domenica 1 settembre 2013

BAKUNIN E IL NICHILISMO


Autocrazia e anarchia: archè e anarchè nel pensiero politico russo

Un saggio di Roberto Valle, pubblicato dall'Istituto di Politica - 2012
tra contraddizioni, deliri e verità




1. La simbiosi antitetica tra arché e anarché: Askol’dov e Savinkov

La rivoluzione del 1917 era una rivelazione estrema e fatale di quella paradossale antitesi-simbiosi tra arché e anarché che ha contraddistinto la storia russa. Secondo la dinamica storica del periodo zarista (da Ivan il Terribile a Pietro il Grande) e del periodo imperiale, la totalità socio-comunitaria russa non ha subito un processo di secolarizzazione, ma è rimasta sotto l’egida dell’Uno ontologico. In Occidente, la distanza da Dio ha permesso una autonomizzazione crescente della sfera terrena: all'inizio del XX secolo, per Rilke, la Russia era ancora un paese che confinava con Dio. L’Uno ontologico, che riverberava la propria immagine nello zar pio e giusto quale incarnazione della signoria e del predominio politico,
manteneva l’inclusione dell’ordine visibile in un principio di inglobamento superiore. Per i teorici dell’autocrazia, secondo Berdjaev, lo zar non era solo il detentore del potere, ma doveva salvare le anime.
Nel suo slancio apocalittico, l’intelligencija rivoluzionaria era, invece, persuasa che una “forza malvagia” si era impossessata del potere. L’autocrazia russa, secondo Berdjaev, si è costituita sotto il segno dell’ “idea messianica”, quale ricerca della regno della verità: grazie alla fede ortodossa si apparteneva al regno russo; grazie alla fede comunista si apparteneva alla Russia sovietica. Dopo il 1917, l’ideocrazia marxista-leninista, infatti, si è imposta come una Provvidenza che ha legittimato l’intervento umano, cercando di renderlo coerente con il proprio destino. La rivoluzione, quale impresa e azione creatrice “promossa da tutti e da ciascuno”, intendeva, secondo Askol’dov, essere l’atto fondante di una sorta di “autocrazia popolare”. La rivoluzione russa si configurava come un tentativo di compiere una metamorfosi, quale “surrogato areligioso” della trasfigurazione. L’”autocrazia popolare” tentava di rinnovare le forme della società non dall'interno attraverso l’unità, ma dall'esterno attraverso la molteplicità. Secondo Askol’dov, perciò, l’”autocrazia popolare” era destinata alla disintegrazione e a favorire l’ascesa dell’ “autocrazia dei demagoghi del proletariato” che praticava in “proporzioni spaventose” tutti quegli anarchici arbitri dei quali prima della rivoluzione era accusato il vecchio regime zarista: “infrazione di ogni diritto, perquisizioni, arresti, condanne a morte, assassinii”. Quale processo di metamorfosi politica, la rivoluzione avrebbe dovuto comprendere due momenti antitetici: la disintegrazione o anarchia e il raccoglimento o concentrazione. Tuttavia, per Askol’dov, il processo rivoluzionario infrangeva la “legge della vita organica”: il momento della concentrazione, perciò, avrebbe condotto all'impostura dell’arché demagogico e a forme false di rinascita e di rinnovamento. La “riunione nell’intero”, infatti, non sarebbe avvenuta secondo” un principio in grado di produrre il mondo e di farlo tornare a sé”, ma a caso: nel contesto rivoluzionario tutto accadeva non per “libertà interiore”, ma per “costrizione esterna”. La concentrazione forzata del potere avrebbe favorito l’instaurazione di una inedita forma di dispotismo statale: per Askol’dov, “il rivoluzionarismo, l’anarchismo e il dispotismo” erano tre ascessi della vita dell’organismo sociale, “esteriormente differenti ma interiormente collegati e generantisi a vicenda”. Nel suo slancio creatore, la rivoluzione aveva una provenienza errata, perché scaturiva dalla “molteplicità periferica” e non dal centro, evocando le forze del caos. Lo slancio rivoluzionario era impresso alla molteplicità da settori intermedi della società, come l’intelligencija, che erano talvolta vicini all’unità centrale e che eccitavano le masse. Sul piano dell’ontologia religiosa, secondo Askol’dov, a questo eccitamento corrisponde la “ribellione di Lucifero contro il piano divino dell’universo, il suo desiderio di dirigerlo a modo suo attribuendosi il significato di unità centrale”. Il “luciferinismo” politico dei rivoluzionari e degli anarchici trova una giustificazione nel male che compenetra tutte le “forme terrene di Stato”. Paradossalmente, l’ideologia rivoluzionaria era ancora permeata della “coscienza dell’intero”, ma era destinata ad essere avvolta dalla tenebra, dal “colore nero dell’anarchia, di quell’eruzione di molteplicità che non vuole saperne di nessun intero, di nessuna legge edificatrice della vita organica ed esprime soltanto l’aseità egoistica di ciascun elemento staccato”. Dopo avere inoculato nelle masse i sentimenti dell’odio classista, della sicurezza di sé e dell’esagerazione della propria importanza, il “luciferinismo” politico approdava al dispotismo, seminando il terrore e impiegando vari mezzi di costrizione per imporre una unità forzata della società. L’autocrazia dei demagoghi non solo decretava
la fine della “creatività rivoluzionaria”, ma rinunciava a costruire un mondo migliore secondo forme ideali, cristallizzando quelle forme esistenti che gli erano necessarie per sopravvivere. Tale organizzazione meccanica della vita, quale estremo tentativo di differire l’imminente morte del nuovo ordine rivoluzionario, secondo Askol’dov, era una visione apocalittica; il nuovo ordine rivoluzionario, infatti, non era bianco, colore vivificante della coscienza religioso-sociale, non era rosso, il colore ribelle della rivoluzione, non era nero, colore dell’anarchia caotica. L’autocrazia luciferina era una sorta di “pallida impotenza incolore” che possedeva solo una parvenza esteriore di vita, era il “cavallo pallido” dell’Apocalisse. Cavallo pallido è il titolo del romanzo autobiografico pubblicato nel 1908 dal terrorista social-rivoluzionario Boris Savinkov, che dopo la rivoluzione d’ottobre partecipò alla guerra civile dalla parte dei bianchi e fu considerato dagli alleati occidentali un’alternativa a Lenin, morì suicida nel 1925 in una prigione sovietica. Cavallo pallido è il diario di un terrorista che sta preparando un attentato contro il governatore di Mosca e cerca una risposta all’interrogativo fatale: perché uccidere nel nome dell’anarchia è bene, mentre uccidere nel nome dell’autocrazia è male? Vivendo al limite tra la vita e la morte, il rivoluzionario da una parte considera il terrorismo un “bene necessario”, dall’altro è consapevole che il cavallo pallido dell’Apocalisse porta con sé solo la fissità esanime della morte e non la legge e una nuova tavola di valori. La visione del cavallo pallido priva il rivoluzionario di quella “coscienza felice” che lo fa sentire al di là della legge e pronto ad uccidere il prossimo in nome dell’amore del lontano. L’arché e l’anarché sembrano ricongiungersi in una “zona di indifferenza fra sacrificio e omicidio”. Come sostiene Agamben, sovrana è “la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera”. Nel romanzo di Savinkov, il rivoluzionario di trova di fronte a un bivio: credere che il socialismo sia il paradiso sulla terra e che la rivoluzione “contadina, cristiana e cristica” sia in marcia per inverare il regno del Dio d’amore sulla terra; seguire la via di Smerdjakov (personaggio dei Fratelli Karamazov) che uccide perché Dio e il Cristo-uomo non esistono e, perciò, “tutto è permesso”.



