltanto investito d'un possesso, e divento con ciò un vassallo, un servo. Sotto la dominazione dello Stato, per me non esiste la proprietà.
Io voglio rialzare il mio valore, il valore dell'individualità; e dovrei tener a vile la proprietà?
No; come io finora non fui tenuto mai in conto alcuno, perchè sopra di me furono esaltati il popolo, l'umanità e mille altre astrazioni, così sino ai nostri giorni la proprietà non è stata apprezzata secondo il suo vero valore. Anche la proprietà non fu sin qui che la proprietà d'un fantasma, p. es. del popolo; la mia stessa esistenza "apparteneva alla patria". Io apparteneva alla patria, al popolo, allo Stato, e con me anche tutto quello ch'era mio. Si esige dagli Stati ch'essi ci liberino dal pauperismo. A me sembra che tanto valga pretendere che lo Stato debba tagliarmi con proprie mani il capo e porselo ai piedi; poiché sino a tanto che lo Stato è tutto, l'io sarà sempre disconosciuto. Lo Stato ha interesse ad esser ricco esso solo; se Pietro o Paolo sono poveri che gliene importa? E così se Pietro fosse ricco e Paolo povero. Esso assiste impassibile all'impoverimento dell'uno, all'arricchimento dell'altro. Quali singoli, al suo cospetto tutti sono perfettamente uguali l'uno all'altro: in ciò consiste la sua giustizia: al suo cospetto ciascun cittadino è un valore, allo stesso modo che una volta al "cospetto di Dio eravamo tutti peccatori".
Per contro allo Stato preme che quelli i quali in lui vedono il proprio io, partecipano alle sue ricchezze; e per ciò li considera quali partecipanti alla sua proprietà. Col possesso con cui li rimunera, egli li attrae a sé; ma la proprietà resta sempre sua, e ciascuno può goderne sino a tanto che l' io dello Stato sopprime l'io individuale, vale a dire sino a tanto che l'individuo è un "membro leale della società". Nel caso contrario la proprietà viene confiscata o distrutta col mezzo dei processi penali. La proprietà è perciò proprietà dello Stato, non già del singolo "io".
Se lo Stato non toglie arbitrariamente al singolo ciò ch'egli mercé sua, possiede, ciò avviene solo perchè lo Stato non deruba se stesso. Colui che, quale io dello Stato, sarà un buon cittadino, un suddito fedele, potrà godere indisturbato del possesso di cui fu investito. In tal caso il Codice s'esprime così: proprietà è ciò che io posseggo in virtù "di Dio e del diritto". Ma per virtù di Dio e del diritto una cosa è mia solo sino a tanto che lo Stato non vi si oppone, e non oltre.
Nelle espropriazioni, nella consegna delle armi, ecc. (come nell'impossessamento delle eredità che il fisco compie a suo vantaggio se gli eredi non s'annunziano in tempo utile) il principio, dissimulato fin ch'è possibile, che il popolo, lo Stato sia il solo proprietario — mentre il singolo non è che un vassallo investito di certi possessi —, salta chiaramente agli occhi. KKK
Lo Stato, ecco ciò che volevo dire, lo Stato non può desiderare che taluno sia ricco per sé stesso; a me come individuo esso nulla può riconoscere, nulla concedere. Lo Stato non può mettere una fine al pauperismo poi che questo riguarda non il popolo in astratto ma i cittadini come persone. Chi nulla conta se non per ciò che l'hanno reso il caso o lo Stato, costui a buon diritto nulla possiede se non ciò che un altro gli dà. E quest'altro non gli darà se non quanto ci si merita in compenso dei suoi servizi. Non egli si fa valere per se; è lo Stato solo che gli attribuisce o gli nega il valore.
L'economia nazionale s'occupa assai di questo argomento. Ma esso varca di molto i confini del "campo nazionale" e oltrepassa i concetti e l'orizzonte dello Stato, il quale non riconosce altra proprietà fuorché la sua a non può distribuire che questa. Per ciò esso vincola il possesso della proprietà a certe condizioni, allo stesso modo che a certe condizioni subordina ogni cosa, p. es. il matrimonio, non riconoscendo per valide che le nozze le quali ottengono la sua sanzione e sottraendo cosi questa istituzione al potere del singolo. Ma una cosa non è mia se non quando io ne sono signore incondizionatamente; quando cioè io amo la donna che più mi piace ed esercito il commercio che meglio m'aggrada.
