sabato 24 agosto 2013

I MIEI RAPPORTI [ ultimo frammento ]

'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''

PARTE SECONDA --- IO
I MIEI RAPPORTI [ ultimo frammento ]



È trista cosa tradire la fiducia, che volontariamente noi ispiriamo agli altri. Ma l'abbattere colui, che ha tentato piegarci con un giuramento, non reca disonore all'egoismo. Se tu hai tentato di legar me, ebbene sappi ch'io ho appreso a spezzale i tuoi legami.
Si tratta anzitutto di conoscere se alcuno per ciò solo che ha riposto la sua fiducia in me acquisti il diritto ch'io non le venga meno. Se quegli che insegue il mio amico mi domanderà d'ovesso si sia rifugiato, io certo lo metterò su una falsa traccia. Perchè vuol saperlo proprio da me che sono amico dell'inseguito? Per non essere un falso amico, un traditore, io accetto volentieri di esser menzognero. Io potrei certamente rispondere col coraggio che dà una buona coscienza; "io non voglio dirlo" (in questo modo Fichte rivolse il caso), e con ciò io salverei la mia lealtà; ma cosi adoperando nulla farei pel mio amico poiché se io non metto il nemico suo su una traccia falsa è possibile ch'egli prenda il vero cammino si che la mia sincerità avrà per effetto di tradire l'amico. Chi vede un idolo, una cosa sacra, nella verità, è costretto ad umiliarsi dinanzi ad essa, non deve opporsi né resistere alle sue esigenze, in somma deve rinunziare all'eroismo della menzogna. Poiché a mentire ci vuole non minor coraggio che a dire la verità, un coraggio che fa difetto alla maggior parte dei giovani, i quali preferiscono confessare la verità e salire il patibolo anziché ridurre all'impotenza i propri nemici col dire una menzogna. A costoro la verità è "sacra"; ora quello che è sacro ricerca sempre cieca venerazione e obbedienza. Se non siete sfacciati schernitori di ciò che è sacro, voi ne siete gli schiavi. Purché io vi getti un granello di verità nella trappola, voi ne resterete impigliati. Così i pazzi ci sono caduti. Non volete mentire?
Ebbene, soccombete vittime della verità e diventate i suoi martiri. Martiri — ma per che cosa?
Per ciò che vi è proprio? No, per la vostra dea — per la verità. Voi non conoscete che un duplice servizio, e due specie di servitori: quelli della verità e quelli della menzogna. E allora, in nome di Dio, siate servi della verità!
Altri poi servono pure alla verità, ma in una "certa misura"; e fanno; per esempio, una grande distinzione tra una semplice bugia ed una bugia giurata. Eppure il capitolo del giuramento è quello stesso della bugia, poiché un giuramento non è che una affermazione rafforzata. Voi vi ritenete autorizzati a mentire purché non abbiate a giurare il falso. Chi è scrupoloso deve condannare una bugia altrettanto severamente quanto un falso giuramento. Tuttavia s'è conservato nella morale un vecchio argomento contrastato, quello della menzogna "necessaria": per forza maggiore. Ebbene nessuno che l'ammetta può escludere il falso giuramento per "forza maggiore". Se io giustifico la mia bugia col bisogno, non dovrei esser tanto pusillanime da privare questa legittima bugia della sua forza che è il giuramento. Perchè quello ch'io faccio non potrebbe esser fatto liberamente e senza alcuna restrizione (reservatio mentalis)? Poi che son costretto a mentire, per qual ragione non devo farlo liberamente, in tutta la coscienza e con tutta la forza? La spia presa dal nemico deve saper giurare la verità di quanto essa ha affermato; decisa a mentire, essa dovrebbe esitare vilmente dinanzi al giuramento? In tal caso sarebbe stato meglio che non si fosse mai risoluta a servire da spia; poiché arretrando dinanzi al giuramento essa si dà a priori in balia al nemico.
Anche lo Stato, del resto, teme il giuramento in casi di "forza maggiore", e perciò non ammette a giurare l'accusato. Ma voi non giustificate lo Stato: voi mentite, ma non giurate il falso. Se voi rendete, per esempio, un beneficio a taluno e non volete ch'egli lo sappia, richiestine da lui, voi negherete recisamente che siete stato voi a beneficarlo. Ma se vi chiedesse di affermarlo con giuramento voi vi rifiutereste, e per timore di profanare ciò ch'è sacro restereste a mezzo cammino. Contro la cosa sacra voi non avete una volontà propria. Voi mentite con moderazione, allo stesso modo che siete religiosi con "moderazione", liberi con "moderazione di sentimenti" moderatamente monarchici, e in tutto in somma leggiadramente "temperati ", tiepidi ed esitanti; metà di Dio, metà del diavolo.
