sabato 10 agosto 2013

IL LIBERALISMO UMANO

L'unico e la sua proprietà  
L'UOMO  
Capitolo 3 
IL LIBERALISMO UMANO





Noi diamo nome di "umano" o di "umanitario" al liberalismo critico nel quale il principio attinge il più alto grado di sua perfezione e tocca l'espressione definitiva. In esso il soggetto stesso diviene materia d'esame, pur restando il critico un liberale e non trascendendo l'uomo.
Il lavoratore è tenuto in conto del più grossolano e del più egoista fra gli uomini, perchè egli nulla fa per l'umanità, ma tutto per sé medesimo e per il proprio vantaggio.
La borghesia non facendo libero l'uomo che per diritto di nascita fu costretta ad abbandonarlo per tutto il resto alla mercé dell'egoista. Perciò all'egoismo, sotto la dominazione del liberalismo politico, è aperto al più vasto campo che possa immaginarsi. Come il borghese sfrutta lo Stato, cosi il lavoratore sfrutterà la società per i suoi intenti egoistici. Tu non hai che un solo fine, l'utile tuo! dice l'umanitario al socialista. Occupati d'interessi puramente umani, ed io ti sarò compagno. Ma per ottener ciò, è necessario una coscienza più robusta, più ampia che non sia quella dell'operaio. Costui non crea nulla e per ciò non ha nulla: ma se nulla egli crea, questo avviene perchè l'opera sua resta sempre un lavoro circoscritto e limitato dalle più imprescindibili necessità dell'esistenza [(1) BRUNO BAUER, Lit. Zig., V, 18]..
Al che si potrebbe opporre forse che, per un esempio, il lavoro di Gutenberg non restò isolato, bensì si perpetuò nel tempo e vive ancor oggi, come quello che, essendo rivolto a soddisfare un bisogno dell'uomo, era, per conseguenza, eterno, imperituro.
La coscienza umanista disprezza la coscienza borghese così come quella operaia: poiché il borghese ha in fastidio il vagabondo (nome cotesto, ch'egli usa a designare tutti coloro che non hanno una "occupazione stabile").
Per contro l'operaio ha in odio "gli scioperati" e le loro "massime" immorali, sfruttatrici ed antisociali.
L'umanista invece ribatte al borghese: l'instabilità di domicilio alla quale molti sono costretti è opera tua.
E il proletario oppone: Che tu esiga che tutti debbano lavorare come bestie da soma e che ognuno sia condannato a questa sorte deplorabile, la è cosa che solo la tua crassa ignoranza e l'abito, in te ormai fatto natura, di vivere come una bestia da soma può spiegare. Tu con ciò vorresti che tutti dovessero lavorare come bestie, perchè poi ciascuno potesse godere della stessa somma d'ozio.
Ma che ne farete poi delle ore d'ozio? In qual modo la società intende a procurare che le ore d'ozio e di ricreazione vengano spese umanamente? Essa è costretta a permettere che ciascuno ne usi secondo il comodo o il capriccio suo; ed il profitto che la tua società intende favorire, va a cadere in grembo all'egoista allo stesso modo che il profitto della borghesia, cioè la indipendenza dell'uomo, per mancargli un contenuto umano, dovette essere abbandonato in balia dei singoli.
Certamente è necessario che l'uomo sia senza padroni; ma non perciò all'egoista dev'essere permesso di rendersi egli padrone dell'uomo; l'uomo invece deve tener in freno l'egoista.
Certamente l'uomo ha diritto ad una certa quantità d'ozio, al riposo, alla ricreazione: ma se il solo egoista ne approfitta, quell'ozio, quel riposo sono perduti per l'uomo.
Sicché voi dovreste dare all'ozio una significazione umana. Ma anche il lavoro voi l'intraprenderete, operai, perchè spinti dall'egoismo perchè vi bisogna pur mangiare, bere, vivere; come dunque pretendereste poi d'esser meno egoisti nelle ore d'ozio? Voi lavorate unicamente perchè dopo il lavoro è gradito il riposo, il dolce far nulla; quello che voi compirete nelle ore d'ozio sarà opera del caso.
Ma se si vuol chiudere ogni porta all'egoismo, bisogna intendere ad un lavoro puramente disinteressato, al puro disinteresse.
Questo solo è degno dell'uomo: il disinteresse è umano perchè è proprio soltanto dell' uomo.
Ebbene, ammettiamo un istante il principio del disinteresse; noi domanderemo; non vuoi tu interessarti a cosa alcuna, non lasciarti vincere all'entusiasmo per cosa alcuna, ne per libertà, né per l' umanità, ecc.? Oh, si — ci verrà risposto — ma codesto non è un interesse egoistico, bensì un interesse umano, cioè teoretico, o in altri termini un interesse non già per un singolo o per i singoli (che sarebbero "tutti"), bensì per l'idea, per l' uomo.
E non t'accorgi che tu stesso non sei infiammato che per la tua idea, per la tua idea di libertà?
E di più non t'accorgi che il tuo disinteresse, al pari del religioso, è ancor esso un disinteresse celeste?
L'utile che ne può ritrarre il singolo ti lascia indifferente, e tu saresti capace d'esclamare astrattamente: "fiat libertas pereat mundus". Tu non ti prendi cura nemmeno della dimane, anzi, in genere, non ti prendi alcun serio pensiero dei bisogni del singolo né per il tuo bene, né per quello degli altri: nulla a te importa di ciò, poiché tu sei un entusiasta, un sognatore.
L'umanitario sarà liberale a segno da considerare come "umano" tutto ciò che può esser proprio dell'uomo? Al contrario: se, per esempio, riguardo alla prostituta egli non accoglierà in astratto i pregiudizi morali del borghesuccio, gli parrà però cosa indegna di un essere umano che ella avvilisca il proprio corpo a tale da renderlo una macchina per spillar quattrini?
Egli penserà: la meretrice non è un essere umano nell'atto in cui si prostituisce; essa è antiumana, disumana. Ancora: il giudeo il cristiano, il teologo, ecc., in quanto tali, non sono uomini; quanto più tu sarai giudeo, ecc., tanto maggiormente cesserai d'esser uomo. Ed ecco di nuovo il postulato imperativo: getta lontano da te tutto ciò che non è inerente a te, allontanalo con la tua critica! Non vi è né giudeo, né cristiano, vi ha l'Uomo soltanto. Fa valere il tuo umanesimo contro le limitazioni d'ogni sorta, diventa uomo mercè quello e renditi libero da tutte le pastoie; diventa un "uomo libero", cioè riconosci nel tuo umanesimo l'unica ragione determinatrice dei tuoi atti.
E io rispondo: Tu sei, sì, qualcosa più che un giudeo, che un cristiano, ma sei anche più che uomo. Tutte quelle sono idee, ma tu sei cosa corporale. Pensi tu forse di poter giammai diventare "uomo come tale"? Credi tu forse che i nostri posteri non si troveranno innanzi altri ostacoli, altri pregiudizi, che noi non fummo capaci di abbattere?
O credi tu forse, che col tuo quarantesimo o cinquantesimo anno d'età sarai giunto al tanto, che i giorni che susseguiranno più nulla ti potranno togliere e che sarai finalmente "uomo"? Gli uomini che verranno dopo di noi dovranno conquistare molte libertà, delle quali noi non sentiamo nemmeno il bisogno. Che t'importa di quella futura libertà? Se tu fossi veramente deliberato a non tener in alcun conto te stesso prima d'esser diventato uomo, tu avresti da attendere sino al giorno del giudizio universale, sino al giorno in cui l'uomo e l'umanità avranno raggiunto il più alto grado della perfezione. Ma poi che tu morrai probabilmente prima d'allora, quale sarà il premio della tua vittoria?