Lo Stato non si cura di me e di ciò ch'è mio, bensì di sé stesso e di ciò ch'è suo: io conto per lui tutto al più quale un suo figlio, non quale individuo. Ciò che succede a me, quale singolo per lo Stato non ha importanza. Ma se io insieme con tutto ciò che costituisce la mia proprietà non ho per lo Stato alcun pregio, ciò avviene perchè egli non è in condizioni di comprendermi; il suo intelletto è troppo ottuso.
Per questo soltanto egli nulla può fare per me.
Il pauperismo è un corollario del deprezzamento dell'io, che diventa un non-valore. Perciò pauperismo e Stato sono inseparabili. Lo Stato non mi permette di farmi valere per quello che sono, anzi fa di tutto per impedire che io quale singolo, mi affermi. Egli è sempre intento a sfruttarmi quanto più gli è possibile a depredarmi, a spogliarmi, e quando altro non può mi costringe a provvedere ad una proles (il proletariato); egli vuole insomma che in tutto io sia una sua creatura.
Ora il pauperismo non si potrà togliere se non quando il singolo stabilirà egli il valore di sé e degli altri e di tutte le cose. Io devo ribellarmi per potermi innalzare.
Ciò che io produco, farina, tela, ferro o carbone, ciò che io strappo penosamente alla terra, ecc., tutto ciò è mio lavoro, che io intendo far valere per me.
Il lamentarmi non mi gioverebbe ; il mio lavoro non sarebbe per questo pagato secondo il suo valore. Il compratore non mi ascolterà e lo Stato si serberà indifferente esso pure, sino a tanto che non crederà giunto il momento di "acquetarmi" per timore che io alla fine mi ribelli con suo danno. Ma con l'acquetarmi esso avrà fatto tutto ciò che può e sa fare, e se io mi ostinerò a domandare qualche altra cosa, lo Stato mi si rivolgerà contro con tutta la forza delle sue unghie di leone e dei suoi artigli d'aquila poiché esso è il re degli animali: è aquila e leone. Se io non voglio accontentarmi del prezzo ch'egli assegna al mio prodotto ed al mio lavoro, e tento di stabilirlo io stesso cioè di "pagarmi a mio modo", io mi porrò in lotta anzitutto coi compratori del mio prodotto. Or se tale conflitto potrà esser composto da un reciproco accordo, lo Stato non solleverà obiezioni, poiché poco gli importa il modo con cui i singoli si mettano d'accordo tra di loro, purché non gli attraversino il cammino. Il suo danno, il suo pericolo, incominciano solo quando i singoli non riescono più a mettersi d'accordo, e vengono alle prese tra loro. Lo Stato non può tollerare che l'uomo abbia un qualunque rapporto diretto coi suoi simili; vuol cacciarsi di mezzo, quale mediatore, vuol intervenire. Esso è divenuto con ora ciò che è stato un tempo Cristo, ciò che furono i santi, ciò che fu la Chiesa: "mediatore". Egli strappa l'uomo dall'uomo, per porsi in mezzo a loro quale "spirito". Gli operai che domandano un aumento di mercede sono trattati quali malfattori, non appena accennino a voler conseguire con la forza il loro intento. Che devono fare? Senza la forza nulla essi possono ottenere, ma nell' uso della forza lo Stato scorge un aiuto procuratosi coi mezzi che dovrebbero appartenere a lui solo, uno sfruttamento reale, libero delle proprietà dell' io, e ciò egli non può tollerare. Che devono dunque fare i lavoratori?
Sperar nelle proprie forze e non curarsi più che tanto dello Stato. E quello che avviene del mio lavoro materiale, succede anche di quello spirituale. Lo Stato mi permette di trar partito da tutte le mie idee (io le sfrutto già coll'acquistarmi onore presso coloro ai quali le espongo, ecc.), ma il suo permesso mi è dato a patto che le mie idee siano le sue. Se io nutro dei sentimenti e posseggo dei pensieri che lo Stato non può approvare, egli non mi dà facoltà in nessun modo di scambiarli di metterli in commercio. I miei pensieri sono liberi sino a tanto che lo Stato mi fa la grazia di approvarli, vale a dire sino a tanto che le mie idee convengono con le sue.