Era costume degli studenti d'una certa università il considerare come nulla ogni parola d'onore data per forza al giudice universitario. Gli studenti scorgevano cioè in quella richiesta di suffragare le loro affermazioni con la parola d'onore un tranello al quale non potevano sottrarsi che spogliando della abituale importanza la parola d'onore data in quelle condizioni. Dagli studenti della stessa università ognuno che non avesse tenuto parola ad un commilitone sarebbe stato coperto d'infamia: ma chi mancava alla parola data al giudice si faceva più tardi beffe, in mezzo alle risa dei proprî commilitoni, del magistrato che s'immaginava scioccamente che la stessa parola dovesse avere eguale valore per gli amici e pei nemici. Non tanto una giusta teoria quanto la pratica della necessità aveva insegnato a quegli studenti di condursi in tal modo, poiché agendo diversamente si sarebbero visti ridotti a tradire tutti i giorni i proprî compagni. Ma tale mezzo come sortì un buon effetto praticamente, cosi si dimostra efficace anche in teoria. La parola d'onore e il giuramento sono tali solo per colui che io autorizzo a riceverli; chi mi costringe non avrà da me che una parola nemica, un giuramento nemico, cui è assurdo prestar fede; poiché il nostro nemico non ha diritto alla nostra fiducia.
Del resto persino i tribunali dello Stato sono costretti a disconoscere l'infrangibilità d'un giuramento. Supponiamo che io abbia giurato a qualcuno che si trova perseguito dalla giustizia, di non deporre alcuna cosa contro di lui: non richiederebbe forse da me il tribunale, senza curarsi del mio giuramento, ch'io rendessi testimonianza al vero? E s'io opponessi un rifiuto, non mi farebbe gettare in una carcere sino a tanto che mi decidessi a diventare spergiuro? Il tribunale mi "scioglie" dal mio giuramento. Come e generoso? Se v'ha una potenza capace di sciogliermi da un giuramento, non è giusto che quella potenza sia io?
Per ricordare una specie di giuramenti in uso, accennerò a quello fatto prestare dall'imperatore Paolo ai polacchi rilasciati (Kosciuszko, Potoeki, Niemcewicz ed altri): "Noi giuriamo non soltanto fedeltà ed obbedienza all' imperatore, ma anche di spargere il nostro sangue in sua gloria; noi ci obblighiamo a rivelare tutto ciò che ci venisse fatto di sapere da cui sia minacciata la sua persona o il suo impero. Noi dichiariamo infine, che, in qualsiasi parte del mondo fossimo per trovarci, basterà una sola parola dell'imperatore per farci abbandonare ogni cosa e correre immediatamente a lui".
In un solo campo il principio dell'amore sembra essere stato da lungo raggiunto e sorpassato dall'egoismo; quello della speculazione, nella sua doppia forma di pensiero e d'azione. Si pensa e si continua a pensare senza curarsi di ciò che ne potrà derivare; si commercia senza riguardo ai molti che avranno a soffrire per le nostre speculazioni tradotte in atto. Ma sul più bello, quando si tratta di concludere, quando si è giunti al punto di spogliarci da ogni reliquia di religiosità, di romanticismo e di umanitarismo, ecco che la coscienza religiosa risorge e noi finiamo a professare per lo meno la "religione" dell'umanità. L'arido speculatore getta alcuni soldi nella cassetta delle elemosine e fa così "del bene"; l'animoso pensatore si consola col pensiero che lavora per il progresso del genere umano e che la sua opera di devastazione andrà a profitto "dell'umanità" oppure s'immagina di servire "all'idea" — quella cosa, che è costretto a riconoscere più forte di lui.
Sino ad oggi si è pensato ed operato unicamente per amor di Dio. Coloro che per sei giorni avevano calpestato tutto in pro dei loro fini egoistici, nel settimo giorno sacrificavano al Signore; e coloro che distruggevano mille "buone cause" coll'inflessibilità del loro pensiero, facevano ciò per favorire una nuova "buona causa" e dovevano pensare — oltre che a sé stessi — anche a qualcun altro che potesse godere dell'opera loro: al popolo, all'umanità, ecc. Ma questo qualcun altro è un essere superiore a loro stessi, è un essere supremo: perciò io dico che essi fanno ogni cosa per amor di Dio.
Io posso dunque anche asserire che l'ultimo fine delle loro azioni è l'amore. Ma non già un amore volontario, non un amore proprio a loro, bensì un amore tributario, l'amore ad un essere superiore o supremo: in somma, non un amore egoistico, ma un amore religioso, inspirato dalla superstizione.
Se noi vogliamo rendere libero il mondo da molti servaggi dobbiamo a ciò indurci per amor nostro, e non già per amore del mondo stesso: poiché, non essendo dei redentori per professione o per "amore", noi non miriamo ad altro che a guadagnare il mondo a noi. Noi vogliamo ridurlo in nostra proprietà, non più esso deve appartenere a Dio (alla Chiesa), alla legge (allo Stato), bensì a noi; perciò noi miriamo a "guadagnarcelo" ad "attrarlo a noi" e quindi a rendere vana la forza ch'esso dispiega contro di noi, con l'andargli incontro e sottometterci a lui non appena sarà nostro. Quando sarà nostro, esso non userà della sua forza contro di noi, bensì con noi. Il mio egoismo ha interesse che il mondo sia libero perchè in tale guisa soltanto esso può divenire una mia proprietà Lo stato primitivo dell'uomo non è nell'isolamento o nella solitudine, ma nella società. Con la più intima delle relazioni sociali ha principio la nostra esistenza, poiché prima ancora di respirare noi viviamo legati alla madre; usciti alla luce noi ci troviamo nuovamente attaccati al seno d'un essere umano, il cui amore ci culla nei nostri sogni, guida i nostri primi passi e ci lega a se con mille vincoli.
