martedì 27 agosto 2013

LA MIA GIOIA (ultimo frammento)

'' L'UNICO E LA SUA PROPRIETA’ ''

PARTE SECONDA --- IO
La mia gioia [ ultimo frammento ]



Ma "le vostre idee non sono le mie e le vostre vie non sono le mie". O piuttosto lasciatemi dire il contrario: i vostri pensieri sono i miei pensieri, in questo senso che io ne dispongo a mio piacere e li abbatto inesorabilmente; essi sono mia proprietà, che io, se così mi piace, posso distruggere. Io non attendo la vostra autorizzazione, per sciogliere in fumo i vostri pensieri. A me non cale affatto che essi sieno vostri; son pure miei, e il trattarli nell'uno o nell'altro modo è un mio diritto. Tacerò, se mi piacerà di lasciarvi tranquilli colle vostre idee. Credete forse che le idee volino senz'altro intorno libere come gli uccelli e che ciascuno possa afferrarne una o più per poi farla valere contro di me come una sua proprietà intangibile? Tutto ciò che mi vola d'intorno è mio.
Credete forse che le vostre idee non esistano che per voi che voi non siate tenuti a giustificarle verso nessuno, o, meglio, secondo il vostro linguaggio preferito, che voi non abbiate a renderne conto ad altri che a Dio? No, le vostre idee, grandi o piccole, m'appartengono; e io le tratto come mi piace.
L'idea diviene mia proprietà solo quando io non esito in alcun momento a ridurla in pericolo di morte, quando io non devo temere ch'essa si perda, come temerei della perdita di me stesso.
Mia proprietà è l'idea solo quando, quantunque posseduta da me, essa non può mai possedermi, mai soggiogarmi, mai fanatizzarmi mai rendermi strumento della sua attuazione.
Dunque la libertà del pensiero esiste quando m'è dato d'avere ogni sorta di pensieri. Le idee diventano una proprietà, quando sono rese incapaci d'esser signore. Ai tempi della libertà del pensiero dominano le idee; ma se io so ridurle in mia proprietà esse per me saranno delle creazioni.
Se il concetto della gerarchia non fosse ormai così radicato nelle coscienze, da toglier agli uomini fin l'ardire d'aver dei pensieri liberi, la libertà del pensiero ci dovrebbe apparire una parola vuota di senso come sarebbe, ad esempio, la libertà di digerire.
Secondo l'avviso degli uomini ligi a una fede religiosa l'idea m'è data: secondo quello dei liberali io la ricerco. Io accolgo, secondo gli uni, la verità bella e pronta, purché la chieda alla grazia del dispensatore; io devo rintracciarla, secondo gli altri e tendervi come a mia mèta futura.
In ambo i casi la verità (idea vera) è posta fuori di me ed io aspiro a ottenerla sia sotto forma di dono (dalla grazia), sia coll'acquisto (mediante il mio proprio merito). Dunque nel primo caso la verità è un privilegio, nei secondo invece può esser conseguita da tutti (poiché né la Bibbia né il santo padre, né la Chiesa ne hanno l'esclusivo possesso), e il mezzo con cui la si ottiene è la speculazione.
Così gli uni come gli altri sono dunque privi di un titolo di proprietà in rapporto al vero; essi o possiedono la verità in feudo (imperocché il santo padre, per esempio, non è un singolo: come tale egli avrà nome Sisto, Clemente, ecc , ma non quale Sisto o Clemente egli possiede la verità, bensì quale "santo padre") o l'hanno come un ideale. Come feudo essa è riservata a pochi (privilegiati), come ideale appartiene a tutti.
La libertà del pensiero ha dunque questo significato: che noi tutti procediamo bensì nelle tenebre e sulla via dell'errore, ma che ciascuno di noi può in questa via avvicinarsi alla verità e perciò si trova sulla retta via ("ogni strada conduce a Roma, in capo al mondo, ecc."). Il che in somma vuol dire che la vera idea non può appartenere ai singolo; poiché se cosi fosse, in qual modo gli si potrebbe impedire d'ottenerla?
Il pensiero, divenuto interamente libero ha proclamato molte verità alle quali io devo inchinarmi.
Esso tende a comporsi in un sistema e a rivelarsi in una forma assoluta. Nello Stato, p. es., esso ricerca l'ideale del reggimento politico secondo ragione; nell'uomo persegue l'ideal tipo umano.
Il pensatore si distingue dal credente solo in ciò che egli crede in un più largo insieme di cose.
Egli ha in somma migliaia di articoli di fede, mentre al credente bastano pochi. Ma il credente riesce facilmente a comporre i suoi articoli di fede in un sistema ch'egli erige poi a norma dei suoi apprezzamenti. Ciò che non si confà a tale sistema, ei lo rigetta senz'altro.
E nello stesso modo procedono i pensatori nella dichiarazione dei lori principi. Invece di affermare: "se una cosa viene da Dio, voi non giungerete a distruggerla", essi dicono: "tutto ciò che scaturisce dalla verità, è vero": al principio: "sia gloria a Dio", sostituiscono quest'altro: "sia gloria alla verità". Ma per me è affatto indifferente che la vittoria sia di Dio o della verità l'essenziale è che sia mia.
Come è possibile del resto immaginare una libertà illimitata nello Stato o nella società? Lo Stato potrà, sì, difendere l'un cittadino contro l'altro, ma non già mettere in pericolo la propria esistenza col concedere una libertà illimitata, che, per lui, sarebbe licenza. Così nella "libertà dell'insegnamento" esso dichiara soltanto di accettare di buon grado chiunque insegni secondo i principi della autorità. I concorrenti debbono tener conto appunto di quello che "esige lo Stato".
