lunedì 26 agosto 2013

LA MIA GIOIA (primo frammento)

'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''

PARTE SECONDA --- IO
La mia gioia [ primo frammento ]


Noi ci troviamo all'estremo confine d'un periodo. Il mondo, qual'è stato sinora, non s'è curato che di conquistar la vita — né d'altro s'è preso pensiero che della vita. Poiché — sia che noi ci adoperiamo per conservarci la vita quaggiù, sia che ci travagliamo per acquistar la vita lassù — sia che aneliamo al "pane quotidiano" (dacci il nostro pane quotidiano), sia che aspiriamo al pane celeste (il vero pane del cielo, il pane divino, che viene dal cielo e dà vita al mondo, il pane della vita, Giov., 6) — sia che provvediamo alla " misera vita " sia che intendiamo alla "salute eterna" — il nostro fine si chiarisce pur sempre questo solo: la vita. Le tendenze moderne si presentano forse sotto diverso aspetto ?
Si vuole che a nessuno più sia tolto il modo di procacciarsi ciò di cui abbisogna per la vita e che l'uomo abbia a prendersi cura della terra e del mondo reale senza preoccuparsi del di là.
Consideriamo la stessa cosa di un altro punto di vista. Chi è preoccupato soltanto di vivere, dimenticherà facilmente di godere la vita. Or in qual modo si gode la vita? Consumandola al pari d'una candela.
Ebbene — noi andiamo in cerca della gioia! Che fece il mondo religioso? Esso ricercava la vita. "In che cosa consiste la vera vita, la beatitudine della vita, ecc.? Come si può raggiungerla?
Che cosa deve fare l'uomo per vivere veramente? Come adempie esso alla sua vocazione?
Queste e simili questioni denotano che quelli che così interrogano ricercavano prima d'ogni cosa se stessi. Quello che io sono non è che fumo ed ombra; quello ch'io sarò è il mio vero io". Dar la caccia a quest'io, attuarlo, ecco il difficile compito proposto dalla religione ai mortali, i quali non muoiono che per risuscitare, non vivono che per morire e ritrovar nella morte la vera vita.
Io non appartengo a me stesso se non quando son sicuro di me e più non mi cerco. Per contro sino a tanto che penso che il mio vero io sia ancora da scoprire, e che per ottener questo sia d'uopo ch'io creda che non io, ma Cristo o qualche altro io spirituale — vale a dire fantastico — viva in me, io non posso essere soddisfatto di me stesso.
Una distanza immensa separa queste due concezioni. Nell'antica io cammino verso me stesso, quale mia mèta; nella moderna io parto da me stesso. Nell'una io provo desiderio di me; nell'altra io mi possiedo e dispongo di me, come faccio di qualunque altra cosa che m'appartenga, — io godo di me stesso secondo il piacer mio. Io non trepido più per la vita: la "consumo".
La ricerca non è più questa dunque: come io debba acquistare la vita; ma quest'altra; come io possa spenderla, goderla; non più come io debba formare il mio io, bensì come io abbia e dissolverla, ed esaurirlo.
Che cosa è l'ideale se non l'io lontano di cui si va in cerca? Si cerca sé stessi, dunque non si ha finora il possesso di sé stessi; si anela a ciò che dobbiamo diventare: dunque si riconosce che l'ideale è ancora inattuato. Si vive nella brama inappagata: e per millenni di che altro si visse se non di brame e di speranze? Ma ben altra sarà la vita della gioia.
Queste parole son forse rivolte ai soli uomini religiosi? No, son rivolte a tutti coloro che appartengono al periodo storico che ora sta tramontando; anche ai così detti uomini di mondo.
Anche per costoro ai giorni di lavoro seguono le feste; pur essi in mezzo all'agitazione mondana si cullano nel sogno d'un mondo migliore, di una felicità universale, in somma d'un ideale.
Ma agli uomini religiosi è uso per lo più contrapporre i filosofi. Ebbene, hanno mai costoro pensato a qualche altra cosa che non fosse un ideale, od un "io" assoluto? Dappertutto desideri e speranze, e null'altro! Chiamate pur ciò, se vi piace, romanticismo.
Se il godimento della vita deve trionfare del desiderio della vita, è pur necessario ch'esso ne trionfi nella duplice forma che lo Schiller ci presenta col nome di "ideale per la vita", che esso distrugga la miseria religiosa e sociale, che sperda l'ideale, che annienti la causa del pane quotidiano. Chi deve logorar la vita, per salvarsi dalla fame, non può goderla; chi va in cerca della sua vita, non la possiede e può goderla ancor meno. L'uno e l'altro sono poveri, ma di essi è il regno dei cieli.
Se a coloro che sperano in una vita futura, e considerano la presente come una preparazione a quella, riesce accettabile la schiavitù della loro esistenza terrena che dedicano interamente al servizio della sperata vita celeste, non è men vero che anche le persone più colte posseggono ugual virtù di sacrificio. Nella "vera vita" non si trova forse un significato molto più esteso di quello che nella "vita celeste"? Può forse alcuno vivere per la sola virtù del suo istinto secondo un tal principio, o non basta invece a ogni uomo cotesto indicibile sforzo? La possiede egli già questa sua ideal vita, o non deve invece conquistarla appunto come una vita futura, di cui sarà meritevole solo allorquando si sarà deterso da ogni macchia di egoismo? Sotto questo aspetto non si vive che per acquistare la vera vita. Per ciò appunto si ha paura di godere la vita, dacché essa non deve servire che a un altro uso — più remoto.
All'esistenza in somma è prefissa una missione, un compito cui la vita è mezzo e strumento.
V'è a tutti i modi un Dio, che esige una vittima vivente. Il rozzo costume dei sacrifizi umani non ha che mutato la sua forma, nella sostanza è rimasto; e ad ogni ora i colpevoli cadono vittime della giustizia, e noi "poveri peccatori" immoliamo noi stessi all' "essenza umana", all' "idea dell'umanità", all' "umanesimo" ed agli altri idoli, comunque ci si chiamino. E poiché noi dobbiamo la nostra vita ad un ideale, noi non abbiamo — ecco ciò che ne consegue immediatamente — il diritto di ucciderci.