Dunque inverti piuttosto il ragionamento e di' a te stesso: "Io sono uomo "! Io non ho bisogno di formare in me l'uomo, poiché esso mi appartiene di già, con tutte le mie qualità.
Ma come si può, domanda il critico, esser in pari tempo giudeo e uomo? In primo luogo   — io gli risponderò — non si può essere assolutamente ed esclusivamente né giudeo né uomo. Per quanto Samuele abbia sentimento e religione d'israelita, tale in modo esclusivo egli non è già — non fosse altro per ciò che egli è quanto meno quel determinato ebreo, non mai dunque l'ebreo in astratto.
In secondo luogo si può essere certamente giudeo senz'esser uomo, se esser uomo significa esser una cosa non individuale. In terzo luogo poi — e di ciò si tratta — io quale giudeo posso essere tutto ciò che è in mia facoltà di divenire. Considerate Samuele e Mosé; essi non furono ancora uomini nel senso che voi attribuite a questa parola; pur v'è impossibile di pensare ch'egli si sarebbero potuti elevare al di sopra del giudaismo. Essi furono quello che potevano essere. Forse gli ebrei odierni sono diversi? Perchè voi avete scoperto l'idea dell'umanesimo, voi pretenderete inferirne che ogni giudeo debba convertirsi a tale idea? Se egli può far ciò lo farà; se non lo fa è da concluderne che non può farlo. Che cosa gl'importa della vostra pretesa? Che cosa della vocazione che gli volete imporre ?
Nella società umana, divinata dall'umanitario, nulla deve esser riconosciuto di ciò che l'uno e l'altro ha in sé di particolare, "nulla di ciò che porta il contrassegno del privato" deve aver pregio.
In questo modo s'allarga la cerchia del liberalismo, il quale vede nell'uomo e nella libertà dell'uomo il principio del bene, nell'egoismo e in tutto ciò che è particolare il principio del male; in quello Dio, in questo il demonio. E come nello "stato" il privato ha perduto i propri privilegi e nella società degli operai o degli straccioni è abolita la proprietà personale, così nella "società umanistica" tutto ciò che è particolare non verrà tenuto in alcun conto. Solo allorquando la pura critica avrà compiuto il suo faticoso lavoro, noi potremo sapere quali cose debbano essere considerate come "private" e quali, nella coscienza della sua nullità, l'uomo dovrà lasciar esistere tuttavia.!
Al liberalismo umanistico non bastano lo Stato e la società; egli li nega dunque entrambe in astratto, se bene in realtà pur li conservi. A dire il vero la "società umana" si compone dello Stato più universale e della più universale società. Soltanto contro lo Stato ristretto si obbietta ch'esso concede soverchia importanza agli interessi privati spirituali (p. e. alla pietà del volgo) e contro la società, ch'essa tiene troppo conto degli interessi materiali. L'uno e l'altra devono abbandonare ai privati tutti gli interessi particolari, per non curarsi che degli interessi esclusivamente umani.
Quando i politici pensarono di abolire la volontà personale, il capriccio e l'arbitrio, essi non s'accorsero che, mercé il possesso, il capriccio arbitrario s'era creato un sicuro rifugio per l'avvenire.
I socialisti, col toglier di mezzo anche la proprietà, non s'avvedono che questa s'assicura un'esistenza futura mediante la "individualità". Perché proprietà non è soltanto il denaro o i beni di fortuna: non è oggetto di proprietà anche il pensiero e il giudizio?
È necessario dunque abolire anche ogni opinione singolare, o per lo meno renderla impersonale. La singola persona non deve avere opinioni, bensì allo stesso modo che l'arbitrio fu attribuito allo Stato, il possesso alla società, così l'opinione dev'essere riferita ancor essa a qualche cosa di "universale", all'umanità, e con ciò diventare l'opinione universalmente accettata.
Se all'opinione personale si permette di esistere, io avrò il mio dio (poi che dio non è altro insomma che il mio dio, la mia opinione, la mia fede) adunque la mia fede, la mia religione, i miei pensieri, i miei ideali; perciò è d'uopo che sorga una fede umana universale, "il fanatismo della libertà". Questa sarebbe cioè una fede in astratto corrispondente appunto alla "essenza dell'uomo", e siccome soltanto "l'uomo", in genere è ragionevole (io e tu possiamo essere irragionevolissimi), questa soltanto si avrebbe a chiamare una fede ragionevole.
Come il capriccio e il possesso furono resi impotenti, così anche ciò che di proprio possiede l'uomo, ovvero l'egoismo, deve diventar tale.
In questo ultimo svolgimento del concetto dell' "uomo libero" si combatte per principio l'egoismo, la singolarità dell'uomo; e i fini di tanto inferiori dell' "utile" sociale vagheggiato dai socialisti dileguano dinanzi alla sublime "idea dell'umanesimo". Tutto ciò che non è "universalmente umano" è alcunché d'anormale che soddisfa soltanto i singoli o un singolo, o pur appagando tutti, li soddisfa quali singoli individui non già quali uomini, e perciò si chiama "egoismo".
Pei socialisti l'utile comune, come pei liberali la concorrenza, rappresenta ancora il fine supremo; l'utile sociale non impedisce a ciascuno di procurarsi ciò che gli bisogna, allo stesso modo che nel sistema della concorrenza non è imposta la scelta dei mezzi.
Se non che per partecipare alla concorrenza è sufficiente che siate cittadini, per prender parte al benessere è sufficiente che siate operai. Ma ciò non corrisponde ancora alla qualità di uomo.
L'uomo proverà la "felicità vera" quando sarà "spiritualmente libero"; dopotutto l'uomo è spirito, e perciò tutte le potenze che sono estranee a lui, allo spirito, tutte le forze sovrumane, celesti, devono essere precipitate nel nulla e il nome "uomo" "deve essere innalzato al disopra di tutti i nomi."
E così in questa fine dei tempi moderni ritorna ciò che nei loro principi era stata la cosa essenziale: "la libertà dello spirito".
Al comunista in specie il liberale dice: Se la società ti prescrive il genere d'attività, ciò è di fatto indipendente dall'azione dei singoli, cioè degli egoisti ma con questo non consegue ancora che quella attività debba essere "cosa puramente umana" e che tu sia un organo perfetto dell'umanità. Il genere d'attività che la società esigerà da te, dipende unicamente dal caso; essa potrebbe occuparti nella fabbrica d'un tempio, ecc., e astraendo da ciò, tu potresti, per tua propria volontà, adoperarti in cose basse, vale a dire indegne di uomo; più ancora potrebbe accadere che tu lavorassi unicamente per aver di che vivere, per amore della vita dunque e non per la maggior gloria dell'umanità. Perciò la libera attività sarà raggiunta solo quando tu ti sarai liberato da tutte le follie, da tutto ciò che è disumano, cioè egoistico, e avrai ripudiato tutti i pensieri che oscurano l'idea dell'uomo e dell'umanità, in breve quando non solo tu non sarai impedito nella manifestazione della tua attività, ma quando il contenuto di questa attività sarà divenuto puramente umano, e tu non vivrai che per l'umanità. Ma questo non può avvenire sino a tanto che il fine di ogni tua aspirazione è il vantaggio tuo proprio oppure quello di tutti; ciò che tu fai per la "società degli straccioni" non è ancora operato per l'umanità.