La società è il nostro stato secondo natura. Per ciò appunto quanto più procediamo nell'arte di conoscer noi stessi tanto più l'antico intimo legame si allenta e il primitivo stato sociale si dissolve. La madre è costretta a strappar ai giochi degli amici nella strada, la creatura che un dì portò nel grembo, se talvolta risente il bisogno d'averla presso lei. Il bambino preferisce la compagnia dei suoi pari ad una società ch'egli non ha ricercata ma nella quale é solamente nato.
Ma dal dissolvimento della società sorge l'associazione. E ben vero che anche con l'associazione una società si forma, ma solamente a quel modo che da un pensiero nasce un'idea fissa, con la quale si strema la stessa energia del pensare — questa ripresa senza tregua di tutti i pensieri che vanno associandosi e componendosi in unità ideali. Quando un'associazione s'è cristallizzata in una società, essa ha cessato d'essere un'associazione; poiché associazione significa un incessante adunarsi degli uomini tra loro; allora che tale fiotto continuo si arresta l'associazione è morta, è un cadavere che si trasforma in società o comunità. Un esempio appropriato di ciò ci offre lo studio dei partiti.
Che una società, mettiamo lo Stato, menomi la mia libertà, ciò non mi muove gran fatto a sdegno. Son già pur troppo avvezzo a tollerare che la mia libertà sia limitata nelle più diverse guise, da ognuno ch'è più forte di me, dal mio prossimo in generale; se pur fossi l'autocrate moscovita, non potrei per questo ancor dire di godere d'un assoluta libertà. Ma ciò che mi è proprio, la mia individualità, non tollero che mi venga tolta. E quella appunto è presa di mira dalla società, quella appunto deve soccombere alla sua potenza.
Un'associazione, invece, alla quale m'ascrivo, mi toglie si alcune libertà, ma altre in cambio me ne concede: e nulla rileva che io stesso mi privi d'una libertà più tosto che d'un altra: ciò che io voglio custodire gelosamente è la mia individualità. Ogni società, a seconda delle forze di cui dispone, è più o meno inclinata a diventare un'autorità pei membri che la compongono e a limitare la libertà degli altri, essa esige e deve esigere dai proprî membri una cieca obbedienza, una assoluta soggezione, in forza della quale soltanto essa esiste. Tutto ciò non esclude una certa tolleranza; al contrario: la società accetta tutti quei consigli e quei biasimi che le potranno giovare ; però il biasimo dev'essere rispettoso ed espresso a "fin di bene" non già "irriverente e impertinente": con altre parole, non si deve, toccare alla sostanza che vuol essere tenuta come cosa "sacra". La società esige che i suoi membri non oltrepassino i confini che ella ha loro assegnati e non tentino d'innalzarsi sopra di essa, vuole anzi che essi rimangono entro i "limiti della legalità" vale a dire che non si permettano altre cose da quelle in fuori che son permesse da lei e dalle sue leggi.
Ma altra cosa è che per mezzo di una consociazione si limiti la mia libertà, altra che s'attenti alla mia proprietà. Nel primo caso la società agisce come un contraente. Ma quando per essa e minacciata, la proprietà, la società rappresenta un potere a sé, un potere superiore al mio, qualche cosa d'inaccessibile per me che mi si permette d'ammirare, d'adorare, di venerare e di rispettare, ma che non posso soggiogare e alla cui autorità io mi rassegno. Quella società sussiste in virtù della mia rassegnazione, della rinunzia di me stesso, della mia virtù: di tutto ciò in somma che si chiama col nome — d'umiltà. Dalla mia umiltà nasce il suo coraggio; dalla mia sottomissione ha forza il suo dominio.
Ma in punto a libertà lo Stato e l'associazione non differiscono gran fatto. L'uno e l'altra traggono la ragion della loro vita dalla costrizione della libertà individuale. Certo la limitazione dalla libertà è in qualche guisa inevitabile da per tutto, poiché ci è impossibile renderci liberi da ogni cosa. Noi non possiamo ad esempio, volare come gli uccelli, poiché la nostra volontà non potrebbe mai liberarci dalla legge della gravita; non vivere oltre un certo tempo sotto acqua perché ci bisogna dell'aria e cosi via. Allo stesso modo che la religione (e il Cristianesimo in particolar modo) tormentò l'uomo col pretender da lui che attuasse ciò che è contro la natura e contro lo stesso buon senso, così è da riguardarsi come una conseguenza logica di quella esaltazione religiosa l'ideale della libertà per se stessa, della libertà assoluta. Così il controsenso dell'impossibile doveva diventar palese.