Così ei mi concede facoltà di filosofare sino a tanto ch'io mi dimostro "filosofo di Stato" e cerco di aiutarlo nei suoi intenti: non oltre. Allo stesso modo, dunque, che io posso considerarmi un "io" per grazia dello Stato, provvisto di carte di legittimazione e del passaporto di polizia, cosi da ciò ch'è mio non possa trar profitto salvo che il mio sia anche qualcosa di suo, di cui egli mi abbia investito. Il mio cammino deve essere il suo; se no, egli me l'attraversa: le mie idee devono essere le sue; se no, egli mi tura la bocca.
Nulla è per lo Stato più "temibile del mio valore". Ogni occasione che mi dia modo di farmi valere da me stesso mi è da lui impedita a tutti i modi. Io sono il nemico mortale dello Stato.
Costretto a termini in ogni momento, esso mira con ogni rigore a togliermi ciò ch'è mio sì ch'io non possa riuscire nel mio intento. Nello Stato non esiste proprietà individuale, bensì unicamente la proprietà dello Stato. Soltanto in grazia dello Stato io ho quello che ho, allo stesso modo che mercè sua soltanto io sono quello che sono. La mia proprietà privata non è che quel tanto che lo Stato mi concede il godimento sulla sua proprietà privandone con ciò gli altri cittadini: è dunque proprietà dello Stato.
Ma per contro, io sento sempre più chiaramente che un gran potere ancor mi rimane, il potere su me stesso, cioè su tutto ciò che mi è proprio, e che è proprio a me solo.
Che cosa dovrò fare quando le mie vie divergeranno da quelle dello Stato, quando le mie idee non saranno più le sue? Procederò da me, senza preoccuparmi di lui in alcun modo. Nelle mie idee, che io non permetto a nessuno di determinare, di concedere o di giudicare, sta la mia vera proprietà: una proprietà, di cui posso liberamente disporre. Poiché essendo mie posso bene se così mi piace, cambiarle con altre idee — privarmene, acquistandone altre che diventano mia nuova e legittima proprietà.
Che cosa è dunque la mia proprietà? Quello soltanto che sta in mio potere! Quale proprietà io sono licenziato a possedere? Ogni proprietà al cui possesso io licenzio me stesso. Il diritto io me lo conferisco da me, col prendermi la mia proprietà, e col dichiararmi per tal modo, e senz'uopo d'altri, proprietario.
Tutto ciò che al mio potere non può esser strappato, è mio; la forza decide della proprietà ed io aspetterò dalla mia forza ogni cosa! La forza estranea, quella che io concedo ad un altro, mi rende schiavo; dunque la mia forza mi rende libero dei miei destini. Io riprendo il potere, che inconscio della mia forza ho ceduto ad altri ! Io devo dire a me stesso che la mia proprietà si estende sin là dove arriva il mio potere e che io riguardo come mia proprietà tutto ciò che mi sento abbastanza forte da conseguire ed estendo la mia reale proprietà su tutto ciò che io autorizzo me stesso a conquistarmi.
Qui devono prevalere l'egoismo e l'interesse, non già i principi o i motivi dell'amore: la misericordia, la carità, la bontà, l'equità, la giustizia (poiché justitia è ancor essa un prodotto dell'amore)! L'amore non conosce e non richiede che sacrifici.
L'egoismo non pensa a rinunziare ad alcuna cosa né a privarsene; esso dichiara semplicemente: ciò mi è necessario dunque, io devo averlo e voglio procurarmelo.
