venerdì 9 agosto 2013

IL LIBERALISMO SOCIALISTA

L'unico e la sua proprietà  
L'UOMO  
Capitolo 3 
§ 2



Noi siamo nati liberi, pure dovunque giriamo lo sguardo ci vediamo fatti schiavi dagli egoisti!
Dovremo perciò divenir egoisti anche noi? Dio ne guardi! Piuttosto procureremo di abolire gli egoisti! Faremo si che tutti diventino straccioni, e che nessuno più possegga affinchè tutti abbiamo qualche cosa.
Cosi i socialisti.
Che volete significare con questa parola; "tutti" ? — La società! — Ma è forse essa un essere corpo reo? — Noi ne formiamo il corpo! — Voi! ma se non avete corpo voi stessi  Io sì, quegli ancor più, ma voi tutti uniti non formate corpo, sicché la società ha bensì dei corpi a sua disposizione, ma non un corpo unico e proprio. Esso non sarà mai, come la "nazione" dei politici, che uno "spirito", del quale il corpo sarà lo spettro.
La libertà dell'uomo nel liberalismo politico è l'indipendenza dalle persone, dal dominio personale, dal regime: assicurazione della singola persona contro le altre persone, in somma libertà personale.
La legge sola impera.
Ma se le persone sono divenute eguali, varia tuttavia sempre il loro potere. Eppure hanno bisogno il ricco del povero, il povero del ricco: l'uno del lavoro, l'altro del denaro.
E il bisogno non è della persona, ma della cosa che la persona ha o dà: sicché quel che conferisce valore all'uomo è ciò che egli possiede. Ebbene, nell'avere negli "averi", gli uomini sono disuguali.
In conseguenza, conclude il liberalismo socialista, nessuno deve avere, come secondo il liberalismo politico nessuno deve comandare; sicché, come lo Stato soltanto ha il diritto di comandare, così la società soltanto ha il diritto di possedere. Lo Stato, proteggendo le persone, e la loro proprietà contro le altre persone, le divide; ognuno è ed ha per sé. Chi si contenta di ciò che è e di ciò che ha si trova bene in tale condizione di cose; ma chi vorrebbe essere ed avere di più, guarda intorno a sé e vede che questo "di più" è in potere di altri. E qui egli si trova di fronte ad una contraddizione: quale persona nessuno è da meno d'un altro, eppure una tale persona ha ciò che l'altra non ha e vorrebbe avere. Ed allora egli ne inferisce che una persona può valere più d'un'altra, perchè essa ha ciò di cui abbisogna, e l'altra no; questa è povera, quella è ricca.
Dobbiamo noi (cosi egli continua ad interrogar sé stesso), dobbiamo noi far rivivere ciò che abbiamo sepolto: dobbiamo noi lasciar sussistere questa disuguaglianza delle persone, ristabilita per vie torte? No: al contrario noi dobbiamo condurre a termine ciò che fu interrotto a mezzo!
Alla nostra libertà manca ancora l'indipendenza da ciò di cui può disporre la persona d'un altro, da ciò ch'essa tiene in suo potere personale, in breve dalla "proprietà individuale". Aboliamo adunque la proprietà personale. Nessuno abbia più cosa alcuna: tutti diventino straccioni. La proprietà sia impersonale: appartenga d'ora in poi non ai singoli, ma all'associazione.
Di fronte al capo supremo, il solo che avesse diritto a comandare, noi eravamo divenuti tutti uguali, senza valore.
Di fronte all'unico e supremo proprietario — noi diventeremo ancora tutti uguali: straccioni.
Oggi un individuo può esser da un altro tenuto in conto d'un miserabile, d'un "nullatenente".
Domani cesserà anche questa valutazione, e noi saremo tanti straccioni uguali: e poiché tutti uniti formeremo la società comunista, potremo chiamarci col nome collettivo di "canaglia".
Quando il proletario avrà potuto fondare la "società" dei suoi sogni, mercé la quale sarà tolta per sempre la distinzione tra poveri e ricchi, allora egli sarà uno "straccione", la qual cosa non toglie però che egli possa far assorgere questo appellativo a un titolo onorifico, come la rivoluzione ha fatto della parola "borghese". Lo straccione è l'ideale del proletario e noi tutti dobbiamo diventare straccioni.
Ecco, nell'interesse dell' "umanità", il secondo furto fatto alla proprietà personale. Non si lascia al singolo né il comando né la proprietà; l'uno fu preso dallo Stato, la Società prenderà l'altra.