Certamente l'associazione offrirà maggiore libertà che non lo Stato e sarà riguardata anche come dispensatrice d'una libertà nuova perchè in grazia di essa ci verrà fatto di sfuggire alle costrizioni imposte dallo Stato e dalla vita sociale, se bene anch'essa contenga schiavitù in buon dato. Poiché lo scopo dell'associazione non è già la libertà: questa anzi deve venir sacrificata alla individualità. Per tale riguardo la differenza tra lo stato e l'associazione è rilevante. Quello è un nemico implacabile dell'originalità individuale, questa invece è frutto di tale originalità; quello uno spirito che chiede d'esser adorato come tale questa è opera mia, un mio prodotto. Lo Stato è il padrone del mio spirito, dal quale esso esige una fede e al quale prescrive gli articoli della legge; esso esercita un'influenza morale, domina il mio spirito, discaccia il mio "io", per mettersi al suo posto sotto il nome del mio "vero io": in somma, lo Stato è sacro, e di fronte a me, all'individuo singolo, rappresenta il vero uomo, lo spirito, il fantasma. Invece l'associazione è creazione mia, è creatura mia, non è sacra, non rappresenta un sacro potere al disopra di me. Allo stesso modo che io non voglio esser lo schiavo dei miei principî ma li assoggettano spietatamente e senza alcun riguardo alla mia critica, così io non contrarrò coll'associazione degli obblighi per l'avvenire, né le venderò la mia anima (come si dice che si usa fare col diavolo, e come si fa realmente con lo Stato e con tutte le autorità spirituali) ma vorrò essere e sarò per me molto più che non siano lo Stato, la Chiesa, Dio, ecc., e in conseguenza molto più che non sia l'associazione stessa.
La società vagheggiata dal comunismo sembra meglio di ogni altra accostarsi all' "associazione". Essa infatti deve aver per scopo "l'utile di tutti", ma proprio di tutti, di tutti, esclama Weitling ripetutamente! Sembra dunque che davvero nessuno sarà dimenticato. Ma quale sarà l'utile promesso? Aspirano tutti allo stesso benessere? Il benessere di tutti sarà proprio il benessere d'ogni singolo? Se fosse così, si tratterrebbe realmente della vera felicità universale.
Ma non arriviamo con ciò al punto che serve di partenza al dispotismo religioso? Il Cristianesimo dice: Non curatevi delle vanità terrene, ma ricercate la vostra vera salute, diventando buoni cristiani. Nell'esser cristiani sta la vera salute.
E’ la vera salute di "tutti", poiché è quella dell'uomo come tale (del fantasma dell'uomo). Io ritengo per altro che la felicità di tutti dovrebbe essere anche quella d'ogni singolo: la mia e la tua. E se io e tu non sappiamo trovare la nostra felicità in quella dell'universale, si penserà poi a provvedere a ciò che occorre a noi per sentirsi felici? Tutt'altro, anzi; la società ha decretato che un dato benessere abbia ad essere il "vero" e lo chiama, p. es., il godimento acquistato col frutto d'un onesto lavoro. Bene; ma tu forse preferiresti il godimento dell'ozio che rifugge dal lavoro, il godimento senza la fatica. Ora in tal caso la società che provvede alla felicità universale si guarderà bene dal procurarti quel godimento che tu preferisci. Proclamando il benessere di tutti, il comunismo distrugge precisamente la gioia di coloro che sin qui avevano vissuto delle loro rendite e che trovano quella vita indubbiamente preferibile alle lunghe ore di lavoro promesse dal "Weitling". Questi sostiene perciò che la felicità di alcuni è d'ostacolo a quella dei molti e che per conseguenza i privilegiati dell'oggi dovrebbero rinunziare al loro benessere particolare per amore del "benessere universale". No, con questo postulato cristiano non si andrà innanzi gran fatto; meglio è esortare i singoli a non lasciarsi strappare da nessuno l'utile proprio, anzi a riaffermarlo e a trattenerlo e a difenderlo contro tutti; sarà così più facile farci comprendere. Allora soltanto gli uomini giungeranno a conoscere sé stessi quando si assoceranno con altri, sacrificando "una parte della loro libertà", non già al benessere universale, bensì al proprio. Ogni appello ai sentimenti di sacrificio e di rinunzia per amore dovrebbe al fine aver perduto ogni sua forza ingannatrice, poiché dal bilancio dei millenni nulla è risultato fuorché la miseria odierna. Perché attendere ancor sempre e invano che l'abnegazione ci apporti giorni migliori; perchè non sperarli più tosto dall'usurpazione? Non più dagli elargitori o dai donatori viene la salute, bensì dagli usurpatori. Il comunismo e, scientemente o inconsciamente, anche l'umanismo che impreca all'egoismo, confidano ancor sempre nell'amore.
Se la comunione è un bisogno per l'uomo e lo favorisce nei suoi intenti, non è men vero però che essa gli detterà in breve corso di tempo le sue leggi, le leggi della società. Il principio s'erige a sovrano degli uomini, diventa il loro essere supremo, il loro Dio, e come tale il loro legislatore.
Il comunismo trae le conseguenze più logiche da questo principio, si erige a religione della società, poiché l'amore è, come dice Feuerbach (quantunque non s'esprima cosi esattamente), l'essenza della società, cioè dell'uomo sociale (comunista). Ogni religione è un culto della società, è il rito di questa religione da cui l'uomo sociale (civile) viene dominato; e così nessun Dio è il Dio, esclusivo d'un singolo "io", ma sempre d'una società e d'una comunità, si chiamino esse famiglia (i Lari, i Penati) o "popolo" (Dio nazionale), o "tutti" (Dio padre di tutti gli uomini).