2. Lo Zar e la Rivoluzione: Merežkovskij, Gippius e Bakunin

Il dilemma posto da Savinkov si trova anche in Lo Zar e la Rivoluzione una raccolta di saggi di Dmtrij Merežkovskij, di Zinaida Gippius e di Dmitrij Filosofov pubblicata nel 1907. Merežkovskij e sua moglie Zinaida Gippius erano i profeti della “nuova coscienza religiosa” o religione dello Spirito ed erano oppositori dell’autocrazia e della Chiesa istituzionale. Dopo la rivoluzione del 1905, Merežkovskij e Zinaida Gippius soggiornarono a Parigi dove conobbero Savinkov. Come ricorda Gippius, l’idea del romanzo di Savinkov ricalca le tesi formulate da Merežkovskij in una conferenza sulla violenza. Tale conferenza riprende l’idea centrale sviluppata da Gippius nel saggio La Rivoluzione e la violenza contenuto nella raccolta Lo Zar e la Rivoluzione: la violenza è l’impossibilità necessaria della rivoluzione ed è giustificata dal suo fine supremo e umanista, l’instaurazione del paradiso sulla terra. Merežkovskij e Zinaida Gippius consideravano l’Apocalisse come la più grande delle rivoluzioni, quale rivelazione del Terzo Testamento della Divino-Umanità. La “nuova coscienza religiosa” operava una sintesi tra Hegel e
Gioacchino da Fiore e considerava l’autocrazia come il Regno dell’Anticristo, un’interpretazione erronea dell’idea di Regno di Dio. Al di là del populismo religioso propagandato da Merežkovskij e da Zinaida Gippius, da Lo Zar e la Rivoluzione, come ha rilevato Jutta Scherrer, si può trarre una sorta di teologia politica dell’autocrazia e dell’anarchia che consente di cogliere i nodi fondamentali del pensiero politico-religioso russo per quanto attiene la simbiosi antitetica tra arché e anarché. Secondo Gippius, la forza dell’autocrazia risiedeva nella fusione di due principi, l’impero e il sacerdozio, in una sola persona: incarnazione di un “potere illimitato”, da una parte l’autocrate era il “supremo pontefice”, dall’altra era il “padrone temporale” del mondo. L’idea dello zarismo ha trovato la sua compiuta realizzazione storica con Pietro il Grande che ha abolito il Patriarcato e ha assorbito la Chiesa nello Stato. Sebbene i raskol’niki e gli slavofili considerassero le riforme dello zar Anticristo una cesura con la tradizione, Pietro il Grande restava nel solco di Mosca e di Bisanzio. Pietro il Grande, infatti, aveva condotto all’estremo la tradizione moscovita, annichilendo il Patriarcato e proclamandosi “pontefice e autocrate, capo della Chiesa e dello Stato sovrano dei regno dei cieli e del regno terrestre”. Lo “Stato- regolare” forgiato da Pietro il Grande, come “modello” prescrittivo e “disciplinare” che si contrapponeva all'irregolarità dell'empirica realtà sociale, aveva infranto solo la tradizione moscovita e bizantina dell’ “immobilità pietrificata” dell’edificio religioso, la fedeltà ai riti e alle antiche regole. Contrapponendosi alla staticità del diritto canonico e consuetudinario, lo Stato-regolare aveva imposto un principio dinamico, trasformando la realtà sociale attraverso la codificazione di leggi e di regolamenti e ponendo l'accento sulla "volontà sovrana" che precede e forgia le leggi fondamentali. Questo paradigma giuridico-ideologico derivava da una concezione del potere sovrano che attingeva alle fonti del diritto russo e all'opera di codificazione realizzata, all' epoca di Pietro il Grande, da Feofan Prokopovič, ideologo dell’autocrazia illuminata e autore del Regolamento ecclesiastico (Duchovnyj reglament). Sulla scia di Bodin, Giacomo I e Hobbes, Prokopovič fa derivare la legittimazione della monarchia dalla "volontà sovrana". Il libero esercizio di tale "volontà" è sancito dal contratto sociale originario ed è il caposaldo della dottrina politico-giuridica di Prokopovič: la "libera" volontà del monarca, infatti, non è soggetta alle leggi umane, anche se sono atte a promuovere il benessere generale. Facendo riferimento al giusnaturalismo di Grozio e Pufendorf, Prokopovič intendeva far nascere in Russia una nuova cultura politico-giuridica che fosse confacente ad uno Stato ben policé impegnato a suscitare le energie di una società dinamica e produttiva. Per Prokopovič, la "volontà sovrana" di Pietro il Grande aveva generato la "nuova Russia": con il suo volontarismo e decisionismo, lo zar riformatore era l'agente della "trasfigurazione" (preobraženie) della Russia Il sovrano era sia il "custode" delle tavole della legge, sia il legislatore che con la sua opera di regolamentazione imponeva una cesura con il passato: a proposito dei decreti di Pietro il Grande, scritti in uno stile pungente e polemico dallo stesso Prokopovič, Puškin ha sostenuto che sembrano scritti "con la frusta". Per Merežkovskij, Pietro il Grande aveva compreso la necessità di far penetrare la Russia in Europa al fine di creare una Terza Roma russa e universale: Pietro il Grande riaffermava l’unità assoluta tra l’ortodossia e l’autocrazia al fine di asservire l’Occidente, prendendo da esso le forme (i Lumi) senza il contenuto. Nel Sermone d’encomio sulla battaglia di Poltava, Prokopovič afferma che Pietro il Grande era “l’imperatore romano Augusto” che aveva ricevuto una “Roma di mattoni” e l’aveva “lasciata di marmo”: la nuova capitale Pietroburgo era la Terza Roma rinata, potente e adulta. Per Merežkovskij,