Siccome nella società privata si fanno sentire le miserie più opprimenti, cosi gli oppressi, cioè gli appartenenti alle classi sociali inferiori, pensano che la colpa ne risieda nella società, e si accingono in conseguenza al compito di scoprire la società quale dov'essere realmente.
Ed è antica illusione questa: che la causa d'un male la si ricerchi in tutti gli altri piuttosto che in noi stessi: nello Stato, nell'egoismo dei ricchi, ecc., mentre è colpa nostra, e nostra soltanto, se esiste uno Stato e se esistono i ricchi.
Le riflessioni e le conclusioni del comunismo sono in apparenza molto semplici.
Come le cose stanno adesso, cioè nelle condizioni politiche presenti, gli uni, che sono la maggior parte, si trovano svantaggiati rispetto ad altri, che sono la parte più esigua. In questo stato di cose, quelli stanno bene, questi male.
Perciò è necessario abolire il presente stato di cose, cioè lo Stato (Status). E che cosa si metterà al suo posto ? Invece del bene dei singoli — il bene generale il bene di tutti.
Con la rivoluzione la borghesia divenne onnipotente ed ogni disuguaglianza fu tolta con l'elevare o l'umiliare ciascuno alla dignità di cittadino: l'uomo del popolo fu innalzato, — il nobile degradato: il terzo Stato divenne l'unico Stato vale a dire lo Stato comprendente tutti i cittadini. Ora il comunismo afferma a sua volta: la nostra dignità e la nostra ragion d'essere non sono già in ciò che noi tutti siamo gli uguali figli dello Stato, tutti nati con gli stessi diritti al suo amore ed alla sua protezione, bensì in ciò che noi tutti dobbiamo vivere l'uno per l'altro.
Questa è la nostra uguaglianza, in ciò solo siamo uguali: io, e tu, e voi, tutti insomma lavoriamo l'uno per l'altro. Dunque la nostra uguaglianza è in ciò che ciascuno di noi è un lavoratore. A noi non importa d'essere cittadini, né della condizione che come tali abbiamo; ma si, invece, d'esser l'uno per l'altro, cioè che ognuno di noi non esista che per il suo simile, si che io provveda ai vostri interessi, e voi, alla vostra volta, vi curiate dei miei.
Il tale lavora, per farmi un vestito quale sarto, io penso a divertirlo quale autore drammatico o quale funambolo, ecc., egli pensa alla mia alimentazione, io alla sua istruzione, ecc.
Dunque nell'essere lavoratori consiste la nostra dignità e la nostra uguaglianza.
Quali vantaggi ci offre lo Stato borghese? Carichi! E come vi è considerato il nostro lavoro?
Più basso che sia possibile! Eppure il lavoro rappresenta l'unico nostro valore; l'esser lavoratori è il più alto titolo nostro, il più importante di tutti, e per ciò deve essere da noi fatto valere e dovrà esser riconosciuto nel suo vero valore. Che cosa potete voi opporci? Null'altro che il lavoro.
Soltanto in ragione del vostro lavoro o per le vostre prestazioni noi vi dobbiamo una ricompensa, non già dunque perchè voi esistete, o per ciò che voi siete, ma per quello che siete per noi.
Su che cosa fondate le vostre pretese verso di noi? Forse sulla vostra nascita illustre? No, ma soltanto sul fatto che voi operate cose a noi gradite o sgradite. Ebbene, sia pure cosi: voi non terrete conto di noi che per l'utilità che vi recheremo; e noi adopreremo con voi allo stesso modo.
Le prestazioni determinano il valore, in quanto esse abbiano qualche pregio; dunque i lavori che anno un valore reciproco che sono utili alla collettività. Ciascuno rappresenta agli occhi d'un altro un operaio.
Colui che produce cosa utile non è da meno di chi che sia: dunque tutti i lavoratori (sempre — s'intende — nel senso di lavoro reciprocamente utile, di lavoro comunista) sono uguali tra loro.
Ma siccome il lavoratore ha diritto alla mercede che gli compete, così anche la mercede sia uguale.
Sino a tanto che la fede bastava all'onore ed alla dignità dell'uomo, nulla si poteva obbiettare contro il lavoro per quanto grave esso fosse, dacché esso non distoglieva l'uomo dalla sua fede.