La tendenza conservatrice del Cristianesimo non consente che si pensi alla morte altrimenti che a un passaggio ad un'altra vita eternamente duratura. Il cristiano sopporta ogni più trista cosa e si rassegna a ogni offesa e ad ogni male purché — da vero ebreo — gli si conceda di entrare; anche di contrabbando, nel paradiso. Uccidersi non gli è permesso, egli non può che conservar sé medesimo per attendere a prepararsi la futura dimora. Il conservarsi gli sta a cuore, "L'ultimo nemico che sarà tolto è la morte" (1 Cor. 15, 26.). Cristo ha strappato alla morte ogni potere ed ha creato la vita e l'essenza imperitura mediante il vangelo (2 Tim. 1, 10.).
L'uomo morale vuole il bene, il giusto; e se egli usa i mezzi che conducono a quel suo fine, riconosce però che questi mezzi non sono propri a sé, ma al bene, al giusto, ecc. Da ciò la massima che il fine santifica i mezzi. L'uomo morale agisce al servizio d'un intento o d'una idea; egli fa di sé stesso uno strumento del concetto del bene, allo stesso modo che l'uomo religioso fa di sé uno strumento di Dio. Attender la morte, ecco ciò che il principio del bene ci impone; darsela volontariamente è dunque cosa immorale e malvagia. Il suicidio non può quindi esser giustificato in alcun modo dinanzi al tribunale della moralità. Se la religione lo vieta perchè Dio t'ha data la vita e Dio solo può togliertela (come se, anche accettando questo modo di vedere, Dio non me la togliesse col risvegliare in me l' idea del suicidio, allo stesso modo che mi fa trovare la morte per una tegola che mi cade addosso o per una palla nemica che m'uccide); la moralità lo proibisce perchè "io sono in debito della mia vita alla patria, ecc.", "perché io non so se vivendo non potrei fare ancora del bene" e cosi, a tutti i modi, perchè colla mia morte il bene perde un suo strumento, come lo perde Dio. Se io sono immorale devo serbarmi in vita per farmi migliore, se io sono "empio" devo vivere per il ravvedimento. Dunque chi si uccide o dimentica Dio o dimentica il dovere. Cosi si ragiona.
Fu molto discussa la questione se la morte d'Emilia Galotti possa giustificarsi nel rispetto della morale (la si considera quale un suicidio, perchè tale è in realtà). Che essa sia sì fattamente posseduta dall'idea della castità da sacrificarle la vita, è certo una cosa morale, ma che essa non sappia vincersi è per converso immorale. Di tali contraddizioni del resto si compone il conflitto nelle tragedie morali; bisogna pensare e sentire secondo la morale umana per trovarci un interesse qualunque.
Cose non diverse debbono dirsi per l'umanità, poiché anche a questa — all' uomo, alla specie "uomo" — si è in debito della propria vita. La conservazione della vita non diviene cosa mia se non quando io più non riconosco alcun dovere verso chicchessia. "Un salto giù da questo ponte mi rende la libertà".
Ma se noi siamo in debito della conservazione della nostra vita a quell'essere che dobbiamo attuare in noi, non è meno dover nostro di non condurre questa vita secondo il nostro piacere ma di informarla invece a quell'ideale.
Or quanto diversamente tal ideale fu inteso ne' vari tempi, e come ne muta il concetto pur in una medesima età presso popoli diversi! Quali cose esige l'ente supremo del maomettano e quanto diverse cose quello del cristiano! Come differente dunque deve essere la vita dell'uomo da quella dell'altro! Soltanto nel ritenere che l'ente supremo debba regolare la nostra vita le fedi religiose vanno d'accordo. Gli uomini religiosi appartengono ad un periodo di civiltà già oltrepassato e debbono esser lasciati al lor luogo. Ai nostri tempi non più essi ma i liberali prevalgono, e la stessa religione è costretta a darsi colore di liberale. Ora i liberali non adorano in Dio l'arbitro delle loro azioni e non regolano la vita secondo i suoi precetti: mirano all' "uomo"; essi non intendono vivere "secondo Dio", bensì "secondo l'uomo".
L'uomo è per i liberali l'ente supremo, l'arbitro della vita, e l'umanità è il catechismo, al quale ciascuno deve informare le sue azioni. Dio è spirito, ma l'uomo è lo "spirito, perfettissimo", il risultato finale della lunga caccia data allo spirito, o delle indagini nelle profondità del divino, cioè dello spirito.
Ciascuno dei tuoi atti dev'essere umano; tu stesso devi informarti a questo ideale tipo d'uomo.
Tale è la tua vocazione.
Vocazione — destinazione — compito; nulla più che illusioni!
Ciascuno diventa quel che può diventare. Un poeta-nato può da circostanze sfavorevoli esser impedito d'innalzare e di creare delle opere d'arte perfette sebbene vi si sia preparato coi grandi studi che sono a ciò necessari; ma egli farà delle poesie, a ogni modo, tanto se costretto a lavorare i campi, quanto se ospitato alla corte di Weimar. Un musicista-nato farà della musica, e se gli mancheranno strumenti, s'accontenterà d'una canna. Chi ha da natura inclinazione alle speculazioni filosofiche se non potrà diventare professore d'università sarà almeno un filosofo da villaggio. Finalmente chi è nato sciocco ed è tuttavia dotato d'una certa astuzia (ciò che accade molto spesso) resterà sempre uno sciocco anche se a forza di spinte diventerà un capo divisione o il lustrascarpe di un capo divisione. Sì, le teste ottuse sin dalla nascita formano indubbiamente la classe più numerosa dell'umanità. O perchè non si dovrebbero manifestare anche nell'uomo quelle diversità che si riscontrano in tutte le specie d'animali?
Tuttavia ben pochi sono imbecilli a segno da essere inaccessibili a ogni idea. Per ciò è opinione comune che non v'è uomo che non sia capace di religione e che non possa anche accogliere in maggiore o minor grado, qualche insegnamento di scienza o d'arte: per esempio alcune nozioni di musica o un po' di filosofia. E qui appunto incomincia la faticosa opera dei sacerdoti della religione, della moralità, della civiltà, della scienza, e finisce alla pretesa dei comunisti, i quali, mediante la loro "scuola popolare", vorrebbero rendere accessibile il tutto a tutti.