Se per esempio la Chiesa non può consentire ai principi che lo Stato accetta e fa propri, essa sarà costretta ad escludersi volontariamente dalla concorrenza (come, p. es., in Francia). Il confine posto dallo Stato ad ogni concorrenza si chiama la vigilanza e l'ispezione superiore dello Stato. E così, col limitare la libertà d'insegnamento entro certi determinati confini, lo Stato impone un ostacolo insuperabile alla libertà del pensiero, poiché l'uomo facilmente si avvezza a non pensare diversamente dal proprio maestro.
Ecco ad esempio, come s'esprime in proposito il ministro Guizot [(1) Seduta della Camera dei Pari del 25 aprile 1877.]: " la grande difficoltà dei nostri tempi sta nella direzione e nella dominazione dello spirito. Una volta la Chiesa adempiva a questa missione, ora l'opera sua si chiarisce insufficiente al bisogno.
"L'adempiere tale compito spetta ora alla universalità ed essa non vi verrà meno. Noi che siamo al governo, abbiamo il dovere di renderle agevole quest'officio. La carta vuole la libertà del pensiero e della coscienza".- Cosicché in favore della libertà del pensiero e della coscienza il ministro impone la "direzione e la dominazione dello spirito"!
Il cattolicesimo citava quelli che voleva assoggettare a giudizio dinanzi al foro ecclesiastico, il protestantesimo li trascinava dinanzi a quello della cristianità biblica. Parrà da vero grande progresso che li si citino ora dinanzi al foro della ragione, secondo i desideri di Ruge [(2) Anekdota 1. 120.]? Che la Chiesa, la Bibbia o la ragione (alla quale si richiamavano del resto già Lutero ed Huss) rappresentino l'autorità sacra, poco importa, poiché l'autorità sacra rimane.
Né la questione si risolve più agevolmente col proporla a questo modo : "Il diritto spetta all'università ( Stato, legge, costumi, moralità, ecc.) oppure ai singoli?". Bisogna invece risolutamente cessare di parlar di diritto e di lottare soltanto contro i "privilegi". — Una libertà d'insegnamento "ragionevole" unicamente inspirata alla coscienza della ragione [(3) RUGE, Anekdota, 1, 127] non ci condurrà più vicino alla méta; noi abbiamo bisogno invece d'una libertà d'insegnamento egoistica, in virtù della quale ciascuno possa affermarsi e manifestarsi senza alcun impedimento.
Qual vantaggio si ritrarrebbe da ciò, che, come prima era libero l'io ortodosso, legale, morale, ecc.,diventasse libero ora l'io ragionevole? Sarebbe questa la libertà individuale?
Se io sono libero quale essere ragionevole se ne dovrà conchiudere che è libero quello che in me é ragionevole: cioè la ragione. Ora questa libertà della ragione, ossia dello spirito, fu sempre l'ideale del mondo cristiano. Si volle render libero il pensiero — (e, come abbiamo già detto, anche il credere è una forma del pensare, cosi come il pensare è un credere pur esso) — in vantaggio così di quelli che avevano una fede come di quelli che possedevano la ragione. Ma la libertà di coloro che pensano non è diversa dalla "libertà dei figli di Dio" e trae seco in pari tempo la più spietata gerarchia o schiavitù del pensiero; poiché all'idea soggiace l'io. Se i pensieri son fatti liberi io divento il lor schiavo io non ho più nessun potere su di loro e sono da essi dominato. Ma io voglio invece possederlo io il pensiero, anzi possederne molti ed essere a un tempo senza pensieri: voglio in somma non la libertà del pensiero, ma la spensieratezza.
Certo se desidero che i miei simili mi comprendano io non posso far uso che de' mezzi umani, i quali stanno a mia disposizione appunto perché, oltre ad esser io, sono anche uomo. E in verità, soltanto quale uomo io ho dei pensieri. Quale singolo io sono senza pensiero. Chi non può liberarsi da un pensiero non è che uomo: è uno schiavo del linguaggio, di questa legge umana, di questo tesoro delle umane idee. Il linguaggio — la "parola" — è il nostro peggior tiranno, poiché solleva contro di noi un esercito d'idee fisse. Osserva te stesso nel momento appunto che stai pensando e vedrai che non puoi procedere, se non restando di tratto in tratto senza pensieri e senza parole. Non soltanto nel sonno ma, anche nell'atto stesso del riflettere tu sei a ogni tratto senza idee e senza parole. E soltanto per quell'assenza di pensieri, per quella misconosciuta libertà di pensiero o meglio liberazione dal pensiero, tu appartieni a te stesso. Soltanto in virtù di essa tu puoi giungere a tale da adoperar il linguaggio quale tua libera proprietà.
Finché il pensiero non è il mio pensiero, esso non sarà mai altro che la continuazione, l'ampliazione d'un'idea comune: il lavoro d'uno schiavo, d'un "servo della parola". Pel mio pensiero la individualità mia è il principio unico e l'unica mèta: e il suo corso non è altro che il corso del godimento di me stesso. Invece il pensiero assoluto — o, come dicono, libero — ha per principio sé stesso, rappresentato quale la più alta "astrazione" (per esempio quale esistenza) che sia dato raggiungere. Ma questa stessa ampliazione viene poi a sua volta continuata ed amplificata.