Tutti i tentativi di dar leggi ragionevoli intorno alla proprietà sono usciti dal seno dell'amore per gettarci in un mare burrascoso di prescrizioni d'ogni specie. Anche il socialismo ed il comunismo non possono andarne esenti. Ognuno dovrebbe essere provveduto di mezzi sufficienti, e, dato il fine, poco importa se quei mezzi debbano — come sostengono i socialisti — ricercarsi nella proprietà personale, oppure — come vogliono i comunisti — nella comunione dei beni. Il significato resta il medesimo: quello di dipendenza. L'autorità che distribuisce secondo l'equità mi concederà ciò che dal sentimento dell'equità — la sua cura amorevole di tutto — le sarà suggerito. Io, il singolo, non vedo nella proprietà comune un ostacolo minore che nella proprietà dei singoli; né l'una né l'altra mi appartiene. Siano i beni proprii della comunità che me ne concede in parte il godimento, o siano invece di singoli proprietari, la costrizione è per me sempre eguale, poiché io non posso disporre né in un caso ne nell'altro. Anzi; il comunismo mi fa anche più schiavo, poiché coll'abolire ogni proprietà personale mi rende dipendente dall'università e dalla comunità e, per quanto fieramente esso attacchi lo Stato, ciò che egli vuole insomma è pur sempre uno stato, uno "status" che limiti e impedisca la libertà dei miei movimenti, che eserciti cioè una supremazia su di me. Contro l'oppressione alla quale sono soggetto per opera dei singoli proprietari il comunismo si ribella con ogni diritto; ma più terribile è ancora il potere di cui esso vuole investire la comunità, l'universalità, a mio danno.
L'egoismo prende un'altra via per toglier di mezzo la plebe; nullatenente. Esso non dice: Attendi ciò che l'autorità ti vorrà concedere in nome dell' università) poiché cotali donazioni furon fatte sempre anche negli Stati "secondo i meriti" vale a dire in quella misura in cui ciascuno la sapeva ottenere in compenso dei propri servizi), bensì: stendi la mano e prenditi ciò che ti è necessario! Con ciò è dichiarata la guerra di tutti contro tutti. Io solo devo decidere di ciò che voglio avere.
"Ma questa verità non è nuova, poiché gli egoisti di tutti i tempi han sempre predicato la stessa cosa!". Ciò che importa non è che essa sia nuova, ma che ci sia la coscienza che una tale verità esiste. E questa coscienza non può vantarsi di contare molti anni, salvo che s'intenda tener conto delle leggi egiziache e spartane. E al postutto che poco sia diffusa lo prova lo stesso disprezzo in cui voi tenete gli egoisti. E necessario che si sappia che l'atto dello stender le mani per prendere non è spregevole, bensì è la vera manifestazione dell'egoista coerente a sé stesso.
Io non mi potrò districare dalla rete dell'amore se non quando io non attenderò né dai singoli né dalla comunità nulla di ciò che posso procurarmi da me stesso. Allora soltanto la plebe cesserà d'esser plebe.
Ciò che crea la plebe è l'idea che l'appropriarsi d'una cosa sia peccato e delitto. E se essa rimane tale, in parte e per sua colpa poiché non dovrebbe ammettere per valida una simile legge, in parte è per colpa di coloro che pretendono "egoisticamente" (tanto per ricambiar loro la parola tanto vilipesa) che quella legge sia rispettata. In breve, l'antica coscienza del peccato: ecco la ragione vera di questo stato di cose.
Il giorno in cui gli uomini riusciranno a perdere il rispetto della proprietà, ciascuno avrà qualcosa di suo, avrà una proprietà sua: non altrimenti gli schiavi diventano uomini liberi, quando hanno disappreso a rispettare il padrone. Le associazioni moltiplicheranno anche allora i mezzi dei singoli e assicureranno a ciascuno la sua proprietà.
Secondo l'avviso dei comunisti, proprietaria dovrebbe esser la comunità. Tutt'altro anzi: il proprietario sono io; io solo tratto a mio piacere con gli altri sul conto della mia proprietà. Se i procedimenti della comunità non mi garbano, io mi saprò ben ribellare e difendere contro tutto ciò ch'è mio.
Io son proprietario; tuttavia la proprietà non è sacra. Sarò dunque soltanto un possessore? No, sinora non eranvi che possessori, assicurati nel possesso d'una particella, per ciò solo che si garantiva anche ad altri il possesso d'una eguale particella; ora invece tutto m'appartiene, io sono proprietario di ogni cosa che m'abbisogni e che io sappia conquistarmi. Se il vangelo socialista predica: la società mi darà quello che mi è necessario; l'egoista dirà: io prenderò da me stesso quello che m'abbisogna. Se i comunisti si conducano da straccioni, l'egoista si contiene da proprietario.
Tutti i tentativi di render felice la plebe tutte le associazioni informate al sentimentalismo e derivate dall'amore, sono costrette a far naufragio. Dall'egoismo soltanto la plebe può attender salute, e questa salute dev'esser, e sarà opera sua. Quando non si lascierà più persuadere ad aver paura, essa sarà una potenza, "La gente perderebbe ogni rispetto se non la si costringesse alla paura.....".