Il solo lavoro non fa di te un uomo, giacché esso è qualche cosa di formale e il suo oggetto è accidentale; ciò che importa sapere è chi sei tu che lavori. Tu puoi lavorare anche per impulso materiale, egoistico; ora è necessario invece che il lavoro sia anche tale da giovare alla società, che sia diretto ad accrescerne la felicità, a favorirne lo svolgimento storico; in breve, che sia un lavoro "umanitario". E per ciò due cose si ricercano: in primo luogo ch'esso torni di vantaggio all'umanità, in secondo luogo ch'esso sia fatto da un "uomo".
La prima condizione può verificarsi in qualunque lavoro, poiché anche dalla rondella natura, per esempio degli animali, l'uomo trae vantaggio per il progresso delle scienze; la seconda richiede che il lavoratore conosca lo scopo del suo lavoro, e siccome a tale coscienza ei non può giungere che quando si sente d'esser uomo, così la condizione determinante è la coscienza di se stesso.
Certamente si sarà ottenuto molto quando tu cesserai di esser un operaio mercenario; ma con ciò tu non riuscirai che a farti tutt'al più un'idea generale nel "tuo lavoro", ad acquistarne una coscienza che è ancora assai lontana dall'esser la coscienza di te stesso, la coscienza del tuo vero "essere", dell'essere dell'uomo. L'operaio prova ancora la sete d'una "coscienza superiore", e non potendola saziare nelle ore del lavoro, cerca di soddisfarla in quelle d'ozio. Onde vicino al lavoro egli vede l'ozio, ed egli si vede costretto a consentire nello stesso tempo esser l'uno e l'altro umani; e di più ancora gli bisogna riconoscere l'elevatezza dell'ozioso, di colui cioè che fa festa.
Egli non lavora che per rendersi libero dal lavoro; egli vuole render libero il lavoro per liberarsene.
In breve, il suo lavoro non ha un contenuto che lo possa soddisfare, poi che gli è imposto dalla società, è un tema, un compito, una professione; e d'altro canto la sua "società" non lo appaga perchè non ad altro l'indice che a lavorare.
Il lavoro dovrebbe appagarlo quale uomo, invece esso soddisfa solamente la società: la società dovrebbe trattarlo da uomo e invece lo ha in conto di cencioso operaio o di straccione che lavora.
Il lavoro e la società non gli sono di vantaggio che in quanto egli ne ha bisogno: non dunque quale uomo egli li appoggia, bensì quale egoista.
Questa la critica contro l'essenza del lavoro. Essa accenna allo "spirito" "dirige la lotta dello spirito contro la moltitudine", e proclama essere il lavoro comunista un lavoro privo dello spirito.
Nemica del lavoro come è la folla, essa ama rendersi la fatica più leggera che sia possibile. Nella letteratura, che oggidì si produce in copia, quella ripugnanza contro il lavoro genera la ben nota superficialità, la quale non ama sottoporsi alle "fatiche delle indagini".
Ma tu replicherai, che tu riveli un uomo ben diverso, più degno, più elevato, più grande; un uomo che è più uomo di quegli altri. E io voglio ammettere che tu sappia recare in atto tutto ciò che è possibile all'uomo, che tu sappia anzi far ciò di cui nessun altro è capace. In che cosa consiste la tua grandezza? Appunto in ciò, che tu sei superiore agli altri uomini, alla moltitudine.
Dunque la tua grandezza consiste nella tua superiorità sugli altri uomini. Dagli altri uomini tu non ti distingui per ciò che sei "uomo", bensì perchè sei un uomo "unico". Tu dimostri bene ciò che un uomo può fare, ma se tu lo puoi, gli altri, benché uomini, nol possono: tu l'hai compiuto quale uomo "unico", ed in ciò tu non hai pari. Non già l'uomo crea la tua grandezza, bensì tu stesso la crei, perchè tu sei più potente degli altri uomini.
Si crede che non si possa essere più che uomini. E vero piuttosto che non si può esser da meno di uomini.
Si crede ancora che qualunque acquisto umano torni a profitto degli uomini. Ma se io sono un uomo, son tale come Schiller era svevo, Kant prussiano, e Gustavo Adolfo miope: i miei meriti e i loro fanno di noi un uomo, un prussiano, un miope, uno svevo. E allora tutti questi qualificativi valgono come la gruccia di Federigo il Grande, che è divenuta celebre perchè apparteneva a lui.
All'antico "sia reso onore a Dio" corrisponde il moderno "sia reso onore all'uomo". Ma io penso che l'onore debba esser reso a me.
La critica, coll'esigere dall'uomo che sia "uomo", esprime la condizione indispensabile della socialità; poiché solo in quanto si è uomo tra uomini si è un essere sociale. Con ciò essa manifesta il suo scopo sociale, la "fondazione della società umana".
Delle teorie sociali la critica è, senza contrasti, la più perfetta poiché essa allontana e spoglia del suo valore ogni cosa che separa l'uomo dall'uomo: tutti i privilegi, ad eccezione di quello della fede. In essa il principio d'amore del Cristianesimo, il vero principio sociale, giunge alla più alta e compiuta sua espressione; essa fa l'ultima sua prova per togliere all'uomo la esclusività e l'antagonismo che gli appartengono da natura: è una lotta contro l'egoismo nella sua forma più semplice e perciò più rigida, l'individualità o la esclusività.
"Come potete voi far veramente vita sociale sino a tanto che tra di voi esiste ancora esclusivismo"?
Così chiede la critica; e io domando all'opposto: "Come potete voi esser veramente unici, sino a tanto che esiste una relazione qualsiasi tra di voi? Se voi siete uniti l'uno all'altro, voi non potete separarvi; se un patto vi lega, solo nell' unione voi rappresentate qualche cosa, e dodici di voi formano una dozzina, mille un popolo, milioni l'umanità".
"Soltanto se siete umani — osserva ancora la critica — voi potete comunicare con gli uomini, allo stesso modo che solo essendo patrioti voi siete in condizione di comprendervi tra cittadini".
E a mia volta io ribatto: Solo in quanto sei unico, tu puoi aver commercio con gli altri in tuo nome ed esser per gli altri ciò che veramente sei. Il critico più acuto è quegli che si vedrà colpito più gravemente dalla maledizione del suo principio. Quando fa getto d'ogni esclusività — clericalismo, patriottismo, ecc. — egli non fa che sciogliere un legame dopo l'altro e separarsi dal clericale, dal patriottico, ecc. sino a tanto che dopo aver infranto tutti i vincoli, si trova solo. Qui appunto deve ripudiare tutti coloro che hanno in sé qualcosa d'esclusivo e di particolare: ora che v'é egli di più esclusivo e di più particolare della persona stessa?
O crede egli forse che sarebbe meglio che tutti divenissero "uomini" rinunziando ad ogni esclusivismo? Ma appunto per ciò che la parola "tutti" non altro significa se non il complesso dei singoli, risorge più evidente il contrasto, giacché "singolo" importa l'esclusività stessa. Se l'umanità non permette al singolo nulla di particolare o d'esclusivo, nessun pensiero proprio, nessuna follia speciale, se colla sua critica lo spoglia d'ogni carattere personale e se contro ogni cosa privata è intollerante perchè "antiumana", essa non potrà tuttavia distruggere con la sua critica la stessa persona, e dovrà quindi accontentarsi a proclamare che il singolo è una persona privata e lasciare ad essa tutto ciò che è particolare.