Il pensiero assoluto appartiene allo spirito umano. Or lo spirito umano è uno spirito santo.
Perciò questo modo di pensare appartiene ai preti che "sanno comprendere i più alti interessi dell'umanità": "è la essenza stessa dello spirito".
Per il credente le verità sono un fatto compiuto; per chi pensa liberamente esse sono invece una cosa che si deve ancora attuare. Per quanto scettico sia il libero pensatore, gli resta ancor sempre la fede nelle verità, nello spirito, nell'idea, e nel lor trionfo. Il pensiero libero non pecca contro lo spirito santo. Ma ogni pensiero che non pecca contro lo spirito santo è una credenza superstiziosa negli spiriti e nei fantasmi.
Io non posso rinunziar al pensare cosi, come non posso rinunziare a sentire; non posso rinunziare all'attività dello spirito come non posso rinunziare a quella de' sensi. Come il sentire è il nostro senso delle cose, così il pensare è il nostro senso degli esseri (idee). Gli esseri hanno la loro esistenza in tutto ciò che cade sotto il dominio dei sensi, e particolarmente nella parola. La potenza delle parole tiene dietro a quella delle cose; dapprima noi siamo soggiogati colla ferula, poi con la persuasione. La forza delle cose abbatte il nostro coraggio; contro la potenza d'una convinzione — cioè della parola — sono impotenti la tortura e la spada. Gli uomini convinti resistono ad ogni tentazione di Satana.
Il Cristianesimo tolse alle cose di questo mondo il loro fascino, non il lor potere su di noi. Io voglio innalzarmi al di sopra della verità e sottrarmi al lor dominio, esse devono essere al mio cospetto così comuni e indifferenti come tutte le altre cose, io non consentirò né che esse mi soggioghino né che mi esaltino Non havvi alcuna verità — né il diritto, né la libertà, né l'umanità — che possa levarsi di contro a me e piegarmi. Le verità non sono altro che parole, vanità — come vanità sono per il Cristianesimo tutte le cose. Nelle parole e nelle verità (ogni parola è una verità, poiché, come Hegel sostiene, non è possibile dire una bugia) non havvi salute per me, come non v'ha salute nella vanità delle cose per il cristiano. Le ricchezze di questo mondo non mi rendono felice, ma neppure la verità può farmi tale. La storia della tentazione non è più rappresentata da Satana — bensì dallo spirito il quale non seduce più col fascino delle cose di questo mondo, ma con l'idea delle cose, con lo "splendor dell'idea".
Dopo i beni mondani bisogna sfatare anche le cose sacre.
Le verità sono frasi, parole (ldgoe); la connessione delle parole forma la logica, la scienza, la filosofia.
Per pensare e per parlare io abbisogno della verità e delle parole, come per mangiare abbisogno dei cibi. Le verità sono le idee degli uomini, espresse in parole, e perciò reali al pari delle cose quantunque non esistano che per lo spirito o pel pensiero. Esse sono leggi umane e creazioni umane, tenute, sì per manifestazioni divine, ma non fatte a me estranee dopo l'atto della lor creazione.
L'uomo cristiano è colui che crede nell'idea e ne vuole attuare il dominio. Molti, è vero non accolgono le idee se non dopo di averle sottoposte alla critica, ma in ciò somigliano al cane che annusa le persone, per scoprire il suo padrone: tutto per lui si svolge intorno a un' idea predominante. Il cristiano moltiplicherà le riforme e le rivoluzioni, distruggerà i concetti dominanti da secoli; ma sempre sarà in cerca d'un nuovo principio, d'un nuovo signore, e sempre aspirerà ad innalzare una più sublime o più profonda verità, a creare un nuovo culto, a proclamare qualche nuovo spirito preconizzato alla dominazione, a stabilire una nuova legge per tutti.
Sia pure una sola la verità, cui l'uomo dovrebbe dedicare la vita e le forze, egli è soggetto sempre ad una regola, ad un dominio, ad una legge: egli è servo. Né importa che questa norma sia l'uomo, l'umanità, la libertà, o un'altra astrazione qualunque.
Bisogna dire invece: Se tu vuoi continuare ad aver dei pensieri, quest'è affar tuo; soltanto sappi che se tu vorrai che il tuo pensiero riesca a qualche utile certo, molti e difficili sono i problemi che ti bisogna sciogliere, e senza averli superati tu non andrai molto lontano. Dunque non esiste per te il dovere o la vocazione d'occuparti delle verità e dei principi; ma se ci tieni a farlo, sarà bene che tu tenga conto delle vane fatiche già durate dagli altri nel percorrere un sì arduo cammino.
Cosicché colui che vuole pensare, si prefigge, tacitamente o inconsciamente un compito  — ma questo compito non può essere per lui un obbligo, perché nessuno può esser costretto a credere o a pensare. A costui si potrà dire: Tu non vai abbastanza lontano, il tuo interessamento è limitato e poco sincero, tu non miri al fondo della cosa, in somma tu non potrai adempiere convenientemente al compito tuo. Ma quale che sia il punto cui sei pervenuto, tu puoi bene considerarlo come la mèta — se così ti piace — poiché non hai nessuna missione di dover andar oltre, e puoi soffermarti o precedere ancora, come ti aggrada. Così è di questo come d'ogni altro lavoro, che sta in tua facoltà di tralasciare quando non vuoi più continuarlo. Non altrimenti, quando tu non puoi più credere ad una cosa, non devi costringer te stesso a credere, ad occuparti in eterno di quella cosa come se fosse una verità sacrosanta, alla quale tu abbia obbligo di aver fede come fanno i teologi e i filosofi, bensì puoi disinteressartene a tuo talento e lasciarla da parte. Gli spiriti infeudati alla religione interpreteranno certo il tuo disinteressamento quale "poltroneria, spensieratezza, durezza di cuore, aberrazione dello spirito, ecc.". Ma tu lascia dire.
