martedì 6 agosto 2013

I MODERNI

L'unico e la sua proprietà  
Parte prima: L'UOMO  
Capitolo 2
§ 1
§ 2




1.  — I MODERNI.
"Se uno va con Cristo, diviene una nuova creatura; l'antico è passato, ecco tutto s'è rinnovato" [(1) Cor, 5, 17.].
Se più sopra fu detto: "Per gli antichi il mondo era una verità", ora noi dobbiamo dire: "pei moderni lo spirito era una verità ", però, qui come là, non dobbiamo omettere di soggiungere: una verità di cui cercavano ed anche giunsero a scoprire la falsità.
Il Cristianesimo seguì una via non dissimile da quella percorsa dall'antichità. In tutta l'età di mezzo infatti l'intelletto fu tenuto prigioniero dei dogmi cristiani, ma nel secolo che precedette la riforma si ribellò col sofismo e si prese gioco sacrilego di tutti gli articoli di fede. E in pari tempo si diceva, principalmente in Italia ed alla Corte di Roma; purché si serbi cristiano il cuore, l'intelletto può scapricciarsi a suo bell'agio.
Già molto prima della riforma erano cosi frequenti le dispute cavillose che il papa e i più ritennero che anche l'apparizione di Lutero si dovesse risolvere in una "disputa di frati".
L'umanesimo corrisponde alla sofistica, e nello stesso modo che nell'età dei sofisti la vita greca trova vasi nella sua maggiore floridezza (secolo di Pericle), cosi il massimo splendore rifulse nel secolo dell'umanesimo, o, come si potrebbe anche dire, del machiavellismo (invenzione della stampa, scoperta del nuovo mondo, ecc.). In quel tempo al cuore era ignoto ancora il desiderio di liberarsi dal suo contenuto cristiano.
Ma la Riforma, al pari della filosofia socratica, mosse guerra seriamente al cuore e da allora i cuori divennero, a tutta evidenza, sempre più anticristiani. Avendo incominciato con Lutero a por mente alla cosa, la riforma doveva condurre inevitabilmente il cuore a liberarsi dal grave pondo della cristianità. Il cuore, facendosi di giorno in giorno meno cristiano, perde il contenuto che l'occupava, sino a tanto che non gli resterà altro fuorché la pura virtù sua sostanziale, la cordialità, l'amore universale, l'amore dell'uomo, il sentimento della libertà, la "coscienza di sé stesso".
Ora soltanto può dirsi che il cristianesimo è perfetto, perchè è divenuto arido, privo di vita e di contenuto. Ora non si ha più alcun contenuto al quale il cuore non si ribelli, eccetto il caso che inconsciamente ci se ne lasci sorprendere. Il cuore fa la critica d'ogni cosa, di tutto ciò che mostra di voler insinuarsi in lui, con una crudeltà spregiudicata e non è capace di alcuna pietà (se non inconsciamente o di sorpresa). Del resto, v'ha egli cosa che si possa amare negli uomini, dacché tutti sono "egoisti" e nessuno è l'uomo come tale, vale a dire "un puro spirito"? Il cristiano non ama che lo spirito; ma dove si troverebbe qualcuno che non fosse proprio null'altro che spirito?
Amare un uomo di carne ed ossa non sarebbe degno d'un puro cuore, sarebbe piuttosto un tradimento della purezza del cuore, dell' "interesse teoretico". Giacché non si deve credere che la cordialità assomigli a quella giovialità che stringe ad ognuno la mano; ben all'opposto la pura cordialità non è cordiale con nessuno, essa non è che un interesse platonico per l'uomo come uomo, ma non già come persona. La persona le ripugna per il suo " egoismo ", perchè non è l'uomo, o meglio non è l'uomo ideale. E l'interesse teoretico non esiste che per l'idea. Per la pura cordialità o per la pura teoria gli uomini non esistono se non per essere criticati, scherniti e profondamente disprezzati; sono per esse quello che sono pel prete fanatico; fango e null'altro che fango.