Non basta l'aver avviato alla religione il popolo, si pretende ora che esso si occupi anche di tutto ciò che e "umano". E la disciplina si fa per tal modo sempre più generale e complessa.
Voi poveri esseri, che condurreste vita così felice se poteste saltare a piacer vostro, siete costretti a ballare secondo il flauto dei maestri di scuola e dei conduttori d'orsi, e a far delle capriole che nulla vi gioveranno nella vita. E non osate nemmeno ribellarvi se vi si prende sempre per quel verso che è contro la vostra natura. No; voi ripetete meccanicamente l'interrogazione che vi fu insegnata. A che cosa sono io chiamato? Quale è la cosa ch'io devo fare? Così, basta che facciate a voi stesso queste domande, ed eccovi ridotti a tollerare che vi si dica e vi s'imponga di fare come gli altri vogliono, a lasciarvi imporre la vostra vocazione, o a prescriverla da voi stessi secondo i precetti dello spirito. E in quanto alla volontà, finirete col dire: io voglio quello che devo fare.
L'uomo non è chiamato a cosa alcuna, non ha nessun compito, nessuna destinazione, meglio che possa averli una pianta o un animale. Il fiore non obbedisce ad una vocazione di perfezionare la sua bellezza, ma adopera invece come meglio può le proprie forze: per poter godere e trar dal mondo il miglior vantaggio, esso assorbe tanti succhi dalla terra, tant'aria dall'etere, tanta luce dal sole, quanto ne può ottenere e contenere. L'uccello non sa di vocazione, ma usa delle sue forze nel miglior modo possibile; va in caccia d'insetti e canta finché gli piace. Eppure le forze del fiore e dell'uccello sono ben meschine in confronto a quelle dell'uomo, cui è prescritta — come nella vita stessa — un'operosità perenne. Si potrebbe dunque dire all'uomo: usa delle tue forze.
Se non che da questo imperativo sarebbe pur d'uopo inferire esser insita nell'uomo una legge cui egli deve obbedire. Ma così non é. Ognuno adopera, sì, le proprie forze, ma senza che ciò sia per lui un compito; in ogni momento ciascuno adopera tutta la forza di cui è capace. Si dice, è vero, parlando di chi soccombe, che egli avrebbe dovuto usare una maggior forza; ma si dimentica che se avesse potuto farlo, presso a soccombere, lo avrebbe fatto. Sia durato anche solo un istante lo scoraggiamento, ciò equivale all'impotenza d'un minuto. Le forze si possono certamente affinare e moltiplicare particolarmente per una resistenza al nemico o per un aiuto amico; ma quando si tralascia di adoperarle, si può esser ben certi che esse sono venute meno. Si può sprigionare il fuoco da una pietra; ma senza un colpo, senza un forte attrito, il fuoco non si sprigiona; non altrimenti l'uomo abbisogna d'una scossa.
Se le forze sono sempre attive per sé stesse, il precetto di adoperarle è superfluo e senza senso.
Adoperare le proprie forze non è la vocazione dell' uomo, non è il suo compito, bensì è la sua azione necessaria in ogni momento. La parola "forza" è una semplificazione per esprimere la manifestazione della forza.
Sicché, come la rosa è sempre, fin da principio, una vera rosa e l'usignolo è sempre un vero usignolo, così io non divento uomo solo quando corrispondo alla mia vocazione, bensì sono sin dalla mia nascita un "vero uomo". Il mio primo balbettare è indizio di vita d'un "vero uomo", le mie lotte per l'esistenza sono le manifestazioni della mia forza, il mio ultimo respiro è l'ultimo esaurirsi della forza dell'uomo.
Non nell'avvenire, oggetto eterno di desideri, sta il vero uomo bensì nel presente e nella realtà.
Come e chiunque io sia, lieto o addolorato, bambino o vecchio, fiducioso o dubbioso, dormente o vigilante, io sono io, io sono il vero uomo.
Ma se io sono l'uomo e ho ritrovato in me quell'essere che l'umanità religiosa mi additò quale una mèta lontana, è forza concludere, che, dunque, tutto ciò che è veramente umano m'appartiene. Quella libertà dei commerci, p. es., che l'umanità anela sempre di conseguire, e che si fa brillare dinanzi agli sguardi come un sogno incantevole sconfinante nell'avvenire, io me l'approprio senz'altro e la esercito frattanto sotto forma di contrabbando. Certamente saranno ben rari quei contrabbandieri che sapranno rendersi conto dei motivi del loro agire, tuttavia l'istinto dell'egoismo supplisce al difetto di coscienza. Della libertà di stampa ho dimostrato più sopra la stessa cosa.
Ogni cosa m'appartiene, e per ciò io mi riprendo quello che mi si vuol sottrarre, ma anzitutto riprendo possesso di me stesso ogni qualvolta cado inavvertitamente nella soggezione d'altrui. E ciò non per una mia vocazione, bensì per un mio atto naturale.
In somma v'ha immenso divario tra il considerare le cose come punto di partenza e il considerarle come punto d'arrivo. In questo ultimo caso io non possiedo ancora me stesso, la vera mia essenza mi è estranea e si prende gioco di me come un fantasma dai mille aspetti. E poiché io non sono ancor io, un altro mi si sostituisce (Dio, il vero uomo, l'uomo religioso, l'uomo ragionevole, libero ecc.).
Lontano ancora dall'aver raggiunto me stesso, io mi divido in due parti, delle quali l'una, quella che attende il conseguimento e l'adempimento della promessa, è la sola vera ; l'altra la falsa, deve essere sacrificata. Allora si dice: "Lo spirito è la vera essenza dell'uomo"; oppure: L'uomo non esiste che spiritualmente come tale è. Ed allora noi ci affaccendiamo disperatamente nella ricerca dello spirito, come se con esso riuscissimo ad attuare la nostra essenza; e in quell'indagine faticosa e vana perdiamo di vista noi stessi.