Che cosa farà una società che non si curerà più di cose che siano private? Riuscirà a distruggere il privato? No, bensì lo renderà soggetto all' "interesse sociale" lasciando poi libera la volontà privata di prendersi quanti giorni di congedo le paiano necessari per non aver a contrastare con gli interessi comuni [(1) BRUNO BAUER, La questione degli ebrei, pag. 66.]. Tutto ciò ch'é privato viene abbandonato a sé stesso perchè esso non rappresenta per la società cosa che l'interessi. " Armandosi contro la scienza, la Chiesa e la religione dimostrarono di esser ciò che furono sempre, quantunque abbiano cercato di presentarsi sotto un altro aspetto quando vollero farsi credere il necessario fondamento dello Stato: si rivelarono cioè per istituzioni affatto private. Già allora, quando esse erano unite allo Stato e lo fecero ligio al Cristianesimo, esse servirono a provare che lo Stato non aveva finora svolta l'idea politica universale e non ammetteva che diritti privati. Esse erano la più alta espressione del concetto che voleva far dello Stato una cosa privata la quale non dovesse curarsi che di questioni particolari. Quando lo Stato avrà finalmente il coraggio e la forza di compiere la sua vocazione universale, e quando sarà perciò anche in condizione d'assegnare il vero posto agli interessi particolari ed ai negozi privati, allora Chiesa e religione saranno libere quali mai furono sino ad ora. Considerate sotto l'aspetto d'una questione puramente privata, d'una soddisfazione o d'un bisogno puramente personali, esse potranno liberamente disporre da sé stesse, ed ogni singolo, ogni Comune, ogni congregazione religiosa, potranno provvedere alla salute dell'anima nel modo che crederanno migliore. Alla salute dell'anima penserà e si adoprerà ciascuno in quanto ne sentirà personalmente il bisogno, ed affiderà la cura dell'anima a quella persona che darà maggiore affidamento di fargli ottenere l'intento. E la scienza sarà lasciata "tutto fuori di questione" [(1) ID., La buona causa della libertà, pagg. 62-63.].
Ma che cosa succederà? La vita sociale deve essa prima distruggere ogni rapporto sociale — la fratellanza — ciò che fu creato dal principio dell'amore e dell'associazione? Ma non potrà già fare che chi ha bisogno d'altrui non gli si rivolga o non gli si sottometta. E la sola differenza è questa che, dopo, il singolo si collegherà realmente col singolo, mentre prima era soltanto a lui vincolato. Così padre e figlio, prima che quest'ultimo abbia raggiunto la maggior età, sono vincolati da un legame; dopo, essi possono aver tra di loro rapporti indipendenti: il padre resterà padre, e figlio il figlio; ma non più la dipendenza del figlio dal padre, bensì la libera volontà d'entrambi li terrà finiti.
L'ultimo privilegio è, per vero, l' "uomo" perchè di questo privilegio tutti son dotati.
Dopotutto, come dice Bruno Bauer: "il privilegio resta, se anche a tutto si estende" [(2) La questione degli ebrei, pag. 60].
Di modo che le evoluzioni del liberalismo sono le seguenti:
" Primo: Il singolo non è l'uomo; per ciò la sua personalità non è tenuta in alcun conto: non volontà personale, non arbitrio, non comando.
" Secondo: Il singolo non ha nulla di ciò che è comune: perciò, non esiste né il mio né il tuo, non dunque la proprietà.
" Terzo: Siccome il singolo non è uomo, né alcunché possiede d'umano, egli non deve nemmeno esistere, e deve esser distrutto dalla critica con tutto il suo egoismo, per far luogo all' "uomo", all'uomo ora per la prima volta trovato ".
Quantunque però il singolo non sia l' "uomo", l'uomo nonostante sussiste nel singolo ed ha per sé stesso, come ogni spirito ed ogni fantasma, una propria esistenza.
Perciò il liberalismo politico assegna al singolo tutto ciò che gli spetta "in quanto è nato uomo", cioè libertà di coscienza, possedimento, ecc., in breve tutti quelli che si chiamano i diritti dell'uomo; e a sua volta il socialismo concede al singolo ciò che gli spetta quale uomo attivo, quale uomo che "lavora"; finalmente il liberalismo umanitario dà al singolo ciò ch'egli possiede quale "uomo"; vale a dire tutto ciò che è di pertinenza dell'umanità. Conseguenza: il singolo non ha nulla, l'umanità ha tutto: donde la necessità di proclamare il rinascimento predicato dal Cristianesimo: divieni una nuova creatura, divieni "uomo".
Tutto ciò non fa forse pensare al pater noster?
All'Uomo appartiene la dominazione (la forza o la "dinamica"): quindi nessun singolo dev'esser padrone, bensì l'Uomo è il padrone dei singoli — "; dell'Uomo è il regno, cioè il mondo; dunque non il singolo deve possedere, bensì l'uomo ("tutti" hanno il possesso del mondo) —, all'Uomo spetta la gloria di tutto, la glorificazione, dopotutto l'Uomo, l'umanità sono il fine del singolo, per i quali esso lavora, pensa, vive, e per la cui glorificazione egli deve diventar uomo.
Gli uomini hanno sempre aspirato finora a render possibile una comunanza, nella quale tutte le "loro inevitabili ineguaglianze" potessero essere considerate come non essenziali; essi aspirarono alla "eguaglianza"; ciò che null'altro significa, se non che cercavano un padrone, un vincolo, una sede ("noi crediamo tutti in un solo Dio"). Cosa più comune o più uguale non può darsi per l'uomo dell'uomo stesso, ed in questa comunanza l'istinto d'amore ha trovato il suo appagamento; esso non ebbe riposo prima d'aver ottenuta questa compensazione e tolta ogni disuguaglianza e fatto si che l'uomo stringesse l'uomo al suo seno. Ma precisamente tale comunanza affrettata produce la decadenza e lo sfasciamento. In una comunanza limitata il francese stava ancora contro il tedesco, il cristiano contro il maomettano, ecc. Ora, invece, l'uomo sta contro gli uomini, o se meglio vi piace, poi che gli uomini non sono l'uomo, l'uomo sta contro il non-uomo.
Alla tesi "Dio s'è fatto uomo" è seguita l'altra: "l'uomo s'è fatto"l'Io". Questo è l' "io" umano.
Ma noi invertiamo la tesi e diciamo: io non ho potuto trovare me stesso sino a tanto che ho cercato in me l'Uomo. Ma, ora che l'uomo aspira a diventar 1' "io" e ad acquistar corpo in "me"; io comprendo bene che tutto dipende dalla individualità mia, e che senza di essa l'uomo è perduto. Ma io non sento alcun desiderio di diventar lo scrigno di questo "sacrosanto io", e per ciò quind'innanzi non domanderò se nella estrinsecazione della mia attività io sarò uomo o non uomo : "sia lontano da me codesto spettro" !
Il liberalismo umano procede senza riguardi: Se tu in un solo punto vuoi essere od avere qualche cosa di particolare, se vuoi difendere una tua prerogativa contro altri, o semplicemente far uso d'un diritto che non sia un diritto universale degli uomini, egli ti dichiara un egoista.