Nessuna cosa, nessuna "santa causa" è degna che tu serva a lei, e che te ne occupi per amor d'essa; il suo valore tu devi ricercarlo unicamente in ciò, che essa ti sia utile. Siate come i bambini — consiglia un precetto evangelico. Ebbene, i bambini non conoscono sacri interessi, nulla sanno delle "sante cause". Ma sanno, per contro, molto bene a che tenda la loro volontà; e a farla trionfare essi si adoperano con tutte le loro forze.
Ne il pensare ne il sentire potranno mai essere aboliti. Ma la potenza dei pensieri e delle idee, la dominazione delle teoriche e dei principi, la supremazia dello spirito, in breve la gerarchia, dureranno sino a tanto che i preti, vale a dire i teologi, i filosofi gli uomini di Stato, i borghesi dalla angusta mente, i servitori, i genitori, i figli — Proudhon, George Sand, Bluntschli — avranno voce in capitolo; sino a tanto che si crederà nei principî e se ne farà argomento di critica, poiché anche la critica più spietata, che abbatte tutti i principi ammessi, pur contrastandoli, li presuppone.
Tutti criticano. E poi che i criteri sono differenti, si dà la caccia al "giusto criterio". Questo giusto criterio è la promessa essenziale. Si procede da una tesi, da una verità, da una credenza.
Queste son creazioni non della critica, ma del dogmatismo e della civiltà odierna, e vengono accettate senza esame. Tali "la libertà", l'umanità, ecc. Il dogmatismo, non la critica, ha scoperto l'uomo, e a questa verità oggi anche la critica crede, come in un articolo di fede.
Il segreto della critica è sempre una qualche "verità"; la sua forza è un mistero.
Ma io distinguo la critica servile da quella libera. Se la premessa che io accetto è l'ente supremo, tutta la mia critica non servirà che a quest'ente. Se io, per esempio, sono dominato dalla fede nello "Stato libero", ogni mia indagine avrà per fine di ricercare che cosa convenga a quello "Stato", che io immagino, perchè l'amo. Se a principio della mia critica io pongo la religione, io dividerò tutte le cose in divine e in diaboliche, e la natura mi si rivelerà o su la traccia di Dio o su quella del demonio (da ciò derivano anche le denominazioni: Dono di Dio, Monte di Dio, Pulpito del diavolo, ecc.), e gli uomini mi appariranno sotto il solo aspetto della lor fede: credenti o irreligiosi. Se io critico avendo fede nell'uomo, io distinguerò tutti gli uomini in umani e inumani.
La critica è stata fin qui un'opera d'amore poi che noi la esercitammo sempre per amore di qualche essere. Per ciò essa procedette sempre a seconda del precetto del Nuovo Testamento:
Esaminate tutte le cose e conservate ciò ch'è buono. Il "buono" è il criterio, la pietra del paragone. Il buono, che si riaffaccia a ogni ora sotto tutti i nomi e in tutte le forme, fu sempre la premessa, il punto fermo dogmatico della critica — l'idea fissa.
Senza esitare — il critico, mettendosi al lavoro, accetta la premessa della "verità", e va in traccia del vero, confidando che sia possibile trovarlo. Vuole scoprire la verità nella quale appunto sta il "bene" cui sopra accennammo.
Premettere significa mettere un pensiero per fondamento agli altri, o pensare una cosa prima d'ogni altra e continuar poi a pensare partendo da quella cosa e facendo di essa norma a tutti gli altri pensieri. In altre parole vuol dire che l'atto del pensare deve incominciar da un pensiero.
Certo, se il pensare potesse incominciar davvero, se esso insomma fosse un soggetto, agente per sé stesso, converrebbe ammettere che gli si debba attribuire un principio. Ma la personificazione del pensare è per appunto l'origine degli innumerevoli errori che prevalgono. Il linguaggio del sistema hegeliano presuppone appunto questa personificazione, un' Idea-fantasma. Il liberalismo invece personifica la critica e di essa suol dire: "la critica" o — con diverse parole, la "coscienza individuale" fa questo e quest'altro. Ma la personificazione del pensiero, come quella della critica, importa la premessa dell'esistenza loro. Pensiero e critica dovrebbero essere essi medesimi la premessa della attività loro poiché senza l'essere non v' ha azione. Ma il pensiero, quale premessa, è un' idea fissa, un dogma: pensiero e critica non possono adunque procedere che da un dogma.
E così ritorniamo a ciò di cui parlammo più sopra, siamo cioè costretti ad affermare un'altra volta che il Cristianesimo consiste nell'evoluzione d'un mondo di idee, che esso è, in somma, l'attuazione della "libertà dei pensieri", lo "spirito libero" per eccellenza. La critica che si dà nome di vera e che io chiamo la critica officiosa, non è dunque diversa dalla critica detta libera: al pari di questa appunto, non è proprietà mia esclusiva.