Giunti cosi all'apogeo della cordialità apatica, dobbiamo pur infine accorgerci che lo spirito, il quale solo è amato dal cristiano, non esiste, o che questo spirito è una menzogna, Ciò che qui abbiamo esposto concisamente e in modo forse poco intelligibile, si schiarirà, speriamo, successivamente.
Accettiamo l'eredità lasciataci dagli avi, e da buoni lavoratori ricaviamone ciò che se ne può ritrarre. Il mondo giace ai nostri piedi, vilipeso, molto al disotto di noi e del nostro cielo al quale le sue braccia più non si tendono e cui non giunge più il suo alito che i sensi hanno ammorbato.
Per quante seduzioni ponga in opera, esso non può abbagliare che i nostri sensi, ma lo spirito — e noi in verità non siamo che spirito — non gli riesce d'ingannarlo. Così favella la " libertà spirituale ". Poi che pervenne alla compiuta conoscenza delle cose, lo spirito si elevò sopra di esse, si sciolse dai legami che lo tenevano avvinto, ed ora spazia libero nell' infinito.
Allo spirito, che dopo tante fatiche si è sottratto alla schiavitù del mondo, poi che rinnegò le cose terrene e la materia, null'altro rimane se non ciò ch'è spirituale. E tuttavia, come soltanto ci si è straniato dal mondo ma non l'ha potuto distruggere, così nel mondo egli continua a vedere un perenne ostacolo, un triste ente e si strugge nel desiderio di spiritualizzarlo, e concepisce e accarezza per esso, con giovanile baldanza, disegni di riforme, di miglioramenti, di redenzione.
Gli antichi erano, come vedemmo, asserviti alla materia e all'ordine naturale delle cose; ma di continuo si travagliano per sottrarsi a un tal dominio, in impeti sovrumani di ribellione senza posa rinnovellati; infine dal loro gemito supremo nacque il "Dio, vincitore del mondo". Tutta l'operosità della persona era rivolta alla conoscenza del mondo, e svolgevasi in un perpetuo intento di penetrarne il mistero e di oltrepassarlo. E quale è la sapienza dei molti secoli succedutisi? Che cosa cercarono di scoprire i moderni? Il mistero del mondo non più giacché l'avevano svelato gli antichi, bensì il mistero di Dio, loro da quelli legato, del Dio ch'è "spirito di tutto ciò che appartiene allo spirito, ch'è spirituale".
L'attività dello spirito, che "investiga persino gli abissi della divinità" ha nome teologia. Se gli antichi null'altro ci possono insegnare che la loro filosofia naturale, i moderni non arrivarono né arriveranno mai più in là della teologia. Noi vedremo più tardi che persino le più recenti ribellioni contro Dio null'altro sono infine che i più disperati sforzi della teologia, insurrezioni teologiche dunque.



§ 1. — Lo SPIRITO.
Immenso è il regno degli spiriti e innumerevoli cose comprende.
Vediamo dunque che sia questo spirito che i nostri vecchi ci lasciarono in retaggio.
Essi lo generarono tra i dolori, e pur non seppero riconoscersi in lui: gli dettero la vita, ma non gli appresero la parola che doveva pronunciare solo egli. Il "Dio nato" il figlio dell'uomo profferisce, primo, la massima che lo spirito, cioè egli, Dio, nulla ha a che fare col mondo e coi suoi rapporti, ma solamente conosce sé stesso e ciò che gli si attiene.
Il mio coraggio inalterabile in mezzo a tutti i colpi della sorte, la mia incrollabilità, il mio spirito d'indipendenza, e forse tutto ciò "spirito" nel pieno suo senso ? In tal caso mi troverei ancora nello stato di lotta col mondo, ed unico mio intento sarebbe di non soccombere a lui! No, prima ch'egli non s'occupi che di sé stesso, del suo mondo, del mondo spirituale, lo spirito non è il libero spirito, ma solamente lo spirito di questo mondo, che alle cose del mondo è avvinto. Egli è spirito libero, cioè effettivamente spirito, soltanto nel mondo suo proprio; in questa terra egli è uno straniero. Soltanto in grazia d'un mondo spirituale lo spirito è spirito realmente, giacché il mondo de' sensi gli è ignoto.