l’autocrazia ortodossa, dopo Pietro il Grande, si era retta su un equilibrio impossibile: la reazione nella rivoluzione, rimanendo sospesa sopra un abisso che l’avrebbe inghiottita in una caduta terribile. L’anima impura del Santo Impero romano-bizantino era una sorta di demone nato dalla “fusione adultera” dell’ortodossia e dell’autocrazia. L’autocrazia, quale Regno del “Dio-Uomo” era, secondo Merežkovskij, una chimera così folle, una utopia irrealizzabile non dissimile dal “regno dell’umanità senza Dio” sognato dall’anarchismo “più violento e più astratto”. Il “circolo vizioso” nel quale si dibattevano l’autocrazia e l’anarchia era attestato, secondo Gippius, da Bakunin, il quale sosteneva che l’attaccamento del popolo alla zar era di natura religiosa: “La religione del popolo non è celeste, ma terrena: essa è il bisogno, l’esigenza di soddisfazioni sulla terra”. Il popolo russo, per Bakunin, odiava profondamente e appassionatamente lo Stato e i suoi rappresentanti, ma, “fatto indiscutibile ed estremamente significativo”, non aveva perduto la propria fede nello zar, dal quale si attendeva un duplice dono: la terra e la libertà.
Dall’esistenza rivoluzionaria di Bakunin, infatti, si può evincere l’antropologia e l’ontologia della rivoluzione russa attraversata da un sentire apocalittico e nichilista: “l’apocalitticità si trasforma facilmente in nichilismo”; dal canto suo, il nichilismo può assumere una “tinta apocalittica, può risultare esigenza della fine”. Come aveva compreso Dostoevskij ne I demoni, la figura di Bakunin epitomava il “tutto” del nichilismo apocalittico che oscillava tra il suicidio della rivoluzione e la santificazione della Russia rivoluzionaria. L’ideologia slavofilo-internazionalista di Bakunin inserì stabilmente la rivoluzione nell’apocalitticità russa quale icona della redenzione universale e, al di là dell’hybris delle passioni distruttrici e nichiliste, nel “nebuloso futuro” si stagliava la figura estatica e trionfante della Russia narodnaja, dell’impero slavo rivoluzionario .
Nella Confessione indirizzata a Nicola I nel 1851, il “grande criminale” Bakunin sosteneva, infatti, che il mondo della decrepitezza era l’Europa che, con il suo sedicente equilibrio di potenza e con la sua teodicea monarchico-liberale, era destinata alla paralisi e al tramonto. Come rileva Voegelin, nella Confessione si avverte quella tensione tra “fede” e “pentimento” che è un dato permanente nella vita di Bakunin. Il “furore escatologico” e nichilista di Bakunin era rivolto soprattutto contro la setta comunista in Occidente, che era il prodotto della depravazione, dell’egoismo e del rimorso di una coscienza ipertrofica e decrepita. L’Hochschule marxista si doveva appellare a un forte potere centrale, perché l’ “anarchia individualistica” e autoritaria era il principale credo di quel “catechismo tedesco” che aveva avuto origine con il protestantesimo. Per le masse europee, invece, il comunismo era un istinto di “elevazione” nell’epoca dello sviluppo industriale. La disillusione verso la setta comunista indusse Bakunin ad approdare, con un “balzo mistico”, ad una “forma estrema di nichilismo” che, secondo Voegelin, era scevro da quell’odio e da quella diffamazione dei nemici che contraddistingue il pensiero politico occidentale da Voltaire a Marx . Nella Confessione, infatti, Bakunin afferma che l’odio verso lo zar scaturiva dall’”immaginazione nelle idee” e non usciva dalla “sfera politica”, perché era rivolto contro “l’incoronazione del potere autocratico” e non contro la “figura vivente”. L’ipertrofica autocoscienza delle classi elevate europee era una sorta di infirmitas della volontà di potenza: la “marcia misteriosa” della storia sovvertiva la logica politica e affidava agli slavi la missione di “rinnovare il mondo occidentale”. Senza la Russia l’unità slava non solo non era completa, ma mancava di una guida, per questo lo zar doveva liberare l’impero, perché
l’eccessivo accentramento dello Stato scatenava l’odio degli altri popoli slavi. L’”ossessione rivoluzionaria” e la “passione distruttrice” , secondo Bakunin, si sarebbero impossessate della Russia e avrebbero dato vita ad un movimento fondato sulla radicale negazione del “catechismo liberale” europeo. La rivoluzione di sarebbe affermata attraverso un “forte potere dittatoriale”, al fine di elevare le masse: tuttavia la dittatura rivoluzionaria avrebbe dovuto operare per il proprio rovesciamento, rendendosi “superflua”, perché il fine della rivoluzione era la libertà del popolo: uno zar anarchico avrebbe potuto liberare la Russia. Alla “teologia politica” dell’autocrazia, Bakunin contrapponeva il “principio satanico” della libertà. Come ha rilevato Carl Schmitt, nella querelle contro la teologia politica di Mazzini Bakunin aveva ragione nel sostenere che i concetti “più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”; tuttavia in Bakunin, animato da un “sentimento antiromano” e antioccidentale, sussiste uno “strano paradosso”: l’anarchico russo dovette diventare nella teoria il “teologo dell’anti-teologia” e nella prassi il “dittatore di anti-dittatura”. Schmitt considera l’ antiteologia russa come l’ antitesi della “civiltà occidentale”, epitomata da Mazzini, vittima della critica radicale di Bakunin, che mosso da un “istinto anarchico” voleva dimostrare che ogni potere è “malvagio e inumano”. Nella “barbarica e satanica immediatezza della sua antiteologia politica”, la figura di Bakunin, secondo Carlo Galli, incarna il ruolo di una sorta di “estremistico grado zero della modernità” che, nella sua radicalità, va “ben oltre il suo compimento teorico o romantico (e anche oltre lo stesso marxismo)”, conservando in sé una “energia negativa ignota alle altre ideologie moderne”.