Le cose stanno diversamente, quando ciò che è tuo non viene mutato in entità, ne personificato o rappresentato quale uno "spirito" che abbia propria esistenza. Il tuo pensare non ha per fondamento il pensiero astratto, ma la individualità tua. Con esso dunque tu premetti te stesso. Il mio pensiero presuppone la mia esistenza. Ne segue che esso non è preceduto da un pensiero, e per ciò esiste senza una premessa. Poiché quello che io rappresento pel mio pensiero, non è già una astrazione del pensiero, ma è la facoltà stessa del pensare — che non esiste indipendentemente da chi la possiede.
Questa inversione del concetto comune può a primo aspetto parere un cosi vano artificio verbale che persino coloro, contro i quali essa è rivolta, giudicherebbero inutile il confutarla: se essa non traesse seco molte pratiche conseguenze.
Per compendiarle in poche parole, io affermo che non l'uomo in astratto, ma il singolo, è la misura di tutte le cose. Il critico officioso ha di mira un altro essere, un'idea, cui intende servire quello che si fa per amore di questo essere, di questa idea, non è forse un'opera d'amore? Ma io, quando critico, non ho di mira nemmeno me stesso: bado a divertirmi secondo i miei gusti e cedo, volenteroso, al mutevole capriccio dell'ora.
Anche più chiara parrà la differenza ch'e tra i due concetti quando si rifletta che la critica officiosa, guidata — com'è — dall'amore, crede di servire alla cosa stessa.
Non si vuol rinunziare alla verità assoluta, e si va continuamente in cerca di essa. Ma che altro è, codesta verità se non l' "ente supremo?" Anche la vera critica dovrebbe disperare d'ogni salute quando perdesse la fede nella verità. Eppure la verità non è altro che un'idea, anzi è per eccellenza l'idea inconfutabile, quella che sta al sommo di tutte le altre: è la consacrazione del "pensiero". La verità durerà più a lungo di tutti gli dei; poiché solo per amor suo le divinità furon distrutte e più tardi Dio stesso fu abbattuto. Al crepuscolo degli dei sopravvive la verità, poiché essa è l'anima immortale di quel mondo tramontato: è la divinità stessa.
Io voglio rispondere all'interrogazione di Pilato: "Che cosa è la verità?". La verità è il pensiero libero, l'idea libera, lo spirito libero; la verità è ciò che è libero da te, quello che non appartiene a te, che non è in tuo potere. Ma in pari tempo essa è pur ciò che è assolutamente dipendente, impersonale, irreale e incorporeo; la verità non può agire da sé stessa, come tu agisci, non può — come te — muoversi, mutarsi, svilupparsi; la verità attende e riceve da te ogni cosa e non esiste che in grazia tua; poiché essa non è che nella tua mente. Tu ammetti che la verità sia un'idea, ma non vuol consentire che ogni idea sia vera: tu affermi anzi che non ogni idea è veramente e realmente un' idea. E da che cosa riconosci tu e misuri il valore dell'idea? Dalla tua impotenza, cioè dal non poterla tu padroneggiare. Se essa ti soggioga, se essa ti infiamma e ti trascina seco, tu la tieni per vera. Il dominio ch'essa ha su te ti è norma a giudicare della verità sua; e se l'idea ti possiede tu ti senti a tuo agio — poiché hai trovato il tuo padrone e signore. Quando tu andavi in cerca della verità, a che cosa aspirava il tuo cuore? A crearsi un padrone! Tu non aspiravi al tuo proprio potere: tu volevi innalzare un potente: "innalzate il signore, il nostro Dio!" La verità, mio caro Pilato, è la padrona, e tutti coloro che esaltano la verità cercano ed esaltano un padrone.
Dove esiste questo padrone? Dove, se non nella vostra testa? Esso non è che spirito, e dovunque tu credi di mirarlo esso rimane sempre un fantasma. Il signore non è che un'astrazione generata dall'angoscia in cui si torturarono i cristiani per render visibile l' invisibile, corporeo lo spirituale.
Finché tu credi alla verità, non avrai mai fede in te stesso e sarai sempre un servo — un uomo religioso. Tu solo sei la verità, o meglio, tu sei da più che la verità, poi che questa avanti di te non era. Certo anche tu indaghi il vero, e fai delle critiche; ma non ti affanni a perseguire una "verità superiore", e non la poni come fondamento del tuo investigare. Tu ti accingi a pensare, a immaginare, a studiare i fenomeni per il solo fine di rendere tutte le cose accessibili alla tua comprensione sì da poterle fare tue proprie e sommetterle al tuo potere; e tu le giudichi vere quando esse son soggette al tuo dominio e fatte proprietà tua. Se più tardi esse ti sfuggiranno, ciò significherà che non erano vere, e dimostrerà in pari tempo la tua impotenza. Poi che nella tua impotenza è la potenza loro, nella tua umiltà a loro esaltazione. La loro verità sei dunque tu, o è il nulla che tu rappresenti per esse e nel quale esse si dissolvono: la loro verità è la vanità loro.
La verità più non mi angustia quando interamente mi appartiene, quando — cioè — di' essa più non si può dire, come di un'astrazione personificata: "La verità si svolge, domina, si fa strada, trionfa". No, non essa trionfa; essa non è che un mezzo alle mie mani per conseguire la vittoria — come la spada. La Verità non ha esistenza propria: è una lettera, una parola, una materia, che io impiego a mio talento. Ogni verità per sé stessa è una cosa morta; essa non trae la vita che da me, cioè dalla mia forza vitale. Tale è un mio organo. Le verità sono simili alle erbe buone o cattive; il giudicare se un'erba sia buona o cattiva appartiene a me solo.