Ma donde, se non da lui stesso, deve venirgli cotesto mondo spirituale? Egli deve rivelarsi; e le parole che pronuncia, le manifestazioni del proprio essere, compongono il suo mondo. Come l'uomo fantasioso vive solo nelle immagini da lui create e di quelle compone il suo regno; come il pazzo s'edifica un mondo formato di sogni, senza il quale egli cesserebbe d'esser pazzo; così lo spirito è obbligato a crearsi un dominio spirituale, e prima che questo non sia creato egli non è spirito.
Sicché le sue creazioni fanno di lui uno spirito, e dalle creature si manifesta in lui il creatore; in esso egli vive, esse formano il suo mondo.
Che cosa è dunque lo spirito? E’ il creatore d'un mondo spirituale! Anche a me ed a te si riconosce lo spirito quando si vede che ci siamo appropriate cose spirituali, vale a dire che abbiamo dato vita ai pensieri, quando pure ci sian stati suggeriti; nella nostra infanzia se pur ci avessero suggeriti i pensieri più edificanti sarebbe a noi mancata e la volontà e la facoltà di riprodurli.
Così dunque lo spirito non esiste se non quando crea cose immateriali; la sua vita è associata a ciò ch'egli ha creato.
Siccome noi lo riconosciamo dalle sue opere, vale la pena di domandarci in che queste consistono.
Orbene, le opere o le creature dello spirito null'altro sono che spirito.
Se io m'avessi dinanzi degli ebrei, ma di quei genuini, io qui dovrei far punto e lasciarli dinanzi a questo mistero, che per quasi duemila anni li trovò increduli e indifferenti. Ma siccome tu, mio caro lettore, difficilmente sarai un ebreo puro sangue, — che se tale fossi, non avresti perduto il tempo a seguirmi sin qui — noi vogliamo fare insieme ancora un tratto di cammino, sino a che forse anche tu mi volgerai le spalle, vedendo ch'io ti rido sul viso.
Se qualcuno ti dicesse che tu sei tutto spirito, tu ti tasteresti il corpo, e gli risponderesti incredulo: "Io possiedo, bensì, dello spirito, ma non esisto solo come spirito; sono anche un uomo in carne ed ossa". Tu faresti ancor sempre una distinzione fra te ed il tuo "spirito". Ma ribatte colui, tu sei destinato, quantunque inceppato per ora dai vincoli del corpo, a diventare un giorno "uno spirito beato", e comunque tu possa rappresentarti l'aspetto futuro di questo spirito, non è men vero che morendo tu dovrai spogliarti del corpo e tuttavia tu continuerai ad esistere e ad esistere in eterno; adunque lo spirito solo in te è eterno e vero, il corpo non è altro che una dimora provvisoria, che tu dovrai abbandonare e mutar con un'altra.
Adesso tu gli presterai fede? Per ora tu non sei ancora soltanto spirito, ma allorquando sarai costretto ad emigrare dal tuo corpo mortale, tu dovrai far di meno del corpo, perciò è necessario che tu preveda per tempo una tale eventualità e provveda per tempo al tuo vero "io". "Che cosa gioverebbe all'uomo se conquistasse l'intero mondo e nondimeno recasse danno all'anima sua!"
Ma anche ammesso che i dubbi sollevati in corso di tempo contro i dogmi cristiani, ti abbiano tolta da lunga pezza la fede nell'immortalità del tuo spirito, un dogma per te è rimasto intatto e intangibile, una verità alla quale resti sempre devoto, che cioè lo spirito è di te la miglior parte e che le cose spirituali hanno verso di te maggiori diritti di ogni altra cosa. Se pur ateo, ti trovi d'accordo con chi crede alla immortalità nello zelo contro l'egoismo.
Ma quale idea ti sei formata dell'egoista? Un uomo, il quale anziché vivere per un'idea, cioè per qualcosa di spirituale, sacrificandole il proprio vantaggio, serve invece a quest'ultimo.
Un buon patriota, ad esempio, sacrifica tutto sull'altare della patria; e che la patria sia una idea è una cosa indiscutibile, poiché gli animali irragionevoli ed i bambini ancor privi di spirito non conoscono ne patria né patriottismo. Se adunque qualcuno non si dimostra buon patriota, egli rivela nei suoi rapporti colla patria il suo egoismo.