Sta bene: Io non voglio ne avere ne essere qualche cosa di particolare rispetto agli altri, io non pretenderò nessuna prerogativa, ma io non mi misuro alla stregua degli altri, e di diritti astratti non so che fare. Io voglio essere ed avere tutto ciò "che posso essere ed avere". Se altri fanno la stessa cosa che me n'importa? Essi la stessa cosa non potranno già né essere né avere.Io non arreco loro alcun danno, allo stesso modo che io non arreco danno alla roccia per ciò ch' io posso muovermi ed essa nol può. Se essa lo potesse, lo farebbe.
Di qui procede la dottrina: recar discapito o pregiudizio agli altri uomini, Non già che nessuno debba godere d'un privilegio, che sia obbligò il rinunciare ad aver dei " vantaggi " sugli altri, cioè che si ammetta la più stretta teoria della abnegazione. "Non bisogna tener sé stessi in conto d'alcunché di particolare, perchè si è, p. es., cristiani o ebrei." Sta bene, ma io non mi tengo in conto di "qualcosa di particolare", bensì in conto di unico. Io ho, è vero, alcuni caratteri comuni con gli altri, ma tutto ciò non è che relativo; nel fatto io sono incomparabile, sono unico. La mia carne non è la carne loro, il mio spirito non e il loro spirito. Liberi di classificarvi sotto le dominazioni generali di "carne" o di "spirito"; ma voi dovete pur riconoscere che queste non sono che idee, le quali nulla hanno a che fare con la mia carne, col mio spirito, e meno d'ogni altra cosa siete autorizzati ad impormi una vocazione.
Io non voglio riconoscere o rispettare in te cosa alcuna, non il possidente né il cencioso, e nemmeno l'uomo, bensì voglio sfruttarti per i miei bisogni. Io trovo che il sale dà sapore ai miei cibi, e perciò io lo disciolgo. Io conosco che il pesce è atto ad alimentarmi, e perciò lo mangio. Io scorgo in te il dono di allietarmi la vita, e perciò ti prescelgo a mio compagno. Ai miei occhi tu non sei che ciò che rappresenti per me, vale a dire un oggetto mio, e, perché mio, diventi anche mia proprietà.
Nel liberalismo umanitario la pitoccheria giunge all'estremo.
È necessario che noi discendiamo all'ultimo grado di cenciosità e di miseria, se vogliamo giungere al concetto del nostro valore astratto, poiché siamo tenuti a spogliarci di tutto ciò ch'è nostro acquisto. Ma che v'é di più miserevole dell'uomo nudo? Ma altro succede se io getto lontano da me anche l'uomo perchè sento che pur esso mi è estraneo e che io posso far poco conto di lui. Codesta non è più canaglieria: il cencioso si è spogliato anche dei suoi cenci e con ciò ha cessato d'essere un cencioso.
Io non sono più un pezzente: lo fui.
Sino ad ora non era possibile intenderci dopo di ché la lotta tra i liberali vecchi e nuovi era insomma contrasto fra coloro che accettavano la "libertà a piccole dosi" e quelli che domandavano libertà "nella più alta misura", dunque tra i moderati e i partigiani della libertà illimitata. Tutto si riduceva alla questione: "Quanto libero dev'esser l'uomo".
Che l'uomo debba esser libero lo ammettono gli uni e gli altri, e per questo entrambi i partiti sono liberali. Ma il selvaggio che si cela in ogni uomo, in qual modo si potrà frenarlo? Come far sì che rendendo libero l'uomo, non si scateni in pari tempo anche la belva?
Ogni liberalismo ha un nemico mortale, un avversario insuperabile, come Dio ha il demonio; a lato dell'uomo sta sempre il barbaro, il singolo, l'egoista. Stato, società, umanità sono incapaci a soggiogarlo.
Il liberalismo umanista s'è prefisso il compito di dimostrare ai liberali puri che essi vogliono tutt'altro che la libertà.
Gli altri liberali non avevano dinanzi agli occhi che alcuni casi d'egoismo, ciechi per la maggior parte dei rimanenti; il liberalismo radicale ha invece contro di sé l'egoismo "in genere" al quale egli fa appartenere tutti coloro che non intendono la libertà a suo modo, sicché ora l'uomo e il barbaro sono strettamente separati l'un dall'altro e si stanno di fronte quali nemici; da un lato la moltitudine, dall'altro la critica, e più precisamente quella cui si dà nome di libera critica umana (Questione giudaica, p. 114) per distinguerla dalla critica primitiva o religiosa.
La critica confida di poter riportar vittoria su tutta la "massa" e di poterle dare un "attestato di generale povertà" Essa pretende dunque d'avere l'ultima parola e di provare che la lotta dei "timidi" e degli scoraggiati si risolve in un ergotismo egoistico, in una piccineria, in una meschinità. Ogni rancore scema d'importanza ed i piccoli dissidi si bandiscono, poiché colla critica scende in campo un nemico comune. "Voi siete egoisti, tutti quanti siete, e nessuno di voi vale meglio dell'altro. Ed ora gli egoisti si schierano compatti contro la critica."
Ma che siano proprio egoisti? No essi combattono la critica, per ciò che questa li taccia d'egoisti; essi non vogliono confessare d'esser tali, sicché la critica e la "moltitudine" son ferme sulla stessa base; entrambe lottano contro l'egoismo, entrambe lo rinnegano e cercano di staccarsene reciprocamente.
Critica e moltitudine seguono la stessa mèta, l'emancipazione dall'egoismo, e non questionano tra di loro che per sapere chi più è vicino alla mèta o anche chi l'ha raggiunta.
Gli ebrei, i cristiani, gli assolutisti, gli uomini "oscuri", gli amanti della luce, i politici, i comunisti, insomma tutti, respingono da sé l'epiteto infamante d'egoisti, e siccome la critica li ha in conto di tali, senza reticenze nel significato più ampio, tutti intendono giustificarsi contro il rimprovero d'egoista e combattono l'egoismo, cioè lo stesso nemico, contro il quale è scesa in arme la critica.
Sono nemici degli egoisti l'una e l'altra, la critica e la massa, e sì l'una sì l'altra cercano di emanciparsi dall'egoismo tanto col cercar di scagionarsene quanto coll'accusarne l'avversario.
Il critico è il vero oratore della "folla"; ed egli le manifesta il "semplice concetto ed il modo d'esprimersi" dell'egoismo Egli è principe e duce nella guerra di liberazione contro l'egoismo. Ma in pari tempo egli è pure l'avversario della moltitudine, non perché la combatte, ma perchè la incita e la sprona, e fa schioccare la frusta dietro i pusillanimi, per incoraggiarli.
Con ciò il contrasto tra la critica e la folla si riduce a questo dibattito: "Voi siete egoisti!     — No, noi non siamo tali! — Io ve lo dimostrerò. — E tu vedrai come sapremo giustificarci!"
Prendiamoli pure l'una e l'altra per quel che pretendono di essere, cioè per antiegoisti, o per quello in cui l'una tiene l'altra, vale a dire per egoisti.
La critica dice veramente; tu devi liberare per tal modo il tuo io da ogni cosa che lo limiti da farlo diventare un "io" umano. Ed io osservo: liberatene per quanto puoi ed avrai fatto il tuo dovere; poiché non a tutti e concesso d'abbattere tutti gli ostacoli, o, per meglio dire, non tutti scorgono una barriera in ciò che agli altri sembra tale. Per conseguenza non curarti degli ostacoli che non danno impaccio a te. Ti basti l'abbattere questi. A chi mai fu dato di abbattere un ostacolo in pro di tutti gli uomini? Non sono forse senza numero coloro che corrono oggidì, come sempre, pel mondo pur trascinando tutte le pastoie dell'umanità? Chi ha abbattuto una delle sue barriere, può con ciò additare agli altri la via ed i mezzi; l'abbattere gli ostacoli che gli si attraversano è compito di ognuno per se stesso. Di fatto nessuno opera diversamente.