E cosi non si avrà modo di estirpare dalla radice la religione se non allorquando si renderà antiquata la società e, con essa, tutto ciò che scaturisce da quel principio. Ma appunto nel comunismo si vuole invece che tal principio raggiunga il suo maggior svolgimento, poiché per esso tutto deve diventar comune, per preparare l'impero dell'eguaglianza. Ottenuta l'eguaglianza non mancherà nemmeno la "libertà". Ma la libertà di chi? Della società! La società rappresenterà allora il tutto nel tutto e gli uomini non esisteranno che per i lor mutui rapporti. Sarebbe l'apoteosi dello stato dell'amore.
Ma io amo meglio esser alla mercè dell'egoismo degli uomini, che non esser soggetto ai loro "servizi d'amore", alla loro pietà, alla loro misericordia, ecc. L'egoismo ricerca "reciprocità," (quello che tu fai a me, io lo farò a te), non fa nulla per nulla, e vuol esser guadagnato e comperato. Ma chi m'assicura ch' io riesca a guadagnarmi i servigi per amore? Vorrà il caso che m'incontri in un essere animato dallo spirito d'amore? I servizi d'amore non si possono ottenere che mendicando, o per la compassione che ispira il mio aspetto, o per la mia impotenza ad aiutarmi da me stesso, o per la mia miseria — o infine per le mie sofferenze. E che potrò io dare in cambio dell'amore che mi si dimostrerà? Nulla! Sicché, sarò costretto a riceverlo come un dono. L’amore è impagabile, o per meglio dire: l’amore può essere pagato, ma soltanto con altrettanto amore ("un favore ne vale un altro"). Bisogna essere ben spudorati e miserabili per accettare continuamente dei doni, senza contraccambiarli — come si è avvezzi a fare col povero operaio che vive giorno per giorno. Che cosa può offrire colui che riceve all'operaio in cambio di quel che ne ottiene e che costituisce tutto il suo avere? All'operaio assai più gioverebbe che quegli per cui lavora perisce insieme con tutte le sue leggi e le sue istituzioni, le quali dopo tutto son pagate da lui. E con tutto ciò quel povero diavolo ama per giunta il suo padrone.
No, la comunanza, intravista quale mèta della storia, è cosa impossibile. Spogliamoci piuttosto dell' ipocrisia della comunanza e riconosciamo che se in astratto siamo tutti eguali, non siamo però in effetto tali, perchè gli uomini non sono astrazioni. Noi siamo uguali soltanto nell'idea, non nel fatto. Io sono io, e tu sei tu, ma che io non debba esser questo "io", bensì un essere la cui natura è uguale a quella degli altri, è un errore. Io sono uomo e tu sei uomo, ma "l'astratto" non è che un fantasma; né io né tu siamo esseri definibili, noi siamo indefinibili. I pensieri soltanto possono essere espressi e tradursi nell'espressione; la realtà non può essere circoscritta nelle parole. Dunque noi non dobbiamo mirare alla comunanza, ma all'unicità. Non ricerchiamo la comunità più estesa, la società umana; ma riguardiamo tutti gli uomini quali mezzi ed organi dei quali ci serviamo come d'una nostra proprietà! Forse che noi stimiamo nostri uguali l'albero o l'animale? Ebbene, anche la nostra premessa che gli altri siano uguali a noi deriva da un'ipocrisia. Nessuno è uguale a me; ciascuno dei miei simili è una mia proprietà. E si viene a dirmi ch'io devo essere un uomo tra uomini (Questione giuridica, p. 60), che io devo "rispettare" in ciascuno l'uomo! Nessuno è per me una persona che abbia diritto al mio rispetto, ma ciascuno è come ogni altro essere, un oggetto pel quale provo o non provo simpatia, un oggetto interessante o non interessante, un oggetto di cui mi posso o non mi posso valere.
Se mi è utile, io mi metterò unicamente con lui, al fine di accrescere il mio potere e di ottener con forze riunite ciò che non avrei potuto conseguire da solo. In questa comunanza io scorgo solamente una moltiplicazione della mia forza, e niente di più; e sinché rappresenterà la mia forza moltiplicata io mi atterrò ad essa. Ma allora non si tratta più di società, bensì di associazione.
L'associazione non sussiste né per vincoli naturali, né per spirituali. Non il sangue, non la fede (cioè lo spirito) le da origine. In un'unione naturale — quale la famiglia, la stirpe, la nazione ed anche l'umanità — i singoli non hanno altro valore fuorché quello d'esemplari nella medesima specie; nell'unione spirituale — quale la comunità, la chiesa — il singolo non ha altro significato che quello di membro di uno stesso spirito; in entrambe ciò ch'è tua proprietà singolare dev'essere soppresso. Quale singolo tu puoi affermarti unicamente nell'associazione, poiché non già questa possiede te, ma è da te posseduta.
Nell'associazione, in fatti, la proprietà individuale non è disconosciuta come nella società, ove quello che si possiede di proprio ci vien conferito quale un feudo da altri. I comunisti non fanno altro che recare alle ultime conseguenze questo principio che già era accorto durante l'evoluzione religiosa e particolarmente nello Stato, vale a dire il sistema feudale.