E cosi è in numerosissimi casi; chi nella società umana si arroga e sfrutta un privilegio è reo d'egoismo e pecca contro la idea dell' uguaglianza; chi esercita un dominio è un egoista che pecca contro la idea della libertà, e così via.
E appunto perciò tu disprezzi l'egoista, dacché egli pospone lo spirituale al personale, e non pensa che a sé stesso quando tu vorresti vederlo operare per amor d'un'idea. Voi vi distinguete in ciò, che centro per te è lo spirito, per lui il suo proprio essere, ovvero che tu sdoppi il tuo io, facendo dello spirito il vero "io", padrone del resto che ha minor valore, mentre egli non vuol saperne di codesto sdoppiamento, curando i suoi interessi spirituali o materiali come meglio gli piace e gli giova.
Tu credi di biasimare soltanto coloro che non sanno comprendere il puro interesse spirituale, e invece tu imprechi a tutti quelli che non vedono nell'interesse spirituale ciò "che vi é di più vero e sublime". Paladino d'una tale bellezza, tu giungi a tanto da negare al mondo sia altra bellezza. Tu non vivi per te stesso, bensì per il tuo spirito e per tutto ciò che viene dallo spirito, cioè per le idee.
Siccome lo spirito non esiste se non in quanto crea, vediamo quale sia la sua creazione prima.
Compiuta questa, altre naturalmente ne seguono, al modo stesso che secondo la mitologia bastava creare i primi uomini perchè la stirpe si propagasse da sé. Ma la prima creazione deve sorgere "da nulla": lo spirito per attuarla nulla possiede all'infuori di se stesso, o, per meglio dire, egli non possiede ancora nemmeno se stesso, ma deve formarsi: sicché la sua prima creazione è esso stesso, lo spirito.
Per quanto ciò possa sembrar mistico, a noi lo insegna l'esperienza quotidiana. Sei tu forse un pensatore, prima d'aver pensato? Col creare il primo pensiero tu crei te stesso, il pensatore; poi che tu non pensi prima di pensare, vale a dire, prima d'aver un pensiero. Non è forse il tuo canto che fa di te un cantore, la parola che fa di te un essere parlante? Ebbene, nello stesso modo, la creazione d'una cosa spirituale fa di te uno spirito.
Ma alla guisa stessa che tu distingui te dal pensatore, dal cantore e dal parlatore, così ti distingui anche dallo spirito, sentendo molto bene che tu sei ancora oltre che spirito qualche altra cosa; ma come all' "io" che pensa nell'entusiasmo nel pensare va mancando il senso dell'udito e della vista, cosi anche tu, nell'entusiasmo dello spirito, desideri con tutte le tue forze di essere solamente immateriale e di obliare ogni altra cosa. Lo spirito è il tuo ideale, ciò che ancora non fu raggiunto, ciò che si trova oltre ogni confine; lo spirito si chiama per te Dio, "Dio è lo spirito".
Contro tutto ciò che non è spirito tu lasci libero corso al tuo sdegno, e così anche contro te stesso perché non sai liberarti da ogni cosa materiale. Invece di dire "Io sono più che uno spirito" tu dici, tutto compunto : "Io sono da meno che uno spirito, e lo spirito, il puro spirito, io non posso che immaginarlo, ma non esserlo, e poiché io non lo sono, dev'esserlo un altro, esistere come tale un altro, che io chiamo " Dio ".
E proprio della natura delle cose, che lo spirito che deve esistere puramente per sé, deve essere uno di là; e siccome l'uomo non può essere immateriale del tutto, il puro spirito, lo spirito come tale, non può essere che fuori dell' uomo, fuori del mondo umano; dunque non sulla terra, ma in cielo.
Soltanto da questo disaccordo tra l'io e lo spirito, soltanto perchè l'io e lo spirito non significano una sola e medesima cosa, bensì dimostransi del tutto differenti tra loro, soltanto perchè l'io non è lo spirito e lo spirito non è l'io, sorge logicamente la necessità che lo spirito debba avere stanza al di là, debba essere " Dio ".