E come impetuosamente si tiene dietro all'ideale — non mai raggiunto — di se stessi, così si trascura anche il precetto dei savi, di prender cioè gli uomini quali sono, e li si prendono invece quali dovrebbero essere, e si esorta ognuno a dar la caccia a sé stesso, a quell'essere che dovrebbe essere formato "da tutti gli uomini perfettamente uguali per diritto, moralità e ragionevolezza" [(1) Il Comunismo nella Svizzera, p. 24.].
Certe, si dice, "se gli uomini fossero quali dovrebbero o quali potrebbero essere; se tutti gli uomini fossero ragionevoli, e si amassero come fratelli" [(2) Op. cit., p. 63.], questa sarebbe una vita di paradiso.
Ebbene — rispondiamo — è così appunto: gli uomini sono quali devono e possono essere.
Come dovrebbero essere? Non diversi certo da quello che possono essere!
E che cosa possono essere? Non altra cosa da quella che sono: una forza. E forze, sono realmente, poiché non possono essere altra cosa, fuor di quella che sono.
Una persona che sia ammalata di cataratta può essa vedere? Sì, quando si sia fatta operare con successo. Ma come cieca essa non può più vedere, per questa semplice ragione: che non vede»
Possibilità e realtà coincidono sempre. Nulla si può che non si faccia, e per converso nulla si fa che non si possa.
La singolarità di quest'affermazione sparisce, se si considera che le parole "è possibile che...." non celano mai altro significato senonché questo: "io posso pensarmi, che.....". Per esempio, l'affermazione: è possibile che tutti gli uomini vivano secondo la ragione, vuol dire; io posso immaginarmi che tutti gli uomini vivano ragionevolmente. Ma siccome col mio pensiero non posso ottenere, e non ottengo di fatto, che tutti gli uomini vivano ragionevolmente, e quindi devo lasciare ciò in facoltà degli uomini, così la ragione universale non può esser immaginata che da me, è una realtà che, per riguardo a quello che io non posso fare, è chiamata una possibilità. Per ciò che dipende da te, tutti gli uomini potrebbero essere ragionevoli, poiché tu non ci avresti nulla in contrario, anzi, per quanto tu possa spaziare col pensiero, tu non saprai scoprire alcun ostacolo che a ciò s'opponga, e perciò nulla si oppone a che tu possa immaginare una tal cosa: essa è per te possibile.
Ma siccome gli uomini non sono tutti ragionevoli, bisogna credere anche che non possano esser tali.
Se una cosa, che immaginiamo possibilissima, non è o non avviene, si può esser sicuri, che c'è qualche impedimento di mezzo e che quella cosa è impossibile. La nostra età ha la sua arte, la sua scienza, ecc. L'arte odierna, ad esempio, sarà pessima, ma è per noi la sola possibile e perciò reale.
Anche interpretando la parola "possibile" nel senso ch'essa voglia significare qualcosa di "futuro", il possibile mantiene nonostante tutta la piena forza del "reale". Se si dice p. es., "è possibile che domani sorga il sole", ciò non vuol dir altro se non che: "per l'oggi il domani è il futuro reale"; perchè è superfluo osservare che il futuro è solo allora veramente "il futuro" quando non s'è finora avverato.
Ma a che queste interpretazioni di singole parole? Se dietro ad esse non si nascondesse un malinteso ormai secolare se tutta la fantasmagoria da cui è posseduta l'umanità non s'aggirasse intorno al concetto di questa parola "possibile", non metterebbe conto da vero che noi ce ne occupassimo.
Il pensiero, come abbiamo dimostrato, domina il mondo. Ebbene, la possibilità non è che ciò che può capire nell'immaginazione ed a questa orribile immaginazione furono immolate innumerevoli vittime. Era possibile immaginare che gli uomini diventassero ragionevoli; possibile immaginare ch'essi comprendessero il Cristo, che s'esaltassero per il bene e per la moralità; possibile il pensare che tutti riposassero nel grembo della Chiesa, che nessuno s'argomentasse di rovesciare lo Stato, che tutti potessero essere dei buoni sudditi; e per la ragione che era possibile rappresentarsi tutto ciò, la cosa — ecco la conclusione — doveva esser possibile essa stessa; e più anche, perchè agli uomini ciò era possibile (qui sta l'errore da che altro è che io immagini una cosa, altro che questa cosa debba essere possibile agli uomini) essi dovevano essere così e non altrimenti, e avere quella missione ed essere alla stregua di quella missione giudicati.
A che cosa si arriva procedendo di questo passo? L'uomo quale fu immaginato dai metafisici è un pensiero, un ideale, un fantasma di fronte al quale il singolo è ciò che il punto tracciato colla creta è di fronte al vero punto matematico, o ciò che una creatura di fronte all'eterno creatore, o, secondo le idee più recenti, ciò che l'esemplare di fronte alla specie. E qui trova sua espressione la glorificazione dell' "umanità", "l'eterno immortale", in onore di cui (in majorem humanitatis gloriam) il singolo deve sacrificar sé stesso, considerando come suo unico vanto immortale l'operare a vantaggio dello "spirito umano".
In tal modo coloro che pensano hanno il dominio del mondo, finché dura la scuola dei maestri e dei preti, e quello ch'essi pensano è possibile e quello che è possibile deve tradursi in realtà.
Essi pensano un ideale umano, che, pel momento, non esiste se non nei loro pensieri; ma essi pensano anche alla possibilità di attuarlo, e l'attuazione — ciò è indiscutibile — può esser realmente immaginata: è un'idea.
Ma io e tu saremo, supponiamo, tra coloro di cui è possibile formare, secondo i desideri di un Krummacher, dei buoni cristiani; pure, se alcuno tentasse di catechizzarci, noi sapremo ben fargli comprendere che il nostro Cristianesimo può esser immaginato ma non attuato. E se costui insistesse per ridurci quale il suo pensiero o la sua fede ci vagheggiano, egli dovrebbe pur accorgersi al fine che noi non abbiamo nessun bisogno di diventare ciò che non vogliamo essere a nessun patto.
E così di seguito, anche lasciando da parte i religiosi. Si suol dire; "se tutti gli uomini fossero ragionevoli, se tutti operassero equamente, se tutti fossero guidati dall'amore del prossimo" ...