Per me gli oggetti non sono altro che materiali che io consumo. Dovunque io stenda la mano, io afferro una verità, e la adatto ai miei fini. La verità mi appartiene, io non ho bisogno di desiderarla. Render un servizio alla verità non è mai stato mio proposito: la verità non è che un alimento pel mio cervello che pensa, a quella guisa che la patata è un alimento pel mio stomaco e l'amico pel mio cuore che desidera la compagnia. Sino a tanto che io ho voglia e forza di pensare ogni verità mi serve per usarla a mio talento. Quello che per i cristiani è il mondo, è per me la verità : vanitas canitatum. Essa esiste con lo stesso diritto per cui esistono le altre cose delle quali il cristiano ha pur dimostrata la vanità. Il suo valore essa l'attinge da me. Per ciò essa non ha forza: è una creatura.
La vostra attività ha creato opere innumerevoli; per essa voi avete mutato la figura della terra erigendo in ogni luogo monumenti umani; ebbene, allo stesso modo, voi potrete nel vostro pensiero scoprire verità innumerevoli, e noi ve ne sapremo grado. Solo, siccome io non voglio esser il servo delle vostre macchine, vi aiuterò a metterle in moto non per altro che per mio vantaggio: userò delle vostre verità, ma non mi metterò già al loro servizio.
Tutte le verità che stanno in mio potere mi sono accette, ma una verità, che sia al disopra di me, una verità secondo la quale io debba dirigermi, io non la riconosco. Per me non esiste alcuna verità assoluta, nessuna verità superiore, perché al disopra del mio io non vi è nulla. Neanche la mia essenza, l'essenza dell'uomo è superiore a me, sebbene io non sia che una goccia nell'immenso mare.
Voi ritenete d'aver fatto il più meraviglioso degli sforzi, quando audacemente sostenete, che siccome ogni età ha i suoi veri, così una "verità assoluta" non esista. Ma con ciò voi lasciate ancora ad ogni età il suo vero e create appunto con ciò la verità assoluta la verità che non fa difetto ad alcun tempo, da che ciascuno sente, possiede la sua verità, quale che essa si sia. O invece intendete forse dire che in ogni età si è pensato, si sono avuti dei pensieri che mutarono poi di tempo in tempo? No, dovete dire che ogni tempo ebbe una verità in cui credette come in un articolo di fede; e in fatti non ci fu età nella quale non si sia riconosciuta una qualche "verità superiore", una verità, dinanzi alla quale si credette che gli uomini dovessero inchinarsi. Ogni verità rappresenta l'idea fissa dell'età che l'ha prodotta, e se in corso di tempo una nuova ne sorge, la ragione si è che se ne cercava appunto una nuova. Non si faceva altro che vestir la pazzia di nuove spoglie. Poiché gli uomini volevano — e chi dubiterebbe che non ne avessero il diritto?                 — esaltarsi per un'idea. Volevano, cioè, esser dominati, posseduti da un'idea. La dominatrice più recente è l'idea della "nostra essenza" ossia dell'uomo. Ogni critica libera ebbe per fondamento un'idea. Ebbene, per la critica egoistica il fondamento è l'Io, l'indefinibile, il reale, non l'immaginario o immaginabile soltanto (solo quello che è immaginato può essere espresso con la parola, perchè la parola coincide col pensiero). Il vero è ciò che è mio, il falso è quello che a me non appartiene; vera è, p. es., l'associazione, falsi son lo Stato e la società. La critica "libera e vera" si è travagliata per assicurare la dominazione continua d'un'idea, d'uno spirito: la critica individualistica non pensa in vece che alla soddisfazione dell' Io: e in ciò si accorda — non vogliamo risparmiarle quest'onta — alla critica animale dell'istinto. Per me come per l'animale, si tratta unicamente del mio io e non già della "cosa". Io sono il criterio della verità. Ma io non sono un'idea: sono più che un'idea — sono l'indefinibile.
La mia non è una critica serva d'un' idea; è una mia proprietà.
La critica che ama darsi nome di vera, non cerca nei fenomeni se non quello che all'uomo; al vero uomo, può convenire, la critica individualistica indaga quali siano le cose che convengano all'Io.
La critica cosiddetta libera si occupa d'idee, e perciò è schiava delle teoriche. Essa s'illude bensì di lottare contro i fantasmi, ma dai fantasmi non può astrarre. Le idee, che la occupano, non scompaiono mai interamente ; l'alba del nuovo giorno non ha il potere di cacciarle.
Il critico che appartiene a questa scuola può giungere bensì all'atarassia contro le idee, ma non a liberarsene del tutto. In somma egli non riuscirà mai a vincere il preconcetto, che al disopra dell'uomo in carne ed ossa deve esistere qualche cosa di superiore, vale a dire l'umanità, la libertà, ecc. Egli sarà sempre preoccupato dalla "vocazione" dell'uomo: "dell'umanità". E quest'idea dell'umanità rimarrà sempre inattuabile, appunto perché è un'idea e non potrà esser mai che un'idea.
Se invece io concepisco l'idea quale cosa mia, essa è per ciò solo già attuata dacché la sua realtà è in me: la sua realtà consiste in ciò, che io, il vivente, la posseggo.
Si afferma che nella storia universale si attua l'idea della libertà. Al contrario: quell' idea non diviene realtà se non quando è pensata da un uomo, e in quel grado appunto che esiste quale pensiero individuale. Ciò che si svolge non è già l'Idea per sé, ma l'uomo; o meglio l'evoluzione dell'Idea non è che la conseguenza dell'evoluzione dell'uomo.