Ma con ciò si dimostra pure quanto prevalentemente teologica è la redenzione di cui ci vuole regalare il Feuerbach [(1) Essenza del Cristianesimo.] Egli dice cioè che noi abbiamo soltanto misconosciuto il nostro vero essere, e che perciò l'abbiamo cercato nel di là, ma ora, poiché siano convinti che Dio è null'altro che il nostro stesso essere umano, noi dovremo riconoscerlo per nostro e trasferirlo dal cielo alla terra. "Dio", che è spirito, è chiamato da Feuerbach, il "nostro essere". Ora, possiamo noi ammettere senza opposizione che il "nostro essere" sia posto in contrasto con noi stessi, e che noi stessi siamo divisi in un io essenziale ed in uno non essenziale? Non ricadiamo con ciò nuovamente nelle miserevoli condizioni di un esilio fuori di noi stessi?
Che cosa si guadagna, se, per cambiare, collochiamo in noi stessi la divinità ch'era fuori di noi? Siamo noi quello che è in noi ?
Non sarebbe già vero il dire che noi siamo ciò ch'è fuori di noi. Io sono tanto poco il mio cuore, quanto sono la mia amante riamata, che pure rappresenta un altro "me stesso". Noi fummo costretti a collocare lo spirito fuori di noi appunto perchè esso pur vivendo in noi non costituiva tutta la nostra sostanza: per ciò appunto noi non lo potevamo rappresentare se non fuori di noi, in un di là remoto.
Con la forza della disperazione Feuerbach s'avviticchia a tutto intero il contenuto del Cristianesimo, ma non già per ripudiarlo, bensì per avvincere a sé il lungamente desiderato, il sempre lontano, strappandolo con un ultimo sforzo al cielo, dove si trovava per possederlo così eternamente. Non è forse ciò un ultimo disperato tentativo dal quale dipende la vita o la morte, e non e in pari tempo l'ardente bramosia cristiana dell’al di là? L'eroe non vuole fare il suo ingresso nell’al di là, bensì attirarlo a sé e costringerlo a diventar cosa di questa terra ! E non grida forse d'allora in poi tutto il mondo, con maggior o minor coscienza, che il regno dei sensi è l'essenziale, e che il cielo deve venir sulla terra e deve esser vissuto già in questa vita?
Poniamo in poche parole di fronte la teoria teologica del Feuerbach e la nostra confutazione.
L'essenza dell'uomo — dice quel filosofo — è l'ente supremo dell'uomo. Orbene l'essere supremo dalla religione viene chiamato Dio e considerato in sé oggettivamente. Ma poi che in realtà esso non è che l'essenza dell'uomo, così per la storia dell'umanità incomincerà una nuova era, in cui l' uomo sarà Dio [(1) Essenza del Cristianesimo, pag.402].
E noi rispondiamo: L'essere supremo è in vero l'essere dell'uomo; ma appunto perchè è il suo essere e non lui stesso, così tanto vale considerarlo fuori di sé sotto il nome di Dio o in sé quale essere umano, quale uomo. Io non sono né Dio né l'uomo, né l'essere supremo né l'essere mio, e perciò m'è indifferente il pensare un essere in me o fuori di me. Si, noi ci immaginiamo sempre l'essere supremo fuori di noi ed in noi, poiché lo "spirito divino", secondo la fede cristiana, è pure il "nostro spirito" e dimora in noi. [(2) Vedi Rom. 8, 9; Cor. 3, 16; Giovanni 20, 22, ecc.,ecc.]
Egli ha stanza e nel cielo e in noi; noi poveri esseri non rappresentiamo che la sua "dimora"; e se il Feuerbach ci distrugge anche la sua "dimora celeste", a prezzo di quale fatica noi gli potremo dar ricetto ?
Ma tronchiamo questa divagazione (che avremmo dovuto protrarre a più tardi) per non incorrere in ripetizioni, e ritorniamo alla prima creazione dello spirito.
Lo spirito è alcunché di diverso dall'io. Ma in che cosa ne differisce?



§ 2. — GLI OSSESSI.