Ragione, giustizia, amor del prossimo, ecc., tutto ciò si vuol far credere esser la missione degli uomini, l'unica mèta d'ogni loro aspirazione. Ma che cosa significa essere ragionevoli? Intendere la propria voce interna? No, la ragionevolezza é un libro pieno di leggi tutte rivolte contro l'egoismo.
La storia sino ai nostri giorni non rispecchia che l'uomo spirituale. Chiuso il periodo della sensualità, s'inizia quello dello spiritualismo, del soprannaturale, del trascendentale. L'uomo incomincia ad essere qualche cosa ed a voler diventare qualche cosa. Ma che cosa? Buono, giusto, vero; più oltre, morale, pio, costumato, ecc. Egli vuol fare di se stesso un "vero uomo", qualcosa di "buono". Il tipo astratto dell' "uomo" diventa la sua mèta, il suo dovere, la sua destinazione, la sua missione, il suo compito — insomma, il suo ideale: per sé stesso egli è un essere di là da venire. E che cosa lo aiuta a diventare un "uomo" ideale? L'essere veritiero, buono, costumato, ecc. Da allora in poi egli guarderà biecamente tutti coloro che non riconosceranno al pari di lui quell'idea, e non andranno in cerca della lor moralità, della lor fede. Egli li respingerà quali "settari, eretici" ecc.
Ma né la pecora né il cane s'affaticano a diventare delle vere pecore, dei veri cani; a nessun animale il proprio essere appare come un compito, un concetto, ch'esso sia tenuto ad attuare.
L'animale svolge l'individualità sua vivendo, vale a dire consumandosi, dissolvendosi. Esso non domanda di essere qualche altra cosa da quella ch'esso è.
Credete forse ch'io voglia consigliarvi d'imitare i brutti? No, certo — poiché anche questo sarebbe un nuovo compito, un ideale nuovo.
Del resto tanto farebbe desiderare che gli animali diventassero uomini. La vostra natura in fin dei conti è l'umana, voi siete uomini. Ma per ciò appunto non c'è alcun bisogno che cerchiate di diventare tali. Anche gli animali possono essere "addomesticati" ed "ammaestrati" e apprendere così a far molte così che sono contro la lor natura. Se non che un cane ammaestrato non è da più d'un cane secondo natura: il vantaggio non è suo, è nostro.
Dai tempi più remoti fu continuo lo sforzo di render morali, ragionevoli, più umani in somma tutti gli uomini, nel che è l'arte d'ammaestrare. Ma quella tendenza s'è sempre urtata alla indomabilità dell'individuo, alle particolarità naturali, all'egoismo. Coloro che si lasciano ammaestrare non ottengono mai il loro fine, e soltanto colle labbra professano i lor sublimi principi. Di fronte a questa professione di fede essi nella vita sono costretti a riconoscersi sempre per peccatori incapaci di attuare la lor chimera, "uomini vili" condannati a gemere sorto il "pondo dell'umana debolezza".
Altro accade quando tu non insegni nessun ideale, ma vai dissolvendo te stesso così come tutto si dissolve nel tempo. Il dissolvimento non è la tua "destinazione" poiché esso è il presente.
La coltura religiosa ha bensì resi liberi gli uomini, ma per darli in mano a un nuovo padrone.
Io ho appreso dalla religione a frenare le mie passioni, dalla scienza a trionfare delle resistenze esteriori; e posso anche dire che non servo ad alcun uomo. Ma adesso viene il bello: Tu devi obbedire prima a Dio che agli uomini. Io sono certamente libero dalla irragionevole destinazione dei miei istinti: se non che, ecco, sono schiavo della padrona: la ragione. Io ho acquistato la libertà spirituale, la libertà dello spirito. Ma con ciò son divenuto lo schiavo appunto dello spirito. Lo spirito mi comanda, la ragione mi guida, essi sono i miei padroni e i miei duci.
Prevalgono i "ragionevoli", i "servi dello spirito"; ma se io non sono soltanto carne non son certamente nemmeno spirito solo. Io sono qualche altra cosa oltre spirito e carne, poiché la libertà dello spirito equivale a schiavitù di me stesso.
Senza dubbio la civiltà m'ha reso forte. Essa mi ha concesso dominazione su tutti gli impulsi esteriori ed interiori. Mercé la coltura io ho acquistato la forza di non lasciarmi più domare da nessuna delle mie passioni, sensazioni, emozioni, ecc.: Io sono padrone di essere. Ancora: mediante le scienze e le arti, io mi rendo padrone di tutto ciò che mi contrasta: a me obbediscono il mare e la terra, e perfino gli astri sono obbligati a rendermi conto della loro essenza. Lo spirito m'ha reso ragione di tutto. — Ma sullo spirito io non ho alcun potere. La religione (l'educazione) m'insegna, è vero, il modo di "vincere il mondo", ma non già quello di soggiogare Dio e di rendermene padrone; poiché " Dio è lo spirito ". Oltre a ciò, lo spirito, che io non possa padroneggiare, può assumere le forme più diverse, può aver nome Dio o Popolo, Stato o Famiglia, Ragione o Libertà.
Io accetto volentieri quello che secoli di coltura hanno ottenuto per me; nulla di ciò io voglio abbandonare e a nulla rinunziare; io non ho vissuto invano. L'esperienza che mi diede il potere sulla mia natura e mi liberò dal servaggio delle mie passioni, non sarà perduta per me. Essa, che mi die' modo, di soggiogare il mondo, è stata acquistata a troppo caro prezzo; non io la vorrò dimenticare. Ma tutto questo non mi basta.
Si domanda, quale più alta mèta possa prefiggersi all'uomo, quali beni egli possa ancora acquistare; e gli si pone dinanzi senz'altro il più arduo compito quale una sua missione. Come se a me fosse possibile ogni cosa !
Quando si vede che taluno è travolto da una mania o da una passione, nasce in noi il desiderio di salvarlo da quella sua ossessione e d'aiutarlo a vincerla, "Vogliamo fare di lui un uomo!" Tutto ciò sarebbe una bella cosa, se al posto di quella idea fissa non se ne collocasse immediatamente un'altra. Ma non si sa redimere chi è schiavo del denaro se non dandolo il potere della religione, sottraendolo così ad una schiavitù per assoggettarlo ad una schiavitù nuova.