Lo Stato s'affatica a domare il cupido; in altre parole esso tende a far sé centro di tutti i desideri e a soddisfarli con ciò ch'esso offre. Soddisfare i bisogni altrui per amore non cade neppure in pensiero allo Stato; all'incontro l'uomo dai desideri sfrenati ei lo taccia d' "egoista", e l'ha per nemico. La Stato non sa "comprendere" l'egoista. Poi che esso pensa esclusivamente a sé stesso, è ben naturale che non provveda ai miei bisogni, ma che anzi miri unicamente a distruggere il mio vero essere, vale a dire a trasformarlo in qualche altra cosa, cioè in un buon cittadino. Vedetelo: lo Stato prende dei provvedimenti atti a migliorare i costumi. E in qual modo guadagna esso il singolo? Con la proprietà sua, con la proprietà dello Stato. Per ciò è incessantemente intento a rendere tutti partecipi dei "beni" dei quali essa dispone; e a tutti provvede coi "benefici della civiltà", fa loro dono della sua educazione, apre loro i suoi istituti d'incivilimento, li rende atti ad acquistarsi delle ricchezze, vale a dire dei feudi, mediante le industrie, ecc. Per tutti questi feudi esso non domanda che perpetua riconoscenza. Ma gli "ingrati" dimenticano di dimostrare la loro gratitudine.
E neanche alla società è dato di far opera essenzialmente diversa da quella dello Stato.
Nell'associazione tu rechi tutta la tua forza, ogni tuo valore: nella società, in vece si sfrutta il tuo lavoro. Nella prima tu vivi egoisticamente, nella seconda umanamente, cioè religiosamente, e vi rappresenti un "membro del corpo del Signore". Alla società tu sei in debito di ciò che hai, e le devi in tutto esser tenuto, mentre l'associazione tu la sfrutti e l'abbandoni senza obbligo alcuno, quando più non ti giova. Se la società conta più di te, essa ti dominerà: l'associazione non è invece che un tuo strumento, è la spada mercé la quale tu accresci ed affini la tua forza.
L'associazione sussiste per te e per causa tua, la società invece ti incorpora in sé medesima e vive anche senza di te. In breve la società è sacra, l'associazione è una tua proprietà; la società sfrutta te, l'associazione è da te sfruttata.
Ma ci si obietterà che anche un patto concluso liberamente può riuscir molesto e limitare la nostra libertà. Si dirà che anche così giungeremo alla stessa conseguenza che ognuno sarà obbligato di "sacrificare una parte della sua libertà all'universale".
Fosse pure: il sacrificio non sarebbe consumato per l'amore dell'universale, ma per l'interesse proprio. Quanto poi al sacrificare, al postutto io non sacrifico che quello che non sta in mio potere, cioè non sacrifico in realtà nulla.
Per ritornare all'argomento della proprietà, proprietario è il padrone. Scegli dunque: vuoi essere tu, o preferisci che sia la società, il padrone? Dalla tua scelta dipenderà l'esser un proprietario o un pitocco! L'egoista è proprietario, il socialista un pitocco. Ma la pitoccheria è il contrassegno del feudalismo, del vassallaggio, che dal secolo passato ad oggi non ha che cangiato di padrone col mettere "l'uomo al posto di Dio" e coll'accettare in feudo dall'uomo quello che prima teneva per grazia di Dio. Che la pitoccheria del comunismo mediante il principio umanistico debba giungere all'estremo l'abbiamo dimostrato più sopra ma dimostrammo anche come solo in tale modo la pitoccheria potrà trasformarsi in proprietà. L'antico sistema feudale fu cosi bene abbattuto dalla rivoluzione, che d'allora in poi ogni astuzia reazionaria restò e resterà senza frutto, poiché ciò ch'è morto — è morto. Ma anche la risurrezione doveva dimostrarsi quale una verità nella storia cristiana e tale si rivelò. Poiché nel di là il feudalismo è risorto trasfigurato nelle forme corporee, è risorto mutato a nuovo con la sovranità "dell'uomo".
Il Cristianesimo non è distrutto (1 pur troppo!). Hanno ragione i credenti di serbare tenacemente la convinzione che ogni lotta contro di esso sia giovata a purificarlo e a rafforzarlo: poiché in realtà il Cristianesimo è uscito dalla lotta trasfigurato e il neo-cristianesimo è la dottrina dell'uomo. Noi viviamo ancor sempre in una età cristiana e coloro che più sentono dispetto di ciò, concorrono meglio degli altri a "perfezionare il principio cristiano". Più il feudalismo s'è venuto umanando, e più esso ci riesce accetto, come una nostra proprietà; sicché con la scoperta dell'umano ci pare d'aver trovato ciò che ci è più intimamente proprio.
Il liberalismo intende a darmi quello ch'è mio, ma non già col titolo di mio, bensì con quello d' "umano". Come se fosse possibile ottener ciò sotto quella maschera! I diritti dell'uomo, la preziosa opera della rivoluzione, significano che in me e l' "uomo" e che la mia natura mi autorizza a fare questa o quest'altra cosa. Ma io, quale singolo, non ho tale diritto; l'ha l'uomo, e lo conferisce a me. Ma se voi volete attribuire un valore ai vostri doni, date loro almeno un prezzo elevato, non tollerate che vi si costringa a cederli per vil somma, non vi lasciate persuadere che la vostra mercè non vale il prezzo richiesto, non rendetevi oggetto di derisione col cedere il vostro per poco prezzo bensì imitate il valoroso che dice: "Io voglio vender cara la mia vita: la mia proprietà i nemici non l'avranno a buon mercato". Così conducendovi voi avrete riconosciuto per giusto precisamente il principio opposto a quello del comunismo, e allora non vi si dirà: " Rinunziate alla vostra proprietà " ma invece: "Sfruttate la vostra proprietà! "
Sulla soglia dei nostri templi non sta la leggenda apollinea: "Conosci te stesso" bensì quest'altra: "Sfruttate la vostra proprietà".