Sicché la proprietà non dove ne può venir soppressa bensì ha da essere strappata a mani fantastiche per diventare cosa mia; così soltanto vanirà l'erronea credenza che io non possa autorizzare me stesso ad avere quel tanto di cui ho bisogno. — "Ma di quante cose non può aver bisogno l'uomo!". Ebbene, chi abbisogna di molte cose e sa prendersele, se le prese in ogni tempo: Napoleone non s'è forse conquistato il Continente e i Francesi non si son presi l'Algeria?
Ciò che preme è che la plebe impari finalmente a prendersi quello che le abbisogna. Se essa stende troppo la mano, ebbene, ricacciatela indietro. Chi imparerà a conoscere sé stesso, si toglierà alla plebe e saprà far di meno della vostra elemosina. Ne per questo voi lo potete chiamare delinquente e peccatore. Difendete la vostra proprietà, e voi sarete forti; se invece volete serbare a voi stessi la facoltà di donare, e più ancora, se vorrete avere dei diritti politici in misura di quanto potete donare ai poveri (imposta sulla povertà) la cosa non potrà durare se non sino a tanto che i beneficati lo consentiranno [(1) In una legge per l'Irlanda il Governo fece la proposta d'accordare il voto elettorale soltanto a coloro che pagherebbero cinque lire sterline d'imposta sulla povertà.].
In somma la questione della proprietà non può esser risolta così facilmente come sognano i socialisti e i comunisti, solo la guerra di tutti contro tutti la può decidere definitivamente. I poveri saranno liberi e proprietari solo quando si ribelleranno, si solleveranno, si innalzeranno. Regalate loro quello che volete, essi chiederanno sempre di più; poiché a null'altro mirano che all'abolizione dei doni.
Si domanderà: Ma che avverrà quando i poveri avranno coscienza di sé stessi? Come si giungerà ad un'equa ripartizione dei beni? Allo stesso modo mi si potrebbe chiedere di predire l'ora in cui un bambino verrà al mondo. Ciò che potrà fare uno schiavo che ha infranto i suoi ceppi, lo vedremo.
Kaiser nel suo opuscolo privo d'ogni valore di forma e di contenuto, ("La personalità della proprietà in rapporto al socialismo ed al comunismo") spera che lo Stato renderà possibile una giusta ripartizione dei beni. E sempre lo Stato! Il signor papa! Si volle vedere nella Chiesa la "madre" di tutti i credenti, ed ora si aspetta ogni salute dal "papa" Stato. Intimamente connessa col principio della borghesia si dimostra la concorrenza. E’ d’essa altra cosa che l'uguaglianza (égalité)? E non è forse l'égalité un prodotto di quella rivoluzione, che fu effettuata dalla borghesia, cioè dalle classi medie? Non essendo impedito ad alcuno (eccetto che al principe che per sé stesso rappresenta lo Stato) di gareggiare entro lo Stato, d'innalzarsi al grado d'ogni altro, di abbattere qualunque altro, di sfruttarlo, di sorpassarlo anche con uno sforzo maggiore delle proprie facoltà, di spogliarlo di ciò che possiede, dobbiamo concludere che dinanzi al tribunale dello Stato ciascuno non ha che il valore d'un semplice "individuo" e non può attendersi privilegio alcuno a svantaggio degli altri.
Fate ressa, e schiacciatevi, pur di giunger primi, come volete e come potete, ciò è una cosa che non riguarda me, lo Stato. Tra di voi siete liberi di concorrere, a vostro piacere; questa è la vostra condizione sociale. Ma al cospetto di me, Stato, voi null'altro siete fuorché semplici individui [(1) Di quest'espressione si valse il ministro Stein a proposito del conte di Reìsach, allorquando lo diede in balìa del Governo bavarese senza provarne alcun rimorso.].
Ciò che in forma teoretica ed assiomatica fu proclamato già per l'uguaglianza di tutti ha ormai trovato nella concorrenza la sua esplicazione pratica; poiché l'égalité è la libera concorrenza.
Tutti sono dinanzi allo Stato non più che persona, ma nella società e nei rapporti tra loro sono concorrenti.