Questa trasposizione dall'uno all'altro servaggio, via via più astratta, è espressa così: i sensi non devono essere rivolti alle cose periture, bensì unicamente alle eterne, non alle cose temporali, ma alle perpetue, assolute, divine, prettamente umane, ecc. — vale a dire alle cose dello spirito.
Si comprese molto presto che non era indifferente la cosa, cui il cuore s'affezionava o di cui ci si occupava: si riconobbe l'importanza dell' "oggetto". Un oggetto elevato sopra le particolarità delle cose è l'anima delle cose; quest'anima è anzi ciò che solo può esser immaginato, ciò che solo veramente esiste per l'uomo pesante. Dunque ti conviene non più rivolgere i tuoi sensi alle cose, bensì i tuoi pensieri all'essenza delle cose. "Beati son coloro che non vedono, e pur credono". Ciò significa: beati son coloro che pensano, poiché essi hanno a fare coll'invisibile, e ci credono. Eppure anche tal oggetto del pensiero, che pel corso di secoli è stato un punto contrastato e discusso, finisce in un nulla. Si è compreso ciò; nondimeno si volle aver sempre di nuovo sott'occhi un qualche oggetto, il cui valore dovesse essere assoluto, come se le pappatoie per i bambini e per i turchi il Corano non fossero gli oggetti di maggior importanza. Sino a tanto che il mio io non è per me l' unica cosa che abbia pregio, è indifferente che io metta il mondo a rumore per un qualunque oggetto: solo un mio delitto contro quell'oggetto potrà avere importanza. Il grado della mia devozione manifesta la maggiore o minor servilità della mia condizione; il grado del mio peccato contro quell'oggetto rivela la misura dalla mia originalità.
Bisogna saperci liberare da tutte queste angustie — non fosse altro che per poter avere tranquilli i sonni: nessuna cosa può preoccuparci se noi non ce ne occupiamo; l'ambizioso non può liberarsi dai suoi disegni ne l'uomo religioso dal pensiero di Dio: idea fissa ed ossessione sono tutt'uno. Attuare il proprio essere, vivere secondo il suo concetto (il che per i credenti in Dio significa esser "pii", pei credenti nell'umanità esser "umani"), sarà compito dell' uomo sensuale o del peccatore ondeggiante tra l'ebbrezza dei godimenti e la tranquillità dello spirito. Lo stesso cristiano altro non è che un sensuale che crede nell'esistenza di cose sacre, ed ha coscienza di violarle, e perciò vede in se stesso un "povero peccatore". La sensualità, riconosciuta come peccaminosa, è la coscienza cristiana. E se i moderni non parlano più di "peccati", o del "peccato", ma invece s'affaticano a combattere l' "egoismo", l'interesse, ecc.; se il diavolo in somma s'è cangiato nell'uomo "antiumano", "nell'egoista", forse che per ciò il cristiano non esiste come prima? L'antico dissidio tra il bene e il male è forse cessato? Non v'ha forse al di sopra di noi un giudice supremo: l'uomo? La missione di diventar uomini veri non è forse rimasta? Se essa ora si chiama "compito" o "dovere" sarà esatto il nome, poiché l'uomo non è al pari di Dio un ente personale, che possa destinarci una determinata impresa, ma, con mutata parola, la cosa è rimasta quale era, Ciascuno ha con le cose i suoi propri rapporti, a cui conforma gli atti. Prendiamo ad esempio il libro, al quale ebbero la mente milioni di uomini pel corso di due millenni: la Bibbia. Che rappresentò esso per ciascuno di quegli uomini? Unicamente ciò che ciascuno volle trovarvi per se! Per chi non se ne curi affatto, la Bibbia nulla rappresenta; per chi l'adopera come amuleto, essa ha la virtù d'un incantesimo; per chi si trastulla con quel libro, come fanno i fanciulli, esso non è che un balocco: e così via.
Il cristianesimo esige che per tutti la Bibbia debba rappresentare ed essere un'unica cosa: cioè il libro sacro per eccellenza, la "sacra scrittura". Si vuol dunque imporre a tutti una sola fede: la cristiana — e pretendere che nessuno possa in relazione a quel libro sacro comportarsi come gli piace. Con ciò si distrugge la libertà nella condotta individuale, a si decreta per vero, unicamente vero un significato, un modo di sentire. Togliendomi la libertà di far della Bibbia quel che più mi piace, mi si toglie in generale la libertà d'azione, e in luogo di essa, mi si impone un'opinione o un giudizio. E così chi si permette di giudicare essere la Bibbia un millenario errore della umanità, si rende reo d'un crimine.
Ma in verità, il bambino il quale fa il libro a brani, l'Inka Atahualpa, che l'appressa all'orecchio e lo rigetta da sé con disprezzo quando s'accorge ch'esso rimane muto, giudicano così giustamente della Bibbia quanto il prete, che esalta in essa "la parola del Signore", o il critico, che la chiama opera di menti umane. Poiché il modo di considerare le cose appartiene al nostro arbitrio: noi ne usiamo come ci talenta, o, per meglio dire, nel modo che possiamo usarne. Di che cosa si lagnano con alte grida i preti, quando vedono un Hegel e i teologi metafisici cavar fuori dalla Bibbia pensieri di filosofia?
Appunto di ciò, che coloro usano della Bibbia come loro piace: "arbitrariamente".
Ma siccome nell'usare delle cose siamo tutti arbitrali; ne usiamo cioè così come a noi piace (nulla è più gradito al filosofo quanto lo scoprire in ogni cosa un'idea, nulla all'uomo pio quanto il trovar da per tutto l'immagine di Dio); così noi non ci abbattiamo in alcun altro campo ad una prepotenza così terribile, ad una costrizione così stupida — come nel campo del nostro arbitrio.
Se noi procediamo arbitrariamente, col prendere nel modo che meglio ci piace le cose sacre, con qual diritto potremmo rinfacciare agli spiriti religiosi l'uso che essi hanno di trattarci arbitrariamente a modo loro col ritenerci meritevoli del fuoco eterno, o di qualche altra pena, o per lo meno della censura?