3. La teologia politica dell’autocrazia e la teologia politica dell’anarchia: lo zar, l’impostore e la Santa Russia Narodnaja

La teologia politica dell’autocrazia e la teologia politica dell’anarchia hanno una radice nel pensiero politico-religioso russo che, nella sua origine, si incentra sui concetti di autocrazia e di Santa Russia. Secondo lo storico russo Anisimov (Le riforme di Pietro il Grande, 1989) “la rivoluzione di Pietro era di natura decisamente conservatrice. Sembrava che lo scopo finale fosse la modernizzazione delle istituzioni e delle strutture di autorità per il mantenimento dei principi fondamentali del regime tradizionale”. Questo regime tradizionale era nato nella seconda metà del XV secolo con Ivan III, che è all'origine dell'autocrazia russa (samoderžavie, la piena sovranità conquistata con la fine del giogo mongolo nel 1480 e con l'ascesa di Mosca). Il termine autocrate fu usato per la prima volta dal metropolita Zosima: quale calco del greco autocrator , il termine samodežec esprimeva la supremazia dello zar moscovita e la sua libertà da ogni potere superiore. Tuttavia come sottolineano Vernadsky e Cherniavsky, l’autocrazia non era una rigida forma di governo e l’autocrate era nel contempo basileus e khan. Lo zar, infatti, era sia il basileus ortodosso e pio che guidava il suo popolo cristiano verso la salvezza, sia il khan che preservava l’idea del conquistatore della Russia e del suo popolo e di fronte al quale erano tutti schiavi. Il basileus era il santo zar in unione spirituale con il suo gregge; il khan era l’incarnazione dello Stato assolutista e secolarizzato. Le due immagini difficilmente trovavano una sintesi in un’ unica persona. Nel caso di Ivan il Terribile il khan e il basileus entrarono in tensione tra loro. Tale tensione era tragicamente esemplificata
nel principio formulato dallo stesso Ivan il Terribili: uccidi di giorno e prega di notte. Il processo di formazione e di consolidamento dell'autocrazia trovò una sua prima definizione ideologica all'epoca di Ivan il Terribile: l'autocrate era l'incarnazione della sovranità assoluta dello Stato e dell'ordine contro l'arbitrio dei boiari. Due virtù contraddistinguevano l'autocrate: la pravda (legge, giustizia) e la groza (tremenda severità). L'autocrazia poteva essere consolidata solo con l'apporto di una nobiltà di servizio (ceto di giudici, esattori e militari di professione) con operazioni di polizia e guerra di conquista. La caratteristica più notevole del sistema autocratico era l'universalità del servizio di Stato; la società era divisa in due: coloro che servivano con la propria persona (i nobili ) e coloro che servivano con i loro beni pagando le imposte. Nelle lettere al principe ribelle Kurbskij (primo documento del pensiero giuridico-politico russo moderno), Ivan IV affermava l'assoluta superiorità dello zar che gode di una illimitata signoria, cui corrisponde la condizione servile dei sudditi. La rivolta contro il sovrano non era solo un atto politico, ma anche un sacrilegio contro l' “unto dal Signore”, perciò il ribelle era un eretico. L'ispirazione bizantina della concezione del potere rimaneva sia nella simbologia sacrale che accompagnò le origini dell'autocrazia russa ( soprattutto nella cerimonia dell'incoronazione nella quale si esaltava lo speciale carisma dello zar che era identificato con Cristo), sia nel rapporto Stato-Chiesa caratterizzato dal loro formale equilibrio, definito symphonia, che progressivamente si modificò a vantaggio dell’autocrate: tale equilibrio fu rotto nel 1721 da Pietro il Grande con la soppressione del patriarcato e con il Regolamento ecclesiastico. Con Pietro il Grande, che assunse, il titolo di imperator, l'incoronazione dello zar diventava un autentico sacramento: l’autocrazia russa era consacrata come monarchia universale e l’imperatore era la riproduzione della divinità. L'altro caposaldo ideologico dell'autocrazia era la dottrina della Terza Roma formulata dal monaco Filofej di Pkov in una epistola indirizzata al gran principe Basilio III nel 1523; la profezia del monaco (nella quale si fondevano l'apocalittica bizantina e il millenarismo) così recitava: due Rome sono cadute, la terza è salda e una quarta non ci sarà. La Terza Roma sostituisce e non continua la seconda (Bisanzio) e questa idea è una costante della storia russa. Quando Pietro il Grande assunse il titolo di imperator e Mosca perse la sua centralità, San Pietroburgo fu considerata l'autentica Terza Roma: San Pietroburgo (che rivendicava un legame con la prima Roma e non con Bisanzio) era la capitale del nuovo Stato regolare, in quanto città premeditata e stabilita per decreto; era la città di San Pietro dove dimorava il nuovo imperatore romano e capo della Chiesa. La santità della nuova capitale risiedeva nella sua funzione statale, mentre Mosca era la capitale del tradizionale Stato liturgico e dei bigotti. Al termine di un lungo processo, caratterizzato anche da sommovimenti interni, si verificò una tensione tra lo Stato a sovranità territoriale e il detentore sacro della vocazione universale, il popolo depositario della verità eterna e identificato con la Chiesa. Come rileva Cherniavsky, l’idea di “Santa Russia”, a partire dal principe ribelle Kurbskij, è stata formulata in antitesi allo Stato dello zar. La “Santa Russia” era il mito delle masse contadine che tentavano di esprimere la loro personalità collettiva contro lo Stato centralizzato. La tensione tra Santa Russia e autocrazia divenne evidente nel XVII secolo con lo scisma dei raskol’niki, ma soprattutto nel periodo dei torbidi durante il quale, in seguito alla crisi dinastica succeduta alla morte di Ivan il Terribile, comparve, con il “falso” Demetrio la figura dell’impostore. La teologia politica dell’autocrazia affermava che il popolo doveva servire il “vero zar” che era una istituzione divina, mentre lo zar infausto e nefando era un demonio. Dopo il periodo dei torbidi, secondo