Pretendere che tutti diventino perfettamente "uomini" equivale a domandare loro di abbattere tutte le barriere. E ciò è impossibile, poiché l'uomo per sé stesso non ha barriere. Io ne ho ancora, ma son sempre le mie, e queste soltanto possono essere da me superate.
Un "io umano", non potrò diventarlo giammai, perchè io sono "io" e non solamente uomo.
Vediamo un po' tuttavia se la critica ci ha insegnato alcunché di utile. Libero io non lo sono se non sono senza interessi, uomo nemmeno se non sono disinteressato. Sia pure, ma che m'importa d'esser libero o d'esser uomo? io non lascierò perciò solo trascorrere alcuna occasione di farmi valere. La critica mi porge quest'occasione, coll'insegnarmi che allorquando qualcosa mi si insinua nell'animo e vi permane indissolubilmente, io ne divento il prigioniero e lo schiavo, cioè un ossesso. Un interesse qualunque fa di me, se non so liberarmene, la sua preda, e non più esso appartiene a me, bensì io appartengo a lui. Accettiamo dunque il monito della critica: non consentiremo ad alcuna proprietà di diventare stabile, e faremo in modo da non trovarci a nostro agio fuorché nella distruzione.
Se dunque la critica dice: Tu non sei uomo che quando critichi e dissolvi senza posa; noi diciamo: Tale io sono già anche senza di ciò e quindi io non voglio prendermi altra cura che d'assicurarmi la mia proprietà, e, per meglio assicurarla, la chiudo in me stesso, la faccio mia schiava, e ne uso prima ch'essa possa diventare un'idea fissa o una mania.
Ma io non faccio questo già per un dovere che mi sia imposto, bensì per libera volontà mia. Io non meno vanto di abbattere tutto ciò che all'uomo è dato di poter distruggere; finché, ad esempio, non avrò ancora dieci anni, io non pretenderò di criticare i controsensi del decalogo; sarò per questo meno un uomo? Anzi sarò tale perciò a punto. In breve, io non ho alcuna vocazione e non ne seguo nessuna nemmeno quella d'esser uomo. Ripudio forse con ciò quello che il liberalismo ha conquistato con le sue fatiche? Sono ben lontano dal desiderare che vada perduto ciò che fu conquistato; solamente ora che, mercé il liberalismo, l'uomo è divenuto libero, io guardo a me stesso e dico francamente a me stesso: quello che in apparenza ha conquistato l'uomo l'ho conquistato io solo.
L'uomo, dice il liberalismo, è libero solo quando della sua esistenza egli ha fatto l'ente supremo. Dunque per il perfezionamento del liberalismo è necessario che ogni altro essere supremo sia distrutto, che la teologia sia abbattuta e sostituita dall'antropologia, e che Dio e la sua provvidenza sian condannati al dileggio, si che l'ateismo divenga universale.
L'egoismo della proprietà fa l'ultima perdita, il giorno che il "mio Dio" diviene parola senza significato; poiché Dio non esiste se non in quanto egli ha cura della salute del singolo il quale a sua volta in Lui abbia fede.
Il liberalismo politico ha abolito l'ineguaglianza dei servi e dei padroni: egli ci rese senza padroni — anarchici. Il padrone fu separato dal singolo, dall' egoista, per divenire uno spettro; la legge e lo Stato. Il liberalismo sociale abolì l'ineguaglianza della proprietà, dei poveri e dei ricchi, e rese tutti senza proprietà, poiché questa, nel suo concetto, vien confidata a un fantasma — la società.I1 liberalismo umano a sua volta ci toglie Dio, ci rende atei. Per ciò il Dio del singolo, il "mio Dio" deve essere abolito. Ora è certo che la mancanza di padroni trae seco l'abolizione di ogni servaggio, la mancanza di possesso ha per conseguenza la liberazione dai bisogni, e l'ateismo significa assenza di pregiudizi, giacche col padrone cade il servo, col possesso la causa di conservarlo, col dio tutti i pregiudizi! Ma siccome il padrone risorge nello Stato, il servo riappare quale suddito, la proprietà fa nuovamente capolino nel possesso esclusivo della società, e il pregiudizio di Dio si riaffaccia sotto la forma dell'Uomo, cosi sorge una nuova credenza, quella nell'umanità e nella libertà. Al posto del "Dio" del singolo è ora innalzato il Dio di tutti, l'Uomo: "la cosa suprema alla quale tendiamo, è d'esser uomini". Ma siccome nessuno può perfettamente tradurre in atto ciò che l'idea "uomo" vuol esprimere, così l'uomo resta pel singolo un "al di là", sublime, un ente supremo non ancora raggiunto, un Dio. Di più, esso è il vero Dio perchè è perfettamente adeguato alla nostra natura e rappresenta ed è il nostro vero "essere ": perché raffigura insomma noi stessi, ma come astratti dalla realtà ed elevati a un ideale superiore.
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Le osservazioni che precedono sulla "libera critica umana" furono scritte, al pari di tutto il resto che si riferisce ad opere che hanno attinenza a questo soggetto, saltuariamente subito dopo la pubblicazione dei libri che ne trattavano, ed io non feci altro poi che raccogliere ed ordinare i frammenti. Ma la critica prosegue d'ora innanzi senza tregua per la sua strada e rende necessario che io, avendo terminato la prima parte, aggiunga questa nota a mò di conclusione.
Io ho dinanzi a me l'ottava puntata della Gazzetta universale di letteratura di Bruno Bauer.
Fin da principio essa ci parla un'altra volta degli interessi generali della società. Ma la critica ha riflettuto bene ed ha a questa società attribuito una destinazione, mercè la quale essa ora si distingue da un'altra forma, con cui prima soleva essere scambiata; "lo Stato", poco innanzi esaltato ancora quale "libero Stato" fu del tutto abbandonato, poiché fu chiaro che in nessun modo esso saprebbe conseguire il fine della "società umana". La critica che nel 1842 si era "veduta costretta a identificare per un momento l'essenza umana colla politica ", ora s'è invece accorta che lo Stato, sia pure il "libero Stato", non è la società umana, o, come potrebbe dirsi in altri termini, che il popolo non è "l' uomo".
Noi abbiamo veduto come essa si sia disfatta della teologia dimostrando chiaramente come dinanzi all'uomo Dio dilegui; ora la vediamo liberarsi allo stesso modo dalla politica e dimostrare che dinanzi all'uomo cessano popoli e nazionalità; noi vediamo adunque che essa si emancipa a un tempo dalla Chiesa e dallo Stato dichiarando antiumani l'una e l'altro, e noi vedremo — poiché già ci è facile divinarlo — che essa saprà, anche dimostrare come dinanzi all' "uomo" la stessa "umanità" proclamata da essa ente spirituale "si chiarirà senza valore.E come mai saprebbero in altro modo i piccoli "enti spirituali" sostenersi di fronte allo spirito supremo?
L'uomo abbatte tutti i falsi idoli.