Il critico in somma non può dirsi padrone delle idee, finché contro esse combatte come contro nemici; a quel modo che non è padrone delle passioni il cristiano che cerca di vincerle e di soggiogarle.
E cosi la critica non ha saputo sin qui abbattere un'idea che col mezzo d'un'altra; p. es. quella del privilegio con quella dell'umanità, quella dell'egoismo con quella del disinteresse.
Cosicché il Cristianesimo nel suo finire ritorna quale era alle sue origini: avversatore dell'egoismo. Non al singolo — ma alla idea, all'astrazione, esso assegna il primo posto.
Guerra di preti contro l'egoismo, guerra di coloro che pensano religiosamente contro quelli che pensano irreligiosamente; ecco tutto il contenuto della storia cristiana. Nella critica più recente quella guerra abbraccia ogni cosa e il fanatismo diviene universale né può scomparire in altro modo che distrutto dal suo medesimo furore.
Ma a me che importa che ciò ch'io faccio o penso sia cristiano, umano, liberale — o non sia?
Purché io ottenga quel che voglio purché trovi in ciò una mia soddisfazione, adottate pure quel nome che meglio vi piace: per me è tutt'uno.
Anch'io forse mi difendo in quest'istante dai pensieri che ho avuto poc'anzi, e anche muto, da un momento all'altro, in un tratto, i miei atti, ma non già perché essi non sian conformi agli insegnamenti del Cristianesimo, o perchè contrastino agli eterni diritti umani, o perché cozzino coll'idea della società umana, dell'umanità, dell'umanesimo, sì invece per la ragione che quei pensieri o quegli atti non mi appagano più interamente, perchè io dubito della lor convenienza, o perchè la mia condotta di poc'anzi più non mi piace.
Siccome il mondo è divenuto un materiale, del quale io dispongo a mio talento, cosi anche lo spirito quale proprietà deve mutarsi in un materiale, dinanzi al quale nessun sacro timore più mi colga. Quind'innanzi io non rabbrividirò più per un'idea, per quanto possa essere ardita o anche "diabolica", poiché se quell'idea comincia a diventarmi importuna sta in mio potere l'annientarla.
Ma neppure dinanzi ad alcun atto io mi ritrarrò tremando perchè in esso s'asconda uno spirito di empietà, d'immoralità, d'ingiustizia. Forse che San Bonifacio si lasciò trattenere da scrupoli religiosi nell'abbattere la sacra quercia dei pagani? Se tutte le cose del mondo son fatte vane devono divenir tali anche le idee.
Nessun pensiero è sacro, nessun sentimento è sacro (non il sentimento dell'amicizia, non il sentimento materno), nessuna credenza è sacra. Essi sono tutti alienabili come una proprietà mia, e da me possono essere cosi distrutti come creati.
Il cristiano può perdere tutte le cose, tutti gli oggetti, tutte le persone più caramente dilette senza ritener perduto per questo sé stesso, o — nel senso cristiano — il suo spirito, la sua anima.
Ebbene, allo stesso modo, chi è veramente signore dei suoi pensieri può respingere da sé tutte le idee che furono care un tempo al suo cuore e infiammarono il suo zelo, e nondimeno riguadagnar mille volte ciò che ha perduto, poiché egli, il loro creatore permane.
Inconsciamente noi tendiamo tutti al dominio. E difficile che non vi sia tra noi chi non abbia dovuto rinunziare a qualche sentimento sacro, a qualche idea sacra, a qualche sacra credenza.
Tutta la guerra contro le convinzioni procede dalla opinione che noi abbiamo forza di cacciare il nemico dalle trincee di idee ch'egli ha eretto intorno a sé. Ma ogni cosa che io faccio inconsciamente, non la faccio che a mezzo, sicché dopo ogni vittoria riportata su di una credenza io diverrò un'altra volta il prigioniero (l'ossesso) d'una credenza nuova che mi costringerà al suo servizio. E così dopo che avrò cessato di essere schiavo della Bibbia, diverrò servo della ragione o dell'umanità.
Signore dei miei pensieri, io li ricoprirò, sì del mio scudo, così come difenderò contro tutti le cose che m'appartengono. Ma in pari tempo assisterò indifferente all'esito della pugna, deporrò serenamente il mio scudo sui cadaveri delle mie idee e delle mie credenze abbattute, e avrò un sorriso di trionfo anche nella sconfitta. È questo l'aspetto giocondo della cosa. Esercitar l'ironia contro le piccole miserie umane è facile a ognuno che possegga dei "sentimenti elevati". Ma lasciarle libero corso contro tutte le "grandi idee, i sentimenti sublimi, i nobili entusiasmi e la santa fede" ecco ciò che solo vale a dimostrare ch'io sono ormai il padrone d'ogni cosa.
Se la religione ha posto la tesi che noi siamo tutti peccatori, io le contrapporrò quest'altra: noi tutti siamo perfetti! Poiché a ogni istante noi siamo tutto quello che possiamo essere e non abbiamo in alcun momento il bisogno né il dovere d'esser qualcosa di più. E poiché noi non abbiamo difetti, anche il peccato perde il suo significato. Potrete mostrarmi ancora un solo peccatore quando nessuno avrà più l'obbligo di condursi secondo il volere di qualche cosa o di qualche essere a lui superiore? Ma se io non ho bisogno che di soddisfar me stesso, io non sono più un peccatore, né tale sarò, anche quando io non riesca a soddisfarmi, dacché in nessun caso io avrò offesa una cosa sacra. Se invece voglio essere un uomo pio, dovrò cercar di condurmi a modo di Dio. Quello che per la religione è il "peccatore", per l' umanità è l'egoista. Ma, diciamolo ancora una volta, se io non ho l'obbligo di condurmi in modo da soddisfare gli altri, l'egoista che per l'umanità rappresenta il diavolo moderno, non diviene un nome senza soggetto?