Boris Uspenskij, l’impostura in Russia è diventata un fenomeno storico e culturale. Mentre il vero zar riceveva il potere da Dio, l’impostore lo riceveva dal demonio che lo incoronava. Il vero zar era una icona vivente, l’impostore era un idolo. L’impostura come fenomeno idealtipico dello scenario del potere in Russia è legato alla sacralizzazione della monarchia: Dio è lo zar del cielo ed è incorruttibile, mentre lo zar della terra è corruttibile. Ne I demoni di Dostoevskij l’anarchia è definita dal demone ideologo Pëtr Verchovenskij una utopia “antiquaria” che deve essere sostenuta da un’idea politica archetipica: l’idea dello zar impostore, della zar nascosto che incarna la “nuova legge di giustizia” della nuova Santa Russia. Sebbene lo Stato si appropriasse di questo mito, la Santa Russia era l’escatologia trascendentale della comune contadina. La Santa Russia divenne anche il mito dell’intelligencija che la trasfigurò nell’idea della Russia narodnaja. Per Tolstoj, anarchico religioso e “secondo zar”, l’autocrazia era propria al popolo russo finché esso aveva creduto che lo zar fosse un “infallibile Dio in terra”. Tuttavia il popolo aveva scoperto che lo zar buono e giusto era un azzardo e che gli autocrati potevano essere, come nel caso di Ivan il Terribile e di Paolo I, “scellerati e folli”. Dopo Nicola I, per Tolstoj, il prestigio dell’autocrazia non aveva cessato di decadere: in tutti i ceti nessuno aveva più soggezione o timore di condannare le disposizioni dello zar. La contrapposizione tra l’autocrazia knuto-germanica e la Russia narodnaja , tra Stato e terra è illustrata da Bakunin in una lettera del 2 giugno 1870 a Nečaev, lo zar impostore del nichilismo che aveva stilato quel catechismo del rivoluzionario non dissimile dal “sistema di Loyola e di Machiavelli”. Per Bakunin, la Russia narodnaja aveva elaborato storicamente un ideale: il possesso in comune della terra e l’emancipazione da ogni costrizione dello Stato. Il popolo russo aspirava a questo ideale “all’epoca dei falsi Demetrii, di Sten’ka Razin e di Pugačëv “ e continuava ad aspirarvi attraverso “ribellioni costanti ma non coordinate”: l’insensata rivolta russa avrebbe dovuto sfociare nella Rivoluzione Sociale.



4. L’anarchismo, l’Unico e lo Stato anarchico: Herzen e Bakunin

L’insensata rivolta russa era stata descritta da Puškin in Storia di Pugačëv e nella Figlia del capitano. Nelle “note generali” sulle rivolta russa destinate a Nicola I, Puškin afferma che tutto il popolo era schierato con Pugačëv, lo “zar contadino”. Secondo Lotman, Puškin non distingue tra potere legittimo e potere illegittimo, perché la società si era divisa in due campi antagonisti e per i contadini Pugačëv ero lo zar Pietro III, lo zar nascosto che si era miracolosamente salvato dal colpo di Stato e dall’assassinio orditi da sua moglie Caterina II. Sebbene ricorresse ai simboli del potere autocratico, secondo Puškin, lo zar contadino aveva instaurato un potere più patriarcale, avendo un legame immediato con la massa governata. Forgiando la narodnost’ ufficiale basata sulla triade autocrazia- ortodossia- popolo, Nicola I tentò di riassumere nella propria persona il basileus-khan e lo zar contadino. Secondo Herzen, la nardonost’ ufficiale era la rovina del potere zarista che non era russo, ma profondamente “tedesco-bizantino”. Nel corso della sua storia secolare l’autocrazia aveva tradito la propria missione storica, quale incarnazione di quella tendenza originaria del popolo russo ad organizzarsi in uno “Stato forte e
autonomo”, e, approdando al dispotismo imperiale, era diventata una realtà cosmopolita, non dissimile dall’impero asburgico. Il popolo russo aveva conservato la propria identità nell’obščina, la comune contadina, nucleo originario e arché del futuro socialismo russo. Per Herzen, il dispotismo zarista non aveva nulla da temere dal comunismo di derivazione europea, perché era “l’autocrazia russa rovesciata”. Trovandosi a Parigi nel 1848, Herzen era rimasto deluso dagli esiti della rivoluzione che era approdata all’ “autocrazia della piccola borghesia” incarnata da Napoleone III, mostrando che la democrazia era una futuro morituro. Dall’altra sponda di Herzen, cronaca icastica e filosofica del fallimento della rivoluzione europea, può essere paragonato a L’Unico e la sua proprietà di Stirner. All’opera di Herzen potrebbe essere attribuito il medesimo giudizio che formulò il teologo slavofilo Chomjakov sull’Unico: anche Dall’altra sponda si configura come una “protesta della libertà spirituale contro ogni vincolo arbitrario e imposto dall’esterno”, contro “i fantasmi di principi spirituali creati artificialmente”. Secondo Herzen, la teodicea liberale e democratica aveva inventato il fantasma della sovranità popolare: il “popolo inventato” era diventato l’idolo della “nuova religione politica”; il “sacro crisma” con cui ungevano il ciglio dei monarchi andò ad “ungere una fronte bruciata dal sole, solcata di rughe e di amaro sudore. Senza averne liberato le braccia, né la mente, il liberalismo pose il popolo in trono e, pur inchinandoglisi umilmente, cercò al tempo stesso di tenersi il potere. Il popolo si comportò come uno dei suoi rappresentanti, come Sancho Panza: rifiutò il finto trono o, per megli dire, nemmeno provò a sedercisi”. L’autocrazia della piccola borghesia aveva reso