Quello adunque che il critico pensa di fare per ora, si è di considerare la collettività secondo il suo astratto concetto dell' "uomo" per combatterla. Quale è ora l'oggetto della critica? "La collettività, un ente spirituale!" Il critico imparerà pure a conoscerla e s'accorgerà che sta in contraddizione coll'uomo e dimostrerà ch'essa è antiumana; e questa prova gli riuscirà altrettanto felicemente quanto la prima, che cioè la divinità e la nazionalità, vale a dire la religione e lo Stato, sono antiumani.
Il popolo è definito il più importante prodotto della rivoluzione, — la moltitudine ingannata che le illusioni del progresso politico, anzi in generale del progresso di tutto il secolo decimottavo, diedero in preda allo sconforto.
La rivoluzione per i suoi risultati soddisfò gli uni e lasciò insoddisfatti gli altri; la parte soddisfatta è la borghesia, l'insoddisfatta il popolo. Per questo rispetto il critico stesso non appartiene forse esso pure al popolo?
Ma i malcontenti procedono ancora a tastoni e il loro disagio morale s'esprime in un'ira immoderata. Questa si propone di vincere il critico, ch'è malcontento del pari: egli non può volere né raggiungere altro fine se non quello di liberar la moltitudine dall'angustia che l'affigge e "sollevare il morale" (come usano dire) dei malcontenti, assegnando il posto che per i risultati della rivoluzione loro spetta. Per ciò, egli vuol riempire il "profondo abisso che lo separa dalla massa".
Da coloro che vogliono innalzare le "classi popolari inferiori" egli si distingue per ciò, che non soltanto quelle, ma anche sé stesso intende liberare "dalla tristezza che l'affligge".
D'altro canto l'istinto non la tradisce quando lo avverte che la folla è un "nemico naturale della teoria" che quanto più "quella teoria andrà sviluppandosi, tanto maggior compattezza acquisterà la moltitudine". Poiché il critico, con la sua teorica dell'uomo, non è in condizione né di ammaestrare né di soddisfare la moltitudine. Se già di fronte alla borghesia questa non rappresenta che la classe "inferiore del popolo", una massa senza importanza politica, con maggior ragione di fronte all'uomo essa non altro rimase che una massa senza importanza per l'umanità, anzi barbara al tutto.
Il critico perviene così per dispetto a distruggere tutto ciò che è umano: infatti, movendo dalla premessa, che ciò ch'é umano è anche il vero, egli si dà la scure sui piedi, poiché viene a negar il carattere umano a tutto ciò cui finora era stato attribuito. Egli dimostra soltanto, che l'umano non si trova che nella sua testa, mentre l'antiumano si trova da per tutto. L'antiumano è il vero, il reale, ciò che trovasi in ogni luogo, ed il critico col dimostrarlo "non umano" non fa che esprimere chiaramente con una tautologia la verità della mia affermazione.
Ma che accadrebbe se l'antiumano voltandogli coraggiosamente il dorso mostrasse le spalle anche al critico che lo inquieta, e lo lasciasse stare, senza curarsi della sua obbiezione ?
Tu mi chiami antiumano, potrebbe dirgli, ed io sono tale effettivamente, per te: ma son tale per questa sola ragione: che tu mi contrapponi all'umano ed io non potevo disprezzare me stesso che sino a tanto che io mi ritenni vincolato a quel contrapposto. Io era spregevole, perchè cercavo fuori di me "la miglior parte di me stesso": io rappresentava l'antiumanesimo, perchè sognavo l'umanesimo: ero simile ai religiosi che hanno sete del loro vero "io" e restano tutta la vita dei "miseri peccatori"; io non mi concepivo che in rapporto ad un altro; in breve io non era il tutto nel tutto, non era l'unico. Ma ora ho cessato di apparire a me stesso antiumano, ho cessato di misurarmi e di lasciarmi misurare in relazione agli altri uomini, ho cessato di riconoscere qualche cosa al disopra di me stesso; e con ciò, ti saluto, mio bel critico umano!
Io fui l'antiumano, ma non lo sono più ora; ora io sono l'unico, anzi, ciò che più ti farà ribrezzo, sono l'egoista, non già l'egoista in rapporto coll'umanismo o col disinteresse, bensì l'egoista in sé.
Dobbiamo far rilevare anche un altro passo del fascicolo sovra accennato. "La critica non impone dogmi e non domanda che di conoscere le cose".
Il critico teme d'essere "dogmatico" o di imporre dei dogmi. Ed è naturale: poiché ciò essendo e facendo egli diventerebbe il contrario del critico: di buono, quale è presentemente, si farebbe cattivo, di disinteressato egoista, e cosi via. "Bando ai dogmi", ecco il vero dogma, poiché critico e dogmatico stanno sullo stesso terreno: quello del pensiero. Entrambi procedono dal pensiero, ma il critico si distingue dall'altro per ciò che egli non cessa di assoggettare il suo pensiero a un sistema che lo costringe continuamente a mutare. Egli fa valere il raziocinio contro la credulità del pensiero, il progresso del pensare contro l'immobilità del pensiero. Nessun pensiero è sicuro di andar immune dalla critica, poiché questa rappresenta il pensare, ovvero lo spirito pensante per eccellenza.
Da questo nasce — è bene ripeterlo — il mondo religioso — e tale è appunto il mondo dei pensieri che nella critica raggiunge la sua perfezione poiché l'operazione del pensare soverchia ogni pensiero singolo e gli impedisce d'immobilizzarsi "egoisticamente". Che ne sarebbe della "purezza della critica", della purezza del pensare, sé un solo pensiero potesse sfuggire all'operazione del raziocinio? Con ciò si spiega che critico di quando in quando arrivi persino a farsi gioco del pensiero dell'uomo, dell'umanità e dell' umanesimo, perché egli sente che qui c'è un pensiero che accenna ad avvicinarsi all'immobilizzazione dogmatica. Ma egli non può distruggere questo pensiero se prima non né abbia trovato uno d'ordine più elevato, nel quale quello possa risolversi; poiché egli non procede che per via di pensieri. Questo pensiero più elevato potrebbe esser chiamato il pensiero — per antonomasia — del "raziocinio" stesso, vale a dire il pensièro del pensare o della critica.
Con ciò la libertà del pensiero ha raggiunta la sua perfezione e la libertà dello spirito festeggia il suo trionfo : poiché i pensieri singoli egoistici, hanno perduta la lor forza, dogmatica. Null'altro è rimasto fuorché il dogma del libero pensiero o della libera critica.
Contro tutto ciò che appartiene al mondo dei pensieri, la critica ha dalla sua il diritto, cioè la forza: essa è vittoriosa. La critica, è la sola critica, è all' "altezza dei tempi". Nel rispetto del pensiero non v'é forza che la possa superare, ed è bello il vedere quanto facilmente, e quasi scherzando, questo mostro ingoi e divori tutto il brulicame degli altri pensieri, vermi che esso schiaccia nonostante le lor contorsioni e i loro avvolgimenti.
Io non sono un avversario della critica, o — per dir più proprio — io non sono un dogmatico, e non mi sento morso dal dènte col quale il critico azzanna il dogmatico. Se io fossi un dogmatico, io porrei un dogma, vale a dire un pensiero, un'idea, un principio in capo a tutto, e recherei ogni cosa a perfezione creando un sistema, componendo cioè un'architettura di concetti.
Se per contro io fossi un critico, io propugnerei la libertà del pensiero nuovo contro il pensiero che invecchia, difenderei il pensiero presente contro l'antico. Ma io non sono né il campione d'un pensiero, né quello del pensare, poiché io muovo dal concetto dell' "io" che non è né il pensiero singolo né l'atto del pensare. Contro l' "io" — l'innominabile, — s'infrangono e il regno dei pensieri, e quello del pensare e dello spirito.