Per contro oggi, per l'aspirazione dell'uomo ad esser veramente uomo, obbligarlo ad un lavoro macchinale val quanto renderlo schiavo. Se l'operaio d'una fabbrica è obbligato a logorare le sue forze per dodici ore o anche più, le sue aspirazioni di umana dignità sono deluse. Ogni lavoro deve aver per fine di rendere soddisfatto l'uomo. E così nel lavoro, quale ch'esso sia deve esser concesso ad ognuno di poter diventare maestro, cioè di creare un'opera che sia un tutto. Quegli che in una fabbrica di spille non ha altro compito che d'attaccarvi le capocchie, o di stirare il filo di ferro, ecc., quegli lavora meccanicamente, e resterà sempre un operaio ignorante senza poter mai diventare un maestro; il suo lavoro non potrà giammai renderlo soddisfatto e non riuscirà che a stancarlo. Il lavoro ch'egli fa, preso in sé, non ha nessun scopo proprio, non riesce a nulla di compiuto: altro fine non ha che di render più facile il lavoro di un altro dal quale in tal guisa viene sfruttato. Da un siffatto lavoro al servizio d'un altro non può uscire alcun godimento per uno spirito colto, tutt'al più vi potranno aver luogo dei rozzi passatempi la "coltura" a un tale operaio è preclusa. Per esser un buon cristiano basta aver la fede, e ciò non è impedito nemmeno dalle condizioni di vita più opprimenti. Per ciò coloro che pensano cristianamente non si prendono altra cura che della pietà, della pazienza, della rassegnazione delle classi oppresse, le quali non impararono a sopportare la lor miseria che quando si fecero "cristiane", e ne divennero insofferenti quando cessarono d'esser tali: poiché il cristianesimo non permette loro di manifestare il malcontento col mormorare e col ribellarsi. Ora non basta più l'ammassare le concupiscenze, ma si richiede di poterle soddisfare.
La borghesia ha proclamato il vangelo del godimento mondano, del godimento materiale, e ora stupisce che quel vangelo abbia trovato dei fedeli anche tra noi. Essa ha dimostrato che non già la fede e la povertà, ma la cultura e il possesso rendono l'uomo felice; e ciò lo comprendiamo oggi anche noi, proletari.
Dal comando e dall'arbitrio dei singoli la borghesia s'è liberata. Ma è rimasto quell'arbitrio che viene dalla sorte e che può esser chiamato il capriccio della sorte: è rimasta la fortuna che favorisce, son rimasti i favoriti dalla fortuna.
Se, per esempio, una qualche industria deperisce e migliaia di operai restano senza pane, a nessuno verrà in mente di darne colpa a singole persone, ma tutti ne recheranno la causa alle "circostanze".
Mutiamo adunque le circostanze, ma cangiamole in modo così radicale da renderle libere dal capriccio e regolate dalla legge. Non continuiamo ad esser più oltre gli schiavi del caso!
Decretiamo un nuovo ordine di cose che metta un fine a tutte le oscillazioni. E il nuovo ordine sia sacro!
Prima della rivoluzione bisognava operare al modo dei padroni per riuscire a qualche cosa: dopo corse la parola: Acciuffa la fortuna!! Nella caccia alla fortuna, nel giuoco d'azzardo si compendiava la vita borghese. Con l'aggiunta dell'obbligo di non arrischiare quello che la fortuna ci aveva fatto guadagnare.
Strana, eppur naturale contraddizione! La concorrenza, entro la quale si svolge esclusivamente la vita borghese o politica, è in tutto simile a un giuoco d'azzardo, a cominciar dalle speculazioni di borsa per finire alla caccia agli impieghi, al cliente, al lavoro, alle promozioni, agli ordini, ecc.
Se si riesce a scavalcare e superare i concorrenti il "buon colpo è riuscito" poiché il vincitore deve già tenersi a fortuna d'esser dotato d'una capacità o d'una intelligenza (per quanto aiutata da un'attività indefessa) superiore a quella degli altri, si da non trovarsi di fronte concorrenti più capaci o più intelligenti. E coloro che vivono di questa vita, in balia dei casi, senza, per così dire, accorgersene, manifestano la più viva indignazione se il loro stesso principio sia troppo crudamente e pericolosamente rivelato sotto la forma del "giuoco d'azzardo"! Questa forma è troppo cruda; e offende, al pari di qualsiasi nudità, il pudore borghese.
A tali capricci del caso vogliono mettere fine i socialisti e formare una società i cui membri,
resi in tutto liberi, non abbiano a dipendere più oltre dalla fortuna.
Nel modo più naturale tale tendenza si rivela nell'odio degli "sfortunati" contro i "fortunati",
cioè di quelli ai quali la fortuna non ha arriso verso quelli ch'essa ha colmato dei suoi favori. Veramente l'odio è maggiormente rivolto non tanto contro i prediletti della fortuna quanto contro la fortuna stessa, che è il cane o della borghesia.