Proudhon chiama la proprietà un "furto" (vol). Ma si tratta della proprietà degli altri — e di questa sola egli parla. Una proprietà che deve la sua esistenza al sacrificio e alla rinunzia, è un dono. Perchè dovremo far appello alla pietà del prossimo, quando per la nostra stoltezza non sappiamo che farci dei doni? Perchè addossare agli altri la colpa, quasi che essi ci abbia " spogliati, mentre la colpa è tutta nostra se non spogliamo gli altri. I poveri hanno essi colpa se vi sono dei ricchi?
Del resto l'oggetto di disputa è sempre la proprietà degli altri. Ciò che é argomento a discussione è sempre il trapasso della proprietà. Invece di mutar ciò ch'è estraneo in proprio, si finge l'imparzialità e si esige che ogni cosa debba appartenere ad un terzo — un ente (p. es. la società). E con ciò ci si illude di cancellar l'impronta egoistica, e ai nostri occhi tutto diventa puro ed umano!
Pitoccheria, ecco l'"essenza del Cristianesimo" come in generale quella d'ogni religione (pietà, moralità, umanità) e con maggior evidenza quella della "religione assoluta", che divenne il lieto annunzio d'un vangelo capace di attuazione. Lo svolgimento più caratteristico di questo principio l'abbiamo nella lotta odierna contro la proprietà: una lotta che deve condurre l'uomo alla vittoria e abolire la proprietà stessa. La vittoria sperata sarà il trionfo del Cristianesimo. Ma questo "nuovo Cristianesimo" la perfezione del feudalismo: un feudalismo che abbraccerà ogni cosa: dunque una pitoccheria perfetta.
Ci si dirà: ma voi volete una nuova rivoluzione contro il feudalismo.
Ecco. Rivoluzione e insurrezione non sono la stessa cosa. Quella consiste in un cangiamento violento delle condizioni dello Stato e della società, è adunque un atto politico e sociale, la insurrezione per contro ha certamente per inevitabile conseguenza un cangiamento dello stato di cose esistente, ma deriva dall'interno malcontento dell'uomo — non è un'alzata di scudi, bensì una rivolta del singolo, una sollevazione che non ha riguardo alle nuove condizioni che ne potranno seguire.
La rivoluzione aveva per fine di sostituire nuove istituzioni alle antiche; l'insurrezione conduce invece a non tollerare istituzioni che ci governino, e ad ottenere il diritto di governarci da noi stessi. Essa é una lotta contro l'esistente stato di cose, poiché se vittoriosa, questo stato di cose ruina da sé. Se io mi stacco dallo stato di cose esistente, questo stato perisce e si dissolve.
Ma siccome il mio intento non è di rovesciare ciò che esiste, si invece di sollevarmi al disopra di quello, così le mie idee ed i miei atti non sono né politici né sociali; sono per contro, poiché hanno di mira unicamente me stesso e la mia proprietà, egoistici: ecco tutto.
Creare delle istituzioni è il compito della rivoluzione: sollevarsi ed innalzarsi è quello della insurrezione. Quale costituzione sia da prescegliersi è questione che occupa la mente dei rivoluzionari, e tutto il periodo politico ribocca di lotte e di questioni costituzionali, e tutti gli ingegni sociali son fervidi nell'inventare nuove istituzioni sociali (falansteri, ecc.). Esistere senza costituzione ecco quanto ha di mira invece chi insorge [(1) (Nota dell'Autore Per non incorrere in un'accusa penale osserverò espressamente, sebbene ciò mi sembri superfluo, che la parola "insorgere" è da me adoperata nel suo senso etimologico e non già nel significato limitato accettato dal Codice penale).].
Mentre per rendere più chiaro il mio concetto penso ad un raffronto, ecco che mi soccorre spontaneo l'esempio dell'istituto cristiano. I liberali non vogliono perdonare al Cristianesimo d'aver predicata l'obbedienza all'ordine di cose pagano vigente, d'aver consigliato di riconoscere le autorità pagane e insegnato a dare a "Cesare quello che è di Cesare". Quanto fermento era a quei tempi contro l'impero romano, come ardenti rivoluzionari si dimostravano gli ebrei e gli stessi Romani contro il lor proprio governo civile, in breve quanto era di moda il malcontento politico! Ma di ciò i cristiani non volevano saperne; essi non volevano associarsi alle "tendenze liberali". I tempi erano politicamente tanto agitati che, come si osserva negli evangeli, si ritenne non vi fosse più sicuro modo di perdere il fondatore del Cristianesimo che l'incolparlo di raggiri politici. E pare gli stessi evangeli ci dimostrano che nessuno meno di lui prese parte a quelle agitazioni. Ma perchè mai non fu egli un rivoluzionario, un demagogo — come avrebbero desiderato gli ebrei ; perchè insomma non fu un liberale? Perchè egli non attendeva salute da un cangiamento delle condizioni esistenti, e tutto l'ordinamento d'allora gli era affatto indifferente.