La critica è la lotta degli ossessi contro l'ossessione : essa sorge dal convincimento che in ogni cosa esista l'ossessione, o, come dice il critico, esistono rapporti religiosi e teologici.
Egli sa che non pur verso Dio ci si comporta religiosamente — cioè guidati da una fede, da una credenza, — ma anche verso altre idee quali il diritto, lo Stato, la legge: e da ciò inferisce che l'ossessione è in ogni cosa. E così alla ragione ci si richiama contro i pensieri. Ma io dico invece che soltanto la mancanza di pensieri mi salva effettivamente dai pensieri. Non il pensare bensì là mia "assenza di pensieri", ovvero l' "io" — l'incomprensibile — mi salva dall'ossessione.
Una scrollata di spalle vale bene talora una meditazione; uno stirar delle membra mi può liberare da pensieri penosi; balzando in piedi io getto da me lontano l'incubo del mondo religioso; un grido di tripudio allontana da me un peso sopportato lunghi anni. Ma la significazione preziosissima d' un tripudio spensierato e liberatore non poté esser riconosciuta nella lunga notte del pensiero e della fede.
"Quale sciocchezza e quale frivolezza sono nel voler risolvere i più ardui problemi, i compiti più complessi mediante una interruzione improvvisa".
Ma hai tu dei doveri che tu stesso non ti sia imposto ? Sino a tanto che ti assegnerai tali compiti, è ben naturale che non ti daranno pace, ed è ben naturale ch'essi ti offrano materia a pensieri e che pensando tu crei a te stesso mille cure. Ma tu, che ti sei imposto un compito, non dovresti avere il potere d'annullarlo? Sei tu costretto ad esser vincolato a quel compito, e deve esso diventare assoluto?
Per accennare a una sola cosa fra tante, si è cercato di accusare l'autorità del governo, perché contro le idee esso adopera mezzi violenti e procede contro la stampa coll'arbitrio poliziesco della censura e muta una lotta letteraria in una personale. Così se si trattasse soltanto d'idee e come se verso le idee noi dovessimo comportarci con disinteresse e con virtù di sacrificio! Ma quelle idee non sono forse dirette contro gli stessi governanti, e non provocano esse forse in tal modo l'egoismo?
E i propagatori di quelle idee non mettono innanzi forse la pretesa religiosa del rispetto alla forza del pensiero, delle idee? Essi dovrebbero soccombere volontariamente e disinteressatamente, perchè la divina possanza del pensiero, Minerva, combatte al fianco dei loro nemici. Ma questo sarebbe un atto suggerito dall'ossessione, sarebbe un sacrifizio religioso.
Certamente anche i governi subiscono il fascino religioso e seguono la potenza direttiva d'un'idea o d'una credenza: ma in pari tempo sono degli egoisti, senza confessarlo (precisamente nella lotta contro i nemici erompe l'egoismo latente) sono ossessi quanto alla loro fede, ma si ritrovano ad essere egoisti di fronte alla fede degli avversari. Se si vuole far loro un rimprovero, conviene imputar loro d'esser ossessi, come gli altri, dalle proprie idee. Ai pensieri non dovrebbe opporsi alcuna potenza egoistica, nessuna violenza poliziesca ecc. Cosi credono quelli che hanno fede nella ragione, ma l'attitudine del pensare e i concetti per me non sono cose sacre ed io difendo la mia pelle anche contro di loro: Ciò sarà irragionevole ma se io sono vincolato alla ragione, io dovrò, secondo Abramo sacrificarle ciò che ho di più caro.
Nel regno del pensiero (il quale, al pari di quello della fede, è il regno dei cieli), ha certamente torto colui che adopera la violenza cieca, come ha torto ognuno che voglia procedere senza amore per il regno dell'amore — o che cristiano si comporti anticristianamente; ciascun di costoro si rivela un egoista, perchè vuole appartenere a uno di questi regni e sottrarsi tuttavia alle lor leggi. Ma s'egli vorrà sottrarsi non più alla legge soltanto ma alla stessa costituzione di questo regno e pretendere di non esservi più soggetto, egli apparirà allora addirittura un delinquente.
Il pensatore è nel suo diritto allorché lotta contro le idee del governo (il governo resta di solito muto e nel rispetto della letteratura nulla sa obiettare); è per contro nel torto, cioè impotente, quando null'altro che pensieri sa metter in campo contra un potere personale (il potere egoistico chiude la bocca al pensatore). La lotta teoretica non può condurre alla vittoria finale e la santa potenza del pensiero soccombe alla prepotenza dell'egoismo, dacché soltanto la lotta egoistica, la lotta di egoisti d'ambo le parti, può venir a capo d'ogni cosa.
Ma questo è fare del raziocinio un oggetto del capriccio del singolo — è ridurlo a un dilettantismo e toglierli ogni importanza; quest'umiliazione e profanazione del pensare, questo pareggiar l'io che pensa all' io che non pensa, questa rozza, ma purtroppo reale, "uguaglianza", la critica non può formularla, poiché essa stessa non è che la sacerdotessa della ragione, e di là dal pensiero non scorge altro che l'universale ruina.
La critica sostiene bensì che essa, qual libera critica, può trionfare dello Stato, ma si schernisce, in pari tempo dal rimprovero che le vien mosso dal governo dello Stato, ch'essa "sia arbitrio e impudenza"; essa ritiene che non all'arbitrio ed alla impudenza, ma alla virtù sua debba attribuirsi la vittoria. Invece l'opposto è giusto: lo Stato non può essere vinto che dallo arbitrio impudente.
Si potrà concludere da questo, per finire, che il critico nella sua nuova evoluzione non si è già trasformato, ma solo ha "chiarito una data questione"; se non che egli procede troppo oltre quando afferma che la "critica critica sé stessa"; essa, o piuttosto egli, non ha fatto che criticare un errore commesso e purificarsi delle sue "assurdità". Se il critico presumesse di criticare la critica, dovrebbe anzitutto accertarsi se nella ipotesi onde questa procede c'è qualche cosa che valga.
Dal mio canto io muovo dalla ipotesi dell' "io": della mia premessa io non mi valgo che per mio vantaggio. Io mi nutro precisamente della mia premessa e non esisto se non perchè mi nutro di essa, ma appunto perciò questa è in fine più e meglio che una ipotesi, poi che siccome io sono l'unico, cosi io ignoro l'esistenza d'un dualismo in me stesso, del dualismo d'un io che premette e d'uno ch'è premesso (d'un io imperfetto e d'uno perfetto, che sarebbe l'uomo): per me il fatto che "io mi assorbo" significa che io sono. Io non premetto che io sia, perchè in ogni momento io mi ammetto e creo, e sono " io " non per ciò che io sia premesso, ma per ciò che io sono ammesso da me medesimo vale a dire per ciò che io sono in pari tempo il mio creatore e la mia creatura.
Se le ipotesi fatte sinora devono dissolversi del tutto, esse non devono assorbirsi in un'altra ipotesi più elevata cioè nel pensiero o nel pensare, nella critica Quel dissolvimento deve operarsi in mio vantaggio altrimenti esso rientrerebbe nella categoria innumerevole di quelli che a pro d'altri, per esempio dell'uomo, di Dio, dello Stato, della morale pura ecc., proclamarono menzogna le antiche verità, ed abolirono ipotesi da gran tempo ammesse per vere.

Max Stirner

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