la vita “più ripugnante”: i borghesucci sazi avevano perso ogni interesse per la libertà e esigevano un potere forte. Quale procedimento di pensiero, il nichilismo dell’Unico, che non rinuncia alla propria singolarità per amore del popolo, non è sterile scetticismo, ma una logica senza strettoie e un scienza senza dogmi che, secondo Herzen, non “trasforma qualcosa in nulla, ma svela che il nulla, scambiato per qualcosa, è un’illusione ottica”. Per Herzen, il nichilismo anarchico di Bakunin, basato sull’idea di pandistruzione, conduceva ad un “antagonismo forzato” ad una sorta di teologia politica iconoclasta che voleva distruggere la Chiesa, lo Stato e perseguitare la cultura. Nelle lettere “a un vecchio compagno” indirizzate a Bakunin, Herzen afferma che il collettivismo anarchico era una variante del dispotismo, perché riduceva la libera personalità a un cieco strumento del destino. Distruggendo l’unicità della propria personalità, il rivoluzionario anarchico si raffigurava come “flagello e carnefice di Dio”. D’altro canto, le forme statali, la Chiesa e il potere giuridico non potevano essere sradicati con il terrore, come dimostrava la vicenda della Vandea, perché tali istituzioni “colmano il fossato tra l’incomprensione delle masse e la civiltà unilaterale dei vertici”. L’anarchismo di Bakunin, per Herzen, violentava il popolo ed era una spreco della propria unicità: la dissipazione dell’unicità era l’ arché di un mondo “disgustoso”, stupido e delirante. Definendo erasmiane le considerazioni di Herzen sull’anarchismo, Bakunin affermava ne I principi della rivoluzione l’arché dell’anarché: il principio della rivoluzione era il “tempo di distruzione della forme sociali esistenti, una loro riduzione allo stato amorfo”. La distruzione spietata, quale arché dell’anarché , avrebbe dovuto essere “unica e assoluta”. Tale arché era il principio che consacrava una vasta opera di sterminio, a partire da quello che Nečaev nel Catechismo del rivoluzionario definiva “il bestiame altolocato, cioè gli individui che non si distinguono né per intelligenza, né per energia, ma che, grazie alla posizione che occupano, godono di ricchezze, di conoscenze, di influenza e di potere”. Nel proclama Alla giovane Russia redatto nel 1862 da un
fantomatico “Comitato Centrale della Rivoluzione” si annunciava l’abbattimento senza pietà del partito dello zar e lo sterminio della famiglia imperiale. Tale proclama apriva la battuta di caccia contro lo zar, feticcio divino, e annunciava il fatale conflitto tra le due forze principali che si contendevano il predominio socio-politico in Russia: l’autocrazia e la rivoluzione. L’assassinio di Alessandro II, nel 1881, non suscitò la sperata sollevazione popolare, ma una spietata reazione da parte dello zar Alessandro III che dotò la polizia di nuove strutture in grado di migliorare la lotta contro il terrorismo. Il gruppo dirigente dell’organizzazione terroristica Narodnaja Volja fu giustiziato e il terrorismo entrò in una zona grigia che favorì l’infiltrazione da parte dell’Ochrana, secondo i dettami stabiliti del maestro della provocazione politica Sergej Zubatov, capo della sezione moscovita della polizia segreta. Agli inizi del Novecento, Azef, agente infiltrato dell’ Ochrana, divenne leader dell’organizzazione. Il terrorismo cominciò ad essere usato come una riserva incendiaria dallo stesso governo zarista. Bakunin, invece, credeva che la battuta di caccia contro lo zar avrebbe suscitato la Rivoluziome Sociale. La “Rivoluzione Sociale” era una “idea-passione” che doveva conquistare i sentimenti e la volontà del popolo fino all’ “entusiasmo” dionisiaco e all’oblio di sé. Per Bakunin, l’idea-passione non solo era una “opera purificatrice dell’autocoscienza”, ma anche una rivelazione dell’abissale negatività di un mondo ripugnante che non meritava di essere trasformato, ma che doveva essere rifiutato e distrutto. Nelle sue memorie il critico e storico della letteratura Pavel Annenkov afferma che Bakunin, incontrato a Parigi nel 1846, era un fanatico delle “religioni proibite” (in primo luogo la causa polacca), una figura paradigmatica di quel “romanticismo rivoluzionario” che anteponeva le “ombre” e i “fantasmi” alla logica degli insegnamenti della storia. Riabilitando, con i loro malvagi furori, le “passioni insubordinate al presente”, Bakunin, nell’epoca dell’edificazione degli istituti della costrizione laico-borghese, fondava quella cultura mitopoietica della rivoluzione spontanea che ha avuto un influsso su quei movimenti politici del XX secolo suscitati da “passioni rosse”. “La passione per la distruzione è una passione creatrice”: è questo l’apoftègma che epitoma l’escatologia bakuniana, perché la storia è “negazione rivoluzionaria”. Il rovesciamento negatore dell’ordine esistente divenne il nucleo teoretico della prassi politica del pensatore russo; nel 1842, Bakunin definì l’ontologia “negativista” della rivoluzione sociale nel suo saggio d’esordio pubblicato sui “Deutsche Jahrbücher”: Die Reaktion in Deutschland. Bakunin faceva apparire sulla scena della storia quello “spirito negativo” che, come una “vecchia talpa”, aveva compiuto il proprio lavoro sotterraneo nelle opere di Hegel e della sinistra hegeliana (Strauss, Bauer e Feuerbach). Lo “spirito negativo” era la libertà: solo negli atti negatori si manifesta la libertà. Hegel era all’origine dell’ “autodecomposizione della cultura moderna”, perché aveva affermato che la “contraddizione” è la figura centrale dello Zeitgest della modernità. Tuttavia Bakunin assolutizzava la negazione, sostenendo l’autonomia del principio negativo. Tale sovranità del negative, quale arché scaturito dall’audecomposizione della cultura moderna, si poteva evincere dalla contraddizione insanabile con il “positivo” rappresentato dalla reazione: per Bakunin, la reazione aveva radici nell’evoluzione dello “spirito moderno” che continuava a trafficare con le “ombre” e con gli “spettri”, al fine di resuscitare il passato e di far risorgere dall’ “essenza della storia” la “forza occulta dell’Inquisizione”. Contrapponendosi radicalmente al negativo della rivoluzione, il positivo della reazione si incamminava verso la propria rovina, perché il negativo racchiudeva in sé la “totalità della contraddizione” e distruggeva tutto ciò che ha un’“esistenza positiva”. Affinché la negazione si