Hai tu mai veduto uno spirito? "Io no, ma l'ha veduto la nonna". Ecco, la stessa cosa succede a me. Io non ho veduto mai alcuno spirito; invece mia nonna ne incontrava uno ad ogni momento; sicché, per non far torto alla sincerità della nonna, mi convien credere all'esistenza degli spiriti.
Ma tra i nostri vecchi non vi eran di tali che facevano spallucce allorché la nonna favoleggiava degli spiriti che aveva veduti? Certo; ma erano increduli, liberi pensatori che gran danno recarono alla nostra santa religione. E noi ce ne accorgeremo! Su che cosa è fondata la credenza negli spiriti se non sulla fede nell'esistenza d' "esseri spirituali in generale?". E questa fede non vien forse scossa, se si permette che uomini seguaci della pura ragione ardiscano attentarvi? Come per la scemata credenza negli spiriti e nei fantasmi la stessa fede in Dio sia stata se stessa ci è insegnato dai romantici: i quali tentano di attraversarsi tali funeste conseguenze col ridestare a nuova vita il mondo dei miti e delle favole, e in modo particolare vi si adoperano di recente con la rievocazione "di un mondo superiore che penetra entro il nostro mondo", con le loro sonnambule, con le veggenti di Prevorst, ecc.
I buoni credenti ed i padri della Chiesa non prevedevano che col cessar della credenza negli spiriti dovesse mancare il terreno alla religione stessa, si che da allora in poi essa avesse a librarsi sull'aria. Chi non crede più nei fantasmi non ha che a proseguire con una certa coerenza per la sua via, per accorgersi che dietro le cose non si nasconde alcun essere sovrannaturale, alcun fantasma — o, ciò che l'ingenuità linguistica chiama con un medesimo vocabolo — alcuno "spirito".
"Gli spiriti esistono!" Guardati un po’ d'attorno nel mondo, e dimmi se da ogni cosa non si riveli a te uno spirito. Dal piccolo fiore grazioso parla a te lo spirito del creatore che l'ha formato così bello; gli astri annunziano lo spirito che li ha ordinati: dai vertici dei monti ti soffia incontro uno spirito sublime; dalle acque s'innalza a te uno spirito di bramosia; dagli uomini favellano a te milioni di spiriti. Si sprofondino i monti, appassiscano i fiori, crolli l'universo, perisca anche l'ultimo uomo — e che importa d'una cotal ruina generale? Lo spirito, l'invisibile, "vive in eterno".
Sì, su tutto il mondo passa lo spirito coi suoi brividi ! Soltanto su lui? No, il mondo stesso sembra un sinistro fantasma, l'ombra d'uno spirito. Che altro potrebbe essere un fantasma se non un corpo apparente a uno spirito reale? Ebbene, il mondo è "vano" è il "vuoto", è un' "apparenza" che inganna col suo splendore; l'unica verità sta nello spirito; il mondo non è che la figura apparente dello spirito.
Vicino e lontano, da per tutto, ti circonda un mondo di spiriti: tu sei sempre in balia delle apparizioni e delle visioni. Ogni cosa che a te si presenti, altro non è che il riflesso d'uno spirito che risiede in lei, un' "apparizione" fantastica: il mondo è per te solo un complesso di "fenomeni", dietro ai quali lo spirito fa suoi giochi.
Vorresti forse paragonarti agli antichi che vedevano gli dei dappertutto? Gli dei, mio caro moderno, non sono spiriti; gli dei non umiliano il mondo sino a ridurlo ad una parvenza, né lo spiritualizzano.
Ma per te tutto il mondo appare spiritualizzato e fatto simile a un misterioso fantasma; perciò non meravigliarti se anche in te stesso null'altro troverai che una ridda di fantasmi. Non è forse il tuo corpo ossesso da quel fantasma che tu chiami spirito; non forse quello solo è il vero, il reale, mentre il tuo corpo è cosa "passeggera, vana, una parvenza" ? Non siamo noi tutti altrettanti spettri; esseri sinistri che attendono d'essere "redenti"; non siamo noi forse "spiriti"?