Mi basta esser cittadino per poter concorrere con tutti — tranne che col principe e con la sua famiglia —; libertà questa che prima m'era impedito dacché soltanto entro la propria corporazione ed entro i limiti di esso m'era concesso di gareggiare con gli altri.
Nelle corporazioni e nella feudalità lo Stato si dimostrava intollerante con accordare privilegi alla concorrenza e al liberalismo: esso s'è fatto ora tollerare e lascia fare, e concede autorizzazioni e diplomi (vale a dire assicura per iscritto all'aspirante la libertà d'esercitare una professione o un'industria.) E poiché in tal modo ha messo ogni forza in mano degli aspiranti ne segue che la concorrenza diviene necessaria; ciascuno in fatti è autorizzato ad aspirare ad ogni cosa.
La libera concorrenza è essa veramente "libera"? meglio anzi è essa una vera "concorrenza" di persone, come si vuol far credere, poiché su quel titolo si pone il fondamento di ogni diritto?
È libera una concorrenza, che lo Stato, questo despota di principi borghesi, inceppa con mille ostacoli?
Ecco un ricco industriale che fa splendidi affari. Io vorrei fargli concorrenza. "Sia pure, dice lo Stato, io non ho nulla da obiettare contro la tua persona quale concorrente", "bene, dico io, ma per poter far ciò ho bisogno d'un'area per costruirvi degli edifici, ho bisogno di denaro!" "Peggio per te, mi risponde, senza denaro tuo proprio tu non puoi concorrere, ne ti è lecito prenderlo, poiché io tutelo e garantisco la proprietà". La concorrenza non è libera, perchè mi manca l'essenziale per poter concorrere. Contro la mia persona non si muovono eccezioni; ma siccome io non posseggo la cosa, così anche la mia persona è costretta a starsene indietro. E chi possiede la cosa di cui ho bisogno? Forse questo industriale? In tal caso potrei togliergliela? No, perchè lo Stato l'ha riconosciuta quale sua proprietà: ed essa è per il singolo che l'ha alle mani un feudo tutelato, un possesso.
Da quando non posso concorrere con l'industriale, mi ci proverò con quel professore di diritto; egli è uno allocco, ed io che ne so cento volte più di lui, gli spopolerò la classe. "Hai tu frequentato le scuole pubbliche?" — mi chiede lo Stato — "sei stato promosso, amico mio?"
"No, ma che importa? Io so quello che occorre e conosco bene la mia materia". "Mi dispiace, ma in questo caso la concorrenza non è libera: contro la tua persona nulla si può obiettare, se non che ti manca la cosa: la laurea di dottore. E questa laurea, questo diploma io, lo Stato, lo pretendo.
Domandala con bei modi; vedrò ciò che si può fare".
Questa è adunque a libertà della concorrenza. Lo Stato, il mio padrone, deve darmi anzitutto la facoltà di concorrere.
Ma concorrono poi veramente le persone? No, le cose soltanto concorrono! E in primo luogo i denari.
Nella gara ci sarà sempre uno che resterà indietro (p. es. un poetastro in gara con un vero poeta). Ma che i mezzi di cui difetta lo sgraziato concorrente siano personali o dipendano dalle cose, non è tutt'uno, né è tutt'uno che le cose possano essere acquistate per la forza personale o per grazia, quale un dono; p. es. che il più povero debba lasciare, vale a dire donare, al ricco le sue ricchezze. Se io devo attendere l'approvazione dello Stato per potermi procacciare i mezzi (p. es. mediante la promozione), io devo dire che ho acquistato quei mezzi non per mia virtù ma per la grazia dello Stato.
La "libera concorrenza" non può dunque avere che questo significato lo Stato considera tutti egualmente quali suoi figli, e dà a ciascuno facoltà di correre e concorrere per meritarsi le grazie ed i beni che egli dispensa. Per ciò tutti danno la caccia agli averi, al possesso sia di danaro, sia di impieghi, sia di titoli, ecc.: insomma alla cosa.