dispiegasse fino all’annientamento della reazione era necessario, secondo Bakunin, che gli “Anticristi” rivoluzionari, con la loro missione “sacra e sacerdotale”, si confrontassero con i reazionari “conseguenti”. L’idolo polemico della negazione anarchica era rappresentato da quei “conciliatori”, subdoli e “maligni”, che nella teodicea del progresso graduale tentavano di operare una sintesi tra reazione e rivoluzione. L’istoriosofia nichilista di Bakunin si caratterizzava come un’apocalisse secolare che voleva ridurre all’amorfismo le tradizionali istituzioni politiche e religiose e oscillava tra il “nulla assoluto” e la ricerca della repubblica democratica universale, di “un nuovo cielo e di una nuova terra” al fine di annichilire le contraddizioni in una “unità armoniosa”. Secondo Nietzsche, Bakunin era mosso dall’odio verso il presente e voleva annientare la storia e il passato, ma per annichilire il passato era necessario estinguere l’umanità. La pandistruzione, perciò, era rivolta all’annientamento della cultura, quale “continuità della vita spirituale”: per Bakunin, era necessario “rovesciare da cima a fondo” un “mondo sociale decrepito” che avere al suo vertice un Dio morituro. Mentre per il superuomo di Nietzsche la rivalità con Dio si consuma in una assurda “contemplazione negativa”, per Bakunin, invece, diventa una protesta disperata fino all’ “autosacrificio” nell’azione rivoluzionaria. La storia è, per Bakunin, il proseguimento e lo sviluppo della “lugubre lotta animale per la vita”e la sua escatologia si fonda su un’antropologia negativa: l’uomo è una “bestia feroce” e antropofaga che vive per la distruzione e che si redime attraverso il principio satanico della rivolta. L’umanità, secondo Bakunin, è la “manifestazione più alta dell’animalità”; tuttavia, come ogni sviluppo, essa implica necessariamente una “negazione”: l’umanità è il rifiuto riflessivo e progressivo dell’animalità; da questa negazione “fatale” ha origine l’”ideale”, il mondo delle “convinzioni intellettuali e morali”. Il “feticcio” divino nasce da uno sdoppiamento, perché la capacità di astrazione induce l’uomo a sfuggire alla lotta spietata per la vita, pretendendo di elevarsi al di sopra delle “passioni” e degli “appetiti”. Lo “scatenamento delle passioni malvagie” era, invece, la “misura morale” della rivoluzione; era necessario, però, orientare l’ istinto di distruzione verso la “nobile rivolta”, la “vera madre di tutte le emancipazioni”. Da Die Reaktion in Deutschland si può trarre la genealogia della morale rivoluzionaria: la contrapposizione tra punti di vista esclusivi muta in “odio” i buoni sentimenti; il “principio universale della libertà” assoluta si sarebbe affermato solo al termine di questa decisiva epopea della malvagità rivoluzionaria. Il “grande avvenire” della rivoluzione, per Bakunin, si sarebbe inverato in Russia; sulla terra russa era comparso lo spirito “eternamente rinnovato” che distrugge e annienta, interrompendo improvvisamente il graduale fluire della storia. L’atmosfera soffocante imposta dall’autocrazia era gravida di “tempeste” ed era un annuncio dell’arresto messianico provocato dall’Apocalisse a venire. La civilizzazione aveva avuto un effetto debilitante sull’Occidente, spettava, perciò, ai contadini russi (alieni dalla civiltà “knuto-germanica”) ridurre l’Europa a un “cumulo di rovine”. Su queste rovine sarebbe stato possibile creare “l’edificio del Paradiso della vita futura”. In un articolo del 1876 dal titolo ironico-paradossale Lo Stato anarchico, Tkačëv, rivoluzionario elitario, denunciava l’”ermafroditismo” del futuro paradiso anarchico: gli anarchici riconducevano tutte le funzioni sociali alla categoria del servizio sociale; considerate nel loro insieme le funzioni sociali costituivano fatalmente una “direzione statale e sociale” e il termine direzione era equivalente alla parola potere. Per Tkačëv, Bakunin era incoerente: da una parte negava il potere per principio, dall’altra stilava progetti di “organizzazione del potere”. In un altro articolo, Anarchia del pensiero, Tkačëv stigmatizzava Stato e
anarchia, che attribuiva un primato morale e morale agli ideali istintivi delle masse. Tuttavia anche il “pensiero scientifico cosciente” derivava dall’istinto, anche se oltrepassava il livello inconscio, diventando logico e verificabile. Tkačëv accusava Bakunin di ipocrisia e di incoerenza, perché egli stesso era parte di una minoranza intellettuale. Bakunin oscillava tra l’ “idealismo metafisico” e il “grossolano realismo della vita d’ogni giorno”: da una parte Bakunin si faceva affascinare dal canto della sirena metafisica, per cui era indotto a credere che nel popolo viveva l’eterno ideale dell’anarchia, “l’ideale del dominio pieno e assoluto dell’ ‘io’ fichtiano”; dall’altra il “realismo grossolano” spazzava via i “castelli di carte della metafisica”. Nel saggio De Profundis (pubblicato nel 1918 nell’omonima raccolta curata da