mercoledì 4 dicembre 2013

LA DUPLICE EQUAZIONE PER IL SIMBOLO DELL’ETERNO RITORNO: L’EQUAZIONE ANTROPOLOGICA



 L’uomo moderno viene caratterizzato da Nietzsche in generale come qualcosa « che non sa da che parte volgersi », giacché non ha più alcuno scopo su cui poter progettare la propria vita. Per questa ragione la dottrina del ritorno vuole essere un « progetto di un nuovo modo di vivere ».
 Noi siamo gli « eredi e gli sperperatoti di millenni », ma senza una determinata volontà di futuro, senza un nuovo « a che scopo » e « in quale direzione ». Tutte le determinazioni di valore finora invalse sono annientate, giacché i nostri valori, scopi e fini, che scaturiscono dalle più diverse tavole di valori della storia umana, si indeboliscono reciprocamente e si annientano. La modernità è ammalata giacché non ha più nessun sì e nessun no e non sa più dove indirizzare il proprio coraggio.
 « Una tempesta era nella nostra aria, la natura, che noi siamo, si andava ottenebrando — giacché non avevamo alctma via. Formula della nostra felicità: un Sì, un No, una linea retta, una meta »  — quindi in nessun caso un ruotare senza meta che periodicamente ritorna in se stesso.
 Un siffatto « nuovo a che scopo » non si dà autonomamente, esiste sempre e soltanto se l’uomo se ne dà uno. « Tutte le mete sono annientate. Gli uomini devono darsene una. Fu un errore credere che essi ne avessero una: se le sono date tutte. Ma i presupposti per tutte le mete precedenti sono annientati ». A questa visione della modernità Nietzsche oppone l’« idea » dell’eterno ritorno.
 Le mie innovazioni. Le mie innovazioni. Sviluppo ulteriore del pessimismo: [...]
1) Il mio sforzo contro il decadimento e l’indebolimento crescente della personalità. Cercavo un nuovo centro.
2) Riconosciuta l’impossibilità di questo sforzo.
3) Poi proseguii sulla strada della dissoluzione, — vi trovai nuove sorgenti di forza per i singoli. Dobbiamo essere distruttori! — Compresi che lo stato della dissoluzione nella quale i singoli possono perfezionarsi coinè non mai — è un’immagine e un caso singolo dell’esistenza universale. [...] Al sentimento paralizzante della dissoluzione universale e del non compimento contrapposi l’eterno ritorno.

 Esso deve dare all’umanità una meta che superi l’attuale condizione umana, ma non in un « retromondo » dell’aldilà, bensì nella prosecuzione dell’umanità stessa. L’uomo in