Dacché lo spirito è apparso nel mondo, dacché il verbo s'è fatto "carne", il mondo s'è spiritualizzato, è diventato il regno dei fantasmi. Tu hai lo spirito, perché hai pensieri. Che cosa sono i tuoi pensieri? — esseri spirituali. — Dunque non sono cose: — No, bensì lo spirito; l'essenza di tutte le cose; ciò che in esse è di più intimo; la loro idea. — Sicché ciò che tu pensi non è semplicemente il tuo pensiero? — Ben al contrario, il pensiero è la realtà, ciò che v'é di vero al mondo; è la verità stessa; quando io penso veracemente, io penso la verità. — Io posso bensì ingannarmi sul conto della verità e disconoscerla; ma se io conosco veracemente, l'oggetto della mia conoscenza è la verità. — Sicché tu intendi perennemente a conoscere il vero? — La verità m'è sacrosanta. Può darsi, si, che io trovi imperfetta una data verità, e che la sostituisca con una migliore, ma con ciò non posso levar dal mondo la verità. Nella verità io credo, perciò la ricerco; oltre essa non v'é cosa alcuna; essa è eterna.
Sacrosanta, eterna è la verità: essa è la santità, l'eternità stessa. Ma tu, che ti lasci penetrare e guidare da codesta santità, divieni santo tu pure. Di più, la santità non è fatta per i tuoi sensi, e giammai ne troverai la traccia quale uomo sensuale, poiché essa parla alla tua fede e, più ancora, al tuo spirito: ed è anzi essa medesima uno spirito; uno spirito che parla allo spirito.
Non è cosa facile metter da parte la santità, come sostengono alcuni, che "schivano di pronunciare questa parola impropria". Qualunque sia la ragione per cui mi si taccia di egoismo, certo è che tale accusa non sarebbe possibile se non si avesse il pensiero di qualche cosa cui io debba servire con maggior zelo che non a me stesso e in cui sopra tutto io debba cercare la mia salute; di qualche cosa, insomma, di santo. E quando anche questa cosa santa rassomigli ad una cosa umana, o sia, se pur vuolsi, l'uomo stesso, non le verrà meno per ciò il carattere suo; al più la santità soprannaturale si muterà in terrestre, e la divina in umana.
La santità non esiste che per l'egoista che non conosce se stesso, per l'egoista involontario, che va sempre in cerca di ciò che a lui conviene e che pure non vede in sé stesso l'essere supremo; che non serve che a sé stesso, pur ritenendo di servire ad un essere superiore; che nulla conosce di superiore a sé stesso mentre pur si sente spinto a qualche cosa di più elevato; in breve per l'egoista che non vorrebbe esser tale, che si umilia e combatte il proprio egoismo, e in pari tempo non si umilia che "per essere innalzato", vale a dire per soddisfare il suo egoismo.
Poiché vorrebbe cessare d'esser egoista, egli cerca in cielo ed in terra esseri superiori per servirli, e sacrificar loro sé stesso; ma per quanto si agiti e si travagli, in fin dei conti egli fa tutto ciò nel proprio interesse.
Tutti gli sforzi ch'ei fa per liberarsi da sé stesso non da altro derivano che dall'istinto inconscio della propria liberazione. Perchè tu sei avvinto all'ora passata, perchè tu devi far oggi ciò che hai fatto ieri, perchè non puoi ad ogni momento trasformarti, ti senti oppresso dalle catene dello schiavo. Per questo ad ogni minuto della tua esistenza ti sorride un attimo allietante dell'avvenire; e, sviluppandoti, ti vai liberando da te stesso, cioè da quello che tu eri poco prima.
Ciò che tu sei in ogni singolo momento è tua creazione; e non vorresti perderti, tu creatore, nella tua creatura? Tu sei un essere superiore a te stesso e oltrepassi te stesso. Ma involontario egoista, tu non arrivi a conoscere che sei tu stesso quell'essere superiore, cioè che tu non sei unicamente una creatura, ma anche il creatore di te stesso. Mancando di una tale conoscenza, "l'essere superiore" ti appare come un non son che a te estraneo. Tutte le cose superiori, la verità, l'umanità, ecc., stanno al disopra di noi.