Siccome i comunisti affermano che soltanto nella libera attività è la vera natura dell'uomo,
così essi abbisognano (né altrimenti può pensar chi lavora meccanicamente tutti i giorni) d'una domenica, al modo stesso che ogni aspirazione materiale sente il bisogno d'un Dio, di qualche cosa che innalzi e compensi del lungo lavoro intellettuale.
Se il comunista vede in te l'uomo, il fratello, questo non è che il lato domenicale del comunismo. Nei giorni di lavoro egli non vede in te l'uomo, bensì il lavoratore-uomo o l'uomo-lavoratore il principio liberale risiede nel primo modo di vedere, nel secondo si nasconde la reazione al liberalismo. Se tu fossi un individuo "rifuggente dal lavoro", egli ti riconoscerebbe ancora per uomo ma per un uomo "poltrone ", e farebbe il possibile per indurti al lavoro e convertiti alla sua fede che nel lavoro vede lo "scopo e la vocazione" dell'uomo.
Epperciò il comunismo ha due intenti: da un lato si prende cura che l'uomo spirituale venga soddisfatto, dall'altro ricerca i mezzi per soddisfare l'uomo materiale.
Esso assegna all'uomo una doppia occupazione, quella dell'acquisto materiale e quella dell'acquisto spirituale.
La borghesia aveva resi disponibili i beni materiali e spirituali lasciando libero a ciascuno d'appropriarseli. Il comunismo li procura realmente a ciascuno, glieli impone e lo obbliga ad acquistarseli. Poiché solo i beni spirituali e materiali ci rendono uomini egli vuole che noi ce li appropriamo per diventare uomini veramente.
La borghesia rese libero l'acquisto dei beni, il comunismo ci costringe a conseguirli e non riconosce se non coloro che li acquistarono, cioè coloro che esercitano un'industria. Non basta che l'industria sia libera: tu devi procurartela.
In tal modo alla critica non resta altro la dimostrare se non questo: che l'acquisto di quei beni non basta ancora a renderci uomini.
Il precetto liberale: a che ciascuno è tenuto "formarsi uomo", presupponeva la necessità che ognuno si procurasse il tempo occorrente a tale bisogna, cioè che fosse reso possibile ad ognuno di lavorare alla propria redenzione. La borghesia credette d'aver ottenuto questo col dare in balia della concorrenza tutto ciò ch'è umano, con l'autorizzare il singolo a tutto ciò che è umano.
"Ciascuno può aspirare ad ogni cosa".
Il liberalismo socialista trova che col "può" non è finita ogni cosa, dopotutto "poter fare" una cosa significa che non è proibito di farla, ma non ancora che con ciò sia reso possibile di farla.
Esso sostiene perciò che la borghesia è molto liberale a parole, ma nei fatti è illiberale; e quindi vuol procurarsi i mezzi che rendano possibile a ciascuno di lavorare pel proprio bene.
Il principio del "lavoro" è superiore senza dubbio a quello della "fortuna" e della "concorrenza". E in pari tempo il lavoratore, essendo convinto che ciò che v'ha di meglio in lui è l'essere che lavora, si tiene lontano dall'egoismo e si sottomette alla autorità d'una società d'operai, allo stesso modo che il borghese era ligio allo Stato che aveva per norma la concorrenza. Il bel sogno del "dovere sociale" va ancor più lontano. Si ritiene che la società dia ciò che ci abbisogna, e che per ciò noi le siamo obbligati, anzi che noi le dobbiamo tutto [(1) PROUDHON, Création de l'ordre, esclama, p. es., a pag. 414: «Nell'industria come nella scienza la pubblicazione di una nuova invenzione è il primo ed il più sacro dei doveri ».]. Si continua a restar ligi all'idea di voler servire ad un "supremo dispensatore d'ogni bene". Che la società non sia un "io" il quale possa dare, conferire o concedere, bensì uno strumento, dal quale, tutt'al più, potremo trarre un vantaggio; che noi non abbiamo doveri sociali ma tutt'al più interessi che la società deve favorire; che noi non siamo tenuti a fare alcun sacrificio alla società, bensì, se vogliamo sacrificare qualche cosa, dobbiamo sacrificar essa a noi; tutto ciò è ignoto ai socialisti, perchè essi, quali liberali, sono ancora irretiti entro il principio religioso e intendono a creare — a similitudine dello Stato ora esistente — una società sacra!
La società, dalla quale dobbiamo riconoscere ogni cosa è una nuova signora, un nuovo fantasma, un nuovo "ente supremo", che ci "obbliga e ci asservisce!".
Un apprezzamento più compiuto del liberalismo politico si troverà in seguito nel nostro libro.
Noi vogliamo ora tradurlo dinanzi al Tribunale del liberalismo critico e umano.

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