Secondo il senso della borghesia ciascuno è possessore o "proprietario". Donde viene dunque che la maggior parte degli uomini nulla possiede? Da ciò che i più godono d'esser possessori, fosse pure soltanto di due stracci, allo stesso modo che i fanciulli gioiscono del possesso dei primi calzoncini o di un paio di centesimi. Ma per esser più chiari, le cose stanno in questo modo. Il liberalismo si presentò senz'altro con la dichiarazione che l'essenziale per l'uomo era il possedere, non l'essere posseduto. Ma poiché nel concetto dei liberali si trattava dell'uomo in astratto e non già del singolo, dell'individuo, cosi la determinazione di ciò che al singolo abbisognava restò in facoltà del singolo. Perciò l'egoismo del singolo poté spaziare in un campo sconfinato, e sbizzarrirsi in un'instancabile concorrenza.
Ma con ciò l'egoismo dei fortunati doveva diventare una spina nell'occhio per quello degli infelici, e quest'ultimo — basato, ancor sempre, sul principio dell'umanesimo — pose la questione del quanto e proclamò che l'uomo doveva avere quel tanto a punto che gli abbisognava.
Ma il mio egoismo s'accontenterà forse di ciò? Quel che abbisogna all'uomo in astratto non può servire di misura pei bisogni del singolo in concreto; poiché io posso aver bisogno di più o di meno. Io devo avere dunque tutto quello che le mie forze mi possono procurare.
La concorrenza è difettosa in sé, poiché i mezzi per concorrere non sono a disposizione di tutti e non derivano dalla virtù di nessuno, ma dal caso. La maggior parte degli individui non possiede quei mezzi, ed è perciò senza beni di fortuna.
Ecco perchè i socialisti chiedono così i mezzi per tutti, e tendono a formare una società che li possa a tutti fornire. Il denaro che tu possiedi, dicono essi, noi non vogliamo più riconoscerlo per tuo. Tu devi cercarti un'alta facoltà: la tua forza di lavoro.
Tu non puoi possedere le cose eternamente; le avrai solo fino a che tu non ne sarai spossessato.
Siccome la tua mercé è possesso tuo sino a tanto che sei in condizione d'averla in tua mano, vale a dire sino a tanto che noi non abbiamo nessuna ragione su di essa, così noi t'invitiamo ora a cercarti un altro possesso, poiché la nostra forza vale più del tuo preteso possesso.
Pareva che molto si fosse ottenuto col proclamare il principio del possesso. La schiavitù era stata con ciò abolita e tutti coloro che prima d'allora avevano servito il padrone in qualità di schiavi, ed erano stati più o meno proprietà di lui, erano diventati "signori". Ma d'ora innanzi il tuo avere e la tua facoltà non bastano più, e non sono più riconosciuti; per contro aumenta il valore del tuo lavoro è del prodotto del tuo lavoro. Noi rispettiamo ora la forza che tu hai di soggiogare le cose, allo stesso modo che prima rispettavamo il tuo possesso. Il tuo lavoro rappresenta la tua facoltà; tu sei ora possessore e proprietario di ciò che hai acquistato non più, come dianzi, coll'eredità, ma col tuo lavoro. E siccome generalmente la fonte della ricchezza è l'eredità ed ogni lira che tu possiedi porta l'impronta di essa, non quella del lavoro, così necessario che tutto venga restituito perchè tutto fu mal tolto.
Così ragionano i socialisti. Ma è poi vero che il mio lavoro rappresenta la mia sola facoltà, o non consiste questa invece in tutto ciò di cui io sono capace? E non è forse la stessa società dei lavoratori costretta a riconoscere questo col sostentare gli infermi, i fanciulli, i vecchi, in breve tutti coloro che non possono lavorare? Questi possono far molte cose: p. es., serbar la vita, anziché togliersela. Se essi giungono ad ottenere da voi che li manteniate in vita, essi hanno un predominio su di voi. A colui che non avesse alcun potere su di voi, voi nulla concedereste: lo lascereste morire.
Dunque ciò che tu sei capace di fare, forma la tua facoltà! Se tu sai procurar un godimento a migliaia d'uomini, costoro te ne rimunereranno, poiché sarebbe anche in tua facoltà di non farlo ; e per ciò essi sono costretti a pagarti la tua opera. Se non sai guadagnarti la simpatia di alcuno, tu morrai di fame.
E non dovrei forse io, che posso molte cose, esser preferito a coloro che possono meno di me?
Noi siamo tutti ben provveduti d'ogni cosa; ed io dovrei rimanermi dallo stender la mano per prendere, aspettando che mi si dia la parte concessami dagli altri ?

Max Stirner 

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