Struve), Semën Frank affermava che la rivoluzione del 1917 era il grado zero dell’arché e dell’anarché in Russia: il processo di dissoluzione dell’autocrazia e l’affermazione del nichilismo anarchico, che si erano manifestati in “forma vistosa” per tutto il XIX secolo, avevano trasformato la Russia in niente. L’arché autocratico, che per secoli era stato al potere, era destinato ad essere sostituito dall’ideocrazia un simulacro di arché originato dalla tabula rasa, perché aveva manifestato la propria impotenza e aveva perduta irreversibilmente il proprio influsso. Il conservatorismo russo si basava su una “causa spirituale originaria”, su una serie “di antiche abitudini di sentimento e di fede, sul costume tradizionale, in una parola su forze di inerzia storica, ma da tempo aveva perso le radici vive spirituali e morali del proprio essere e non sentiva la necessità di rinsaldarle nel paese, o perlomeno non capiva la responsabilità e complessità di questo compito, tutta l’indispensabile organicità di approfondire queste radici nell’anima popolare”. L’autocrazia, secondo Frank, poggiava sulla fede religiosa e su una “ideologia politico-nazionale”, ma si era indebolita e autoevirata con la sua miscredenza verso la “forza viva della creatività spirituale”. L’autocrazia aveva affidato la propria sopravvivenza alla violenza bestiale delle “centurie nere”. La rivoluzione del 1917 aveva rivelato la simultanea degenerazione nichilista dell’arché e dell’anarché: il dispotismo squadrista delle classi superiori e l’anarchismo squadrista delle classi inferiori rappresentavano la medesima “forza del male” . La rivoluzione mostrava l’affinità elettiva tra il conservatore e il rivoluzionario: in entrambi si manifestavano “un’eguale incomprensione dei fondamenti spirituali organici della convivenza, un’eguale simpatia per le misure meccaniche della violenza esterna e delle punizioni recise, un’eguale simbiosi di odio per le persone vive e di idealizzazione romantica delle forme e partiti politici astratti”. Il veleno del rivoluzionarismo era stato prodotto dalla dissoluzione e dalla putrefazione dell’arché. Dal punto di vista filosofico-sociale, l’arché, secondo Frank, doveva fondarsi sullo “sviluppo organico della cultura spirituale”, partendo dalle profonde radici storiche della “concezione religioso-sociale popolare”: come aveva intuito Dostoevskij, l’arché doveva essere radicato nella počva (suolo natale). Secondo Dostoevskij, l’anarchismo e il nichilismo cercavano un inedito e fantasmagorico arché nello sradicamento, nel nihil. Per Dostoevskij, i gesuitici costruttori del “partito rivoluzionario” erano degli “ambiziosi politici” che, dietro la maschera dell'utopia socialista, nascondevano un'inestinguibile sete “d'intrigo e di potere”: animati da una illimitata volontà di potenza, essi aspiravano a diventare “piccoli papi” e “zar”. Dostoevskij ha posto in luce il volontarismo e la spietata consequenzialità dell’ “uomo russo negativo”, l’uomo che “non ha pace e non sa accontentarsi di nulla di ciò che sussiste”. Per Dostoevskij, il nichilismo inizia con l’isolamento del singolo dalla comunità e può diventare “eruzione” di nichilismo attivo come nel caso di Raskol’nikov in Delitto e castigo. Nella sua “camera-tomba” Raskol’nikov (il “Separato”) formula la sua idea-teoria che è una
sorta di estetica dell’arché basato sul terrore. Agli “uomini straordinari” (come Napoleone e Maometto), secondo Raskol’nikov, tutto è permesso e possono imporre un nuova tavola delle leggi, sovvertendo tutti i valori tradizionali e “venerati” e distruggendo il “presente”. Mentre gli “uomini ordinari” servono unicamente a procreare esseri simili a loro e vivono nell’obbedienza, quelli straordinari sono dei “delinquenti” pronti a infrangere tutte le leggi: il loro scopo è la “guerra eterna” fino alla “Nuova Gerusalemme”. Per Dostoevskij, diversamente dal populismo socialista e umanitario, il nichilismo non era solo un fenomeno socio-politico, ma anche filosofico-metafisico, espressione di un’epoca di negazioni delle convinzioni fondamentali. I nichilisti non erano “fanatici filantropi”, ma una nuova razza di dominatori che cercava una soluzione “dispotica e fantastica” per affermare il proprio potere. La nuova razza di dominatori, attraverso una serie di epurazioni e rigenerazioni, avrebbe ricondotto la massa all’innocenza primigenia al “paradiso primordiale”. Il Catechismo del rivoluzionario di Nečaev (insieme a Che fare? di Černyševskij) è stato annoverato tra il “patrimonio stabile della rivoluzione russa” ed è, perciò, una delle scaturigini del leninismo. L'organizzazione “sognata” da Nečaev si materializzerà nel partito bolscevico, così come è descritto da Lenin in Che fare?. Per Lenin, i bolscevichi erano un “piccolo gruppo compatto” che incedeva per gli impervi sentieri della cospirazione rivoluzionaria e, circondato da ogni parte da nemici, doveva camminare “sotto il fuoco”. Modellandosi idealmente su un nemico polimorfo intento ad ordire trame, il partito bolscevico, secondo Lenin, doveva organizzare un “controcomplotto” di intensità e di estensione totale, fino alla rivoluzione mondiale. Nel suo versante nichilista, la rivoluzione russa (da Nečaev a Lenin), come la “guerra eterna” (e civile) di Rakol’nikov, ha inteso annichilire e atterrire e si è configurata come una “purificazione” nichilistico-apocalittica, un itinerario nel nulla condotto fino alle sue estreme conseguenze, fino all’autofagia di quella simbiosi antitetica di arché e anarché che ha dato origine allo Stato anarchico, alla fantasmagorica Russia sovietica.

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