L'uomo fa delle cose ciò ch'egli è; "così come tu vedi il mondo, il mondo vede te". Ma ecco che s'affaccia pronto il consiglio: tu devi osservare il mondo giustamente, spregiudicatamente.
Come se il bambino non guardasse serenamente e senza preconcetto la Bibbia, quando ne fa un trastullo! Questo saggio consiglio ci viene dal Feuerbach. Ma le cose non si osservano spregiudicatamente, se non quando si fa di esse quel conto che si vuole (col nome di cose, noi intendiamo tutti gli oggetti materiali e ideali, come Dio, il nostro prossimo, la donna amata, un libro, un animale, ecc.). Per ciò quel che più importa non è già l'oggetto o il modo d'osservarlo; bensì l'io, la mia volontà. Si vuol ricavare dalle cose l'idea, si vuole scoprire una ragione nel mondo: ecco perchè vi si trova quello che si cerca. "Cercate e troverete". Che cosa io debba cercare io solo ho diritto di decidere. Per esempio io voglio cercar edificazione nella Bibbia, e io ve la troverò. Io voglio leggere ed esaminare la Bibbia a fondo, e ne ritrarrò un profondo ammaestramento e argomenti sottili di critica — a seconda delle mie forze. Io scelgo quello che più è conforme ai miei desideri, e, così scegliendo, mi rivelo arbitrario.
Aggiungete che ogni mio giudizio sul conto d'un oggetto, è una creazione della mia volontà.
Da ciò nasce la convinzione che io non debba perdermi dietro la creazione, ma considerare me stesso quale l'unico che giudica e suscita sempre nuove forme e nuove cose. Tutti i predicati delle cose sono mie osservazioni, sono miei giudizi, sono mie creazioni. Se esse vogliono staccarsi da me e diventare entità per sé stesse, o, peggio ancora, imporsi a me, io le ricaccerò nel loro nulla, facendole rientrare in me, che le ho create. Dio, Cristo, la trinità, la moralità, il bene, ecc., sono tali creazioni, di lui io ho ben diritto dì giudicar che son vere come di affermare che son false. Allo stesso modo che io ho voluto e decretato che siano, così io devo poter volere e decretare che più non siano, non devo permettere ch'esse mi sopraffacciano, non devo esser debole tanto da consentire che esse si eternino e si sottraggano al mio potere. — Se così adoperassi io cadrei sotto la signoria di quel principio della stabilità che è il vero concetto vitale della religione, a cui troppo preme di creare delle "santità intangibili", delle "verità eterne", di porre in somma sopra di te qualche cosa sacra, per sottrarti a quello che ti è proprio.
L'oggetto fatto entità ci rende ossessi, quale che sia la forma — sensibile o soprasensibile, sacra o profana — in cui si presenta. Sete dell'oro desiderio di una eterna felicità in cielo si equivalgono — per questo rispetto — interamente.
Quando i progressisti vollero convertire il mondo alla religione dei sensi, Lavater predicò la brama dell'invisibile.
Ciascuno si fa dell'oggetto un'idea sua propria: e Dio, Cristo, il mondo, ecc., furono e sono concepiti nei modi più vari. Ciascuno in ciò pensa diversamente dagli altri. Terribili lotte furono necessarie per ottenere che opinioni diverse intorno a uno stesso oggetto non dovessero essere condannate quali eresie meritevoli di morte. Certo i liberali hanno imparato la reciproca tolleranza. Ma perchè il mio diritto dovrà esser questo soltanto di poter pensare ciò che voglio intorno a una cosa? Perchè, traendo dal principio le conseguenze estreme, non potrò io, se mi talenta, non fare più alcun conto di quella cosa, non pensarci più affatto, ridurla nel nulla? Perché mai devo io dire: Dio non è Allah non è Brama, non è Geova, bensì Dio? Perchè non devo poter dire: Dio è null'altro che una finzione? Perchè mi si macchia d'infamia se io nego l'esistenza di Dio? Perchè si tiene in maggior conto la cosa creata di quello che si tenga il creatore? ( " Essi servono e adorano la creatura più del creatore ") [(1) ROMANI. 1. 25.] e si ha bisogno d' un oggetto dominante, per far col soggetto un servo devoto? Perchè devo io inchinarmi all'assoluto.
Col "regno dei pensieri" il Cristianesimo ha raggiunto la perfezione estrema. Nel pensiero si spegne ogni luce del mondo, ogni esistenza s'annienta. L'uomo interno (il cuore, la testa) diventa il tutto nel tutto. Questo regno dei pensieri attende il suo redentore, aspetta — novella Sfinge — un Edipo che sciolga l'enigma per poter morire. Ebbene il distruttore della sua esistenza sono io.
Nel regno del creatore esso non forma più un mondo a sé, uno Stato nello Stato, bensì è una creatura della créatrice fantasia. Soltanto così il Cristianesimo e la religione possono tramontare.
Solo quando mancano i pensieri cessano di esistere anche i credenti. Al pensatore le meditazioni appaiono quale un "lavoro sublime, un'attività sacra", che regna su una "fede" inconcussa; quelle della verità. E un'attività sacra appunto è da prima la preghiera: poi il "pensare" ragionevole e filosofico, il quale però ha sempre il suo fondamento nella "santa verità" e non è che una macchina meravigliosa che lo spirito della verità apparecchia perchè gli possa servire. Il libero pensiero e la libera scienza occupano me — (poiché non io sono libero, non io occupo me stesso, bensì il pensare è libero ed occupa me) — col cielo e con le cose celesti o "divine", col mondo e con le cose che gli appartengono. Tutto ciò è un pervertimento, una follia. Quegli che pensa è cieco alle cose che lo circondano ed incapace di rendersene padrone ; egli non mangia, non beve, non gode, poiché quegli che mangia e beve non pensa, e quegli che vive di pensiero dimentica di mangiare e di bere: ogni cosa dimentica, al pari di colui che è assorto nella preghiera.