Questo ci è estraneo; ecco il segno a cui conosciamo ciò che è santo. In tutto ciò che è santo è qualcosa di "strano", cioè di straniero, nel quale noi ci sentiamo a disagio. Ciò che per me è santo non appartiene a me; e se, ad esempio, la proprietà altrui non fosse per me una cosa sacrosanta, io la considererei qual cosa mia, della quale in una occasione opportuna io potrei disporre a mio piacere; se all'opposto io riguardo come santo il volto dell'imperatore della Cina, esso rimane estraneo pei miei occhi, e perciò li chiudo quand'egli si appressa.
Perchè una verità matematica inconfutabile, la quale, secondo il significato comune della parola, potrebbe dirsi eterna, perchè una tale verità non è "santa"? Perchè non ci fu rivelata, o perché non è la manifestazione d'un essere superiore. Se col nome di verità rivelate noi non comprendiamo che le cosiddette verità religiose, noi c'inganniamo di molto, e disconosciamo il valore del concetto: "essere superiore". L'essere superiore, adorato anche sotto il nome d' "ente supremo", fu dagli atei fatto segno allo scherno. Essi distrussero l’una dopo l'altra le "prove" della esistenza di quell'Ente, senza accorgersi che abbattevano l'antico per far posto al nuovo.
Non e forse "l'uomo in sé" un essere superiore al singolo uomo; e tutte le verità, i diritti e le idee, che si svolgono dal concetto "uomo", non devono forse esser considerate e in conseguenza riguardate come sante, per essere manifestazioni e rivelazioni di quel concetto? Poiché se per taluna delle verità che sorgono in apparenza da quel concetto dovesse esser confutata, ciò non sarebbe che provare che ci fu un malinteso da parte nostra senza nulla scemare alla santità del concetto stesso e senza togliergli il carattere suo di fronte a quelle verità che ne possono esser considerate "a buon diritto" quali rivelazioni. "L'uomo" preso nella sua collettività oltrepassa ogni uomo singolo, ed è un essere universale e "superiore"; anzi per gli atei "l'essere supremo".
E allo stesso modo che le rivelazioni divine non furono vergate dalla mano propria di Dio, bensì portate a conoscenza degli uomini mediante gli "strumenti del Signore"; così anche l'essere supremo moderno non scrive di propria mano le sue rivelazioni, bensì le fa giungere a nostra conoscenza mediante i "veri uomini". Solamente, il nuovo essere supremo rivela (è giusto il riconoscerlo) un concetto più spirituale che non l'antico Dio; poiché l'antico ci veniva rappresentato sotto una forma corporea, mentre il moderno resta libero d'ogni veste materiale. Ne tuttavia gli difetta una certa corporeità, tanto più fascinante quanto più naturale; perchè altro esso non è insomma che l'uomo, anzi l'umanità intera. Il carattere fantastico dello spirito s'incarna così in una forma corporea e ridiviene popolare.
Santo è adunque l'essere supremo, e santa è ogni cosa per cui questo essere si rivela o si rivelerà; e santi coloro che riconoscono questo essere supremo e ciò ch'è suo attributo, cioè le sue rivelazioni. La cosa santa rende poi santo colui che l'adora; del pari ciò che egli fa è santo: una vita santa, un santo modo di pensare, d'agire, d'immaginare, d'aspirare, ecc.
La ricerca di quel che si debba adorare quale essere supremo non può aver importanza sino a tanto che gli avversari sono d'accordo sul punto essenziale, cioè che esiste un essere supremo al quale si deve culto e fede. Se qualcuno sorridesse di disprezzo assistendo a una controversia sull'essere supremo — come farebbe, ad esempio, un cristiano udendo disputare un Sciita con un Sunnita o un Bramino con un Buddista - ciò vorrebbe dire che l'ipotesi d'un essere supremo è per lui vana e una disputa su tale argomento una cosa assurda e inutile. Che poi il Dio uno o il Dio trino o il Dio Lutero, od infine "l' uomo", rappresentino l'essere supremo, è indifferente a chi nega l'esistenza di un tale Ente, poiché ai suoi occhi tutti quei servi d'un essere supremo non sono che gente religiosa: così il furibondo ateo, come il cristiano dalla fede cieca.
Nella santità risiede dunque innanzi tutto l'essere supremo, e la fede in lui — la nostra santa fede.

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