Egli non era un rivoluzionario, come Cesare, bensì un insorgente; non uno che rovesciava gli Stati, bensì uno che innalzava stesso. Perciò egli attribuiva la massima importanza al precetto: "Siate astuti come serpi", che può servire di spiegazione a quello già menzionato di "dare a Cesare quello che è di Cesare". Egli non aveva impreso a movere una lotta liberale o politica contro l'autorità esistente, bensì voleva camminare per la propria via, ignorando quell'autorità ed essendo da essa ignorato. Non meno del governo gli erano indifferenti i nemici dello Stato, poiché quello che egli voleva né l'uno né gli altri potevano comprendere, ed egli non aveva bisogno che dell'astuzia del serpe per tenergli entrambi lontani. Ma se non era un agitatore del popolo, un demagogo e un rivoluzionario, egli era nondimeno, come furono tutti i primi cristiani, in tanto maggior grado un insorgente in quanto s'innalzava al disopra di tutto ciò che agli occhi del governo e dei nemici del governo appariva elevato, e si svincolava da tutto ciò da cui quelli erano legati, e disseccava un tempo le fonti vitali di tutto il mondo pagano, mancando le quali lo Stato d'allora era costretto a perire. Appunto perchè non credeva alcun modo di rovesciare lo stato di cose esistenti, egli ne fu in effetto il nemico mortale e il vero distruttore ; poiché lo murò, e sopra di esso eresse animosamente e senza scrupoli l'edifìzio del suo tempio.
Ebbene l'ordinamento cristiano avrà la stessa fine del pagano? Una rivoluzione non ci mostrerà certamente questa fine, se non è preceduta da una vera insurrezione !
A che tendono i miei rapporti col mondo? Io voglio godere del mondo: esso deve dunque diventare proprietà mia, e perchè sia tale, mi è d'uopo conquistarlo. Io non voglio la libertà, l'eguaglianza degli uomini; io voglio unicamente aver dominio su di loro, voglio ridurli in mia proprietà, cioè sfruttarli. E se ciò non mi riesce fatto, ebbene, coloro che riservarono a sé stessi il potere sulla morte e la vita, sulla Chiesa e sullo Stato, io li chiamerò anch'essi mia proprietà.
Bruttate pure d'infamia la memoria di quella vedova d'un officiale, che nella ritirata dalla Russia, quando un colpo di cannone le spezzò una gamba, disciolse il legaccio e con essi strangolò il suo bambino vicino al quale mori dissanguata — macchiate pure d'obbrobrio la memoria dell'infanticida. "Chi sa se quel bambino, rimasto in vita, sarebbe stato utile al mondo? La madre lo uccise perchè voleva morire soddisfatta e tranquilla." Cosi voi dite; ma di quest'esempio io mi valgo invece per dimostrare che la mia soddisfazione decide dei miei rapporti cogli uomini, e che non v'ha principio religioso che possa farmi rinunciare al mio potere di vita e di morte.
Per ciò che riguarda in genere i "doveri sociali", nessuno conferisce a me quella qualunque condizione in cui io mi trovo in rapporto agli altri; né Dio né gli uomini mi prescrivono il sistema di condotta ch'io devo serbare; io stesso m'assegno il mio posto. Per parlar più chiaro: io non ho alcun dovere verso gli altri, meglio che non ne abbia verso me stesso, salvo che io distingua in me due parti di cui l'una abbia obblighi verso l'altra (la mia anima immortale dalla mia esistenza terrestre, ecc.).
Io non mi umilio più innanzi a nessuna forza, riconosco che tutte le potenze finiscono ad essere la mia potenza, e che io le devo render tutte immediatamente a me soggette, quando esse tentano di diventare forze contro di me o sopra di me. Tutte codeste potenze null'altro devono essere per me fuorché mezzi per raggiungere i miei fini; come è un mezzo il cane nella caccia della selvaggina il che non mi vieta d'ucciderlo senza scrupoli se esso mi assale. Tutte le potenze che mi dominano io devo ridurle in mio dominio. Gli idoli non esistono che per mia volontà: basta che io non li crei nuovamente ed essi più non esisteranno: le potenze superiori cesseranno di essere il giorno che io più non le innalzerò sopra di me.
Così che il mio rapporto col mondo è questo: io nulla debbo più fare in suo vantaggio per l'amor di Dio, nulla per "amor dell'uomo", ma tutto per amor mio. A questa guisa soltanto il mondo può soddisfarmi, mentre nel rispetto religioso (del quale è parte anche il morale e l'umanistico) tutto si riduce ad un pio desiderio irraggiungibile. Tali la felicità universale degli uomini, il mondo morale governato dall'amore universale, la pace perpetua, la cessazione dell'egoismo, ecc. "Nulla in questo mondo è perfetto". Con questo vano aforisma i buoni si separano dal mondo e rifuggono nella loro stanzuccia a rivolgere i loro pensieri a Dio, o trovano la quiete soltanto nella "coscienza di sé stessi".
Ma noi invece siamo lieti di restare in questo mondo "imperfetto" — poiché cosi ce ne potremo servire per il nostro diletto.
Le mie relazioni col mondo consistono in ciò: che io lo sfrutto per la mia gioia.

Max Stirner

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