Perciò agli occhi del forte figlio della natura egli appare come un maniaco, un pazzo, benché lo consideri un santo, come usano gli antichi. Il libero pensare è follia poiché è moto esclusivo dell'intimo, è l'opera dell'uomo interno, che guida e dà legge all'uomo reale.
Lo sciamano e il filosofo speculativo significano l'ultimo ed il primo gradino della scala dell'uomo interiore: del mongolo. Sciamani e filosofi combattono coi fantasmi, coi demoni, con gli spiriti, con gli dei.
Assai diverso da questo libero pensare è il mio proprio pensare: un pensare che non mi guida, bensì è da me guidato, continuato, interrotto, allo stesso modo di un desiderio che io possa soddisfare a mio talento e non invece come una brama violenta a cui m'è forza soggiacere.
Feuerbach, nei suoi "principi della filosofia dell'avvenire", batte e ribatte sempre sul concetto dell'esistenza. E con ciò gli resta, per quanto avverso all'Hegel ed alla filosofia assoluta, impigliato nell'astrazione, poiché l' "essere" è astrazione, come l'Io. Con questa sola differenza che l'io non è soltanto astrazione, ma anche il tutto nel tutto, e per conseguenza astrazione è tutto, è tutto, e tutto è nulla. L'io non è un'idea soltanto, bensì un mondo di idee. Hegel condanna ciò che è proprio — il mio. Il pensare "assoluto" rinnega il mio pensare e dimentica che il pensiero non esiste che in grazia mia. Ma poiché io posso prendere nuovamente ciò ch'è mio, così io solo sono il padrone del mio pensiero, della mia idea, e posso cangiarli a tutti i momenti, distruggerli, dissolverli a mio talento. Feuerbach vorrebbe combattere il pensare assoluto dell'Hegel col mezzo dell'invincibile essere. Ma l'essere è da me superato come il pensiero.
L'essere è il mio essere, allo stesso modo che il pensare é il mio pensare.
Con ciò Feuerbach, come è ben naturale, non fa nessun passo avanti e giunge soltanto a dimostrare queste verità assai volgari che io adopero i miei sensi in tutte le cose, e che non posso far di meno dei miei organi. Certo io non posso pensare se non esisto. Ma tanto per pensare quanto per sentire, dunque sì per le cose sensuali come per le astratte, io ho bisogno anzitutto di me stesso, e precisamente del mio io, di quest' io determinato, unico. Se, per esempio, io non fossi Hegel, io avrei un altro concetto del mondo; io non saprei trovarci quel sistema filosofico, che, essendo Hegel ho saputo rinvenirvi. Io possederei i miei sensi al pari d'ogni altro uomo, ma non ne farei l'uso che ne faccio.
Così il Feuerbach rimprovera all'Hegel di abusare del linguaggio, con dare alle parole un significato diverso da quello loro assegnato della coscienza naturale. Ma egli pure incorre nello stesso errore, quando al "sensuale" attribuisce un significato così largo quale non gli fu mai dato.
Così per esempio, a pag. 69, dove afferma non doversi confondere il sensuale col profano vuoto di idee, alla portata di tutti, da tutti comprensibile. Ma allora se ciò ch'egli vuol esprimere è il sacro — quello che è traboccante di idee, che giace nascosto, ch'è comprensibile soltanto mercè l'interpretazione — ebbene, in tale caso, non è più questo che si chiama col nome di sensuale.
Sensuale è unicamente quello che esiste per i sensi: ciò di cui possono godere coloro che oltrepassano la concezione del sensibile non potrà più chiamarsi sensuale. La sensualità, quale che essa sia, cessa di essere sensualità quando diviene concetto, sebbene essa possa produrre effetti sui sensi, eccitando ad esempio le funzioni e facendo pulsare più rapido il sangue.
Che Feuerbach rimetta in onore la sensualità, è bene: ma pur troppo ei non sa rivestire il materialismo della sua filosofia nuova con le spoglie dell'idealismo. Sarà difficile persuadere la gente che si possa vivere soltanto di "spiritualità", senza aver bisogno di pane. Anche sarà difficile farle credere che l'uomo, creatura sensuale, possa essere a un tempo tutto spirituale, ricco d'idee, ecc.
Col solo fatto dell'esistere nulla si giustifica. Ciò ch'è pensato esiste allo stesso modo di ciò che non è pensato: il sasso della via esiste come il concetto che di esso io mi faccio, con questa sola differenza che l'uno si trova in un luogo differente dall'altro; il sasso nella strada, il mio concetto nella mia testa, in me — poiché io rappresento uno spazio al pari della strada.
I privilegiati non tollerano alcuna libertà di pensiero vale a dire nessun pensiero che non provenga dal "dispensatore d'ogni cosa", si chiami esso Dio, il papa la Chiesa o comunque si voglia.
Che se taluno concepisca di tali pensieri illeciti, sarà bene che ei si confessi in un orecchio al suo confessore e si faccia infliggere mortificazioni e penitenze finché non l'abbia prostrato come si prostrano con la frusta gli schiavi ribelli. Ma un altro mezzo ha lo spirito di corpo per impedire addirittura che sorgano i liberi pensieri: la savia educazione. Chi vuole inculcare gli elementi della morale, non può liberarsi dalle idee morali, e il furto, lo spergiuro, il profitto disonesto, ecc., saranno sempre per lui delle idee fisse, contro le quali non lo proteggerà alcuna libertà di pensiero. Egli ha avuto le sue idee dall' "alto" e resta ad esse attaccato.
In altro modo procedono i concessionali o patentati. Ognuno deve aver dell'idee e deve potersene formare a suo agio. Quando uno ha la patente o la concessione d'un'attitudine a pensare egli non ha bisogno d'un privilegio speciale. Ma poiché "tutti gli uomini sono ragionevoli", dev'esser libero ad ognuno di cacciarsi in capo quei pensieri che meglio gli piacciono di avere, a seconda della patente della sua disposizione naturale, una copia maggiore o minore di tali idee. E quindi si raccomanda di "rispettare tutte le opinioni e tutte le convinzioni" — poiché "ogni convinzione è legittima", e bisogna "esser tolleranti verso le opinioni altrui". 

Max Stirner

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