L'egoista, il cui nome fa tremare gli umanitari, è un fantasma così come il diavolo; esso non esiste che nella loro fantasia e sotto forma d'idea fantastica nel loro cervello. Se essi non ondeggiassero eternamente incerti tra il bene ed il male — fra l'umanesimo (secondo il loro linguaggio) e l' egoismo — non avrebbero trasformato il vecchio "peccatore" nell' "egoista", e mutato i vecchi cenci in novelli panni. Ma essi non potevano fare diversamente, poiché riguardavano quale loro compito l'essere uomini. Si sono sbarazzati del "buono", ma il "bene" è rimasto!
Noi tutti, senza eccezioni, siamo perfetti : non esiste nella terra un sol uomo che sia peccatore!
Ci sono bensì dei pazzi, che s'immaginano d'esser dio-padre o dio-figlio o l' uom della luna, e altri ve n'ha che ritengono di essere peccatori; ma come i primi non sono ciò che credono d'essere, cosi non sono peccatori i secondi. Il loro peccato è immaginario. Ma    — mi si obietterà per cogliermi in fallo — in tal caso il lor peccato consisterà almeno nella loro pazzia o nella loro ossessione. No, la loro ossessione è tutto ciò a cui essi potevano pervenire: cosi come la fede nella Bibbia fu per Lutero tutto ciò che egli era capace di trarre da sé stesso. All'uno è serbato il manicomio, all'altro il Panteon o il Walhalla.
Non v'ha peccatore e non v'ha peccato.
Non m'importunare col tuo amore del prossimo! — Penetra pure, o amico dell'uomo, nelle "tane del vizio", soggiorna un tratto in mezzo al rumore di una grande città: non troverai tu forse in ogni luogo peccati senza fine? Non piangerai tu sulla corruzione umana, sull' infinito egoismo? Potrai tu mirare un ricco senza trovarlo spietato ed "egoista"? Sarai tentato di dirti ateo, ma con tutto ciò resterai fedele ai tuoi sentimenti cristiani, e continuerai a credere esser più facile a un cammello passar per la cruna d'un ago che non a un ricco il diventar umano! Tra le persone che appressi, ve n'ha una sola che non debba esser compresa, per una ragione o per un'altra, tra gli egoisti? Che cosa ha dunque ritrovato il tuo amor del prossimo? Unicamente della gente che non puoi amare! E donde proviene quella gente? Da te stesso, dal tuo amore del prossimo! Nella tua testa tu porti impressa l'idea del peccato, e perciò tu l'hai ritrovato in ogni luogo e l'hai voluto scorgere in ogni persona. Non chiamar peccatori gli uomini, ed essi non saranno tali: tu, tu solo, crei i peccati: e tu che credi falsamente d'amare gli uomini, tu li rigetti nel fango del peccato, tu li
distingui in viziosi e virtuosi, in umani e disumani; tu, proprio tu, li insudici con la bava della tua ossessione. Poiché tu non ami gli uomini, bensì l'uomo. Ma io ti dico che tu non hai mai veduto un peccatore: l'hai soltanto sognato.
Il godimento di me stesso viene turbato dall'idea che io ho di dover servire ad un altro, di aver degli obblighi verso quest'altro, di esser "chiamato" a sacrificarmi a lui, a dimostrargli abnegazione o entusiasmo. Ebbene, se io non sono più servo di nessuna idea, di nessun "ente supremo", è ovvio che io non sarò più servo di alcun uomo, ma tutt'al più di me stesso. In tal modo però io sono, non soltanto nel fatto, ma anche nella mia coscienza, l'unico.
A te spettano ben maggiori cose che non siano Dio, l'umano, ecc.: a te spetta quello che è tuo.
Se considererai te stesso per più potente degli altri, tu accrescerai la tua forza: se terrai te stesso in maggior conto di quello che gli altri non t'abbiano, tu avrai anche di più.
Allora tu non sarai solamente chiamato alle cose divine, e autorizzato alle umane, ma sarai il padrone di ciò ch'è tuo, vale a dire di tutto ciò che avrai la forza di far tuo. Sarai cioè adatto ad ogni cosa tua.
Mi si volle fin qui attribuire una destinazione posta fuori di me stesso, sicché si finì col pretender da me che io godessi di ciò che è umano per questo solo motivo che io sono uomo.
Questo è il circolo magico dei cristiani. Anche l'io di Fichte è la medesima astrazione posta fuori di me, poiché l'io è di tutti, e se quest'io di tutti è il solo che ha dei diritti, esso diventa l'io universale. Ma io non sono un io fra tanti altri: io sono unico! E per ciò anche i miei bisogni, le mie azioni, in breve tutto ciò che è in me, e viene da me è unico. E soltanto sotto questo aspetto di unico io m'approprio ogni cosa a quel modo che solamente come tale io spiego la mia attività e mi svolgo liberamente.
Quest'è il senso dell' unico.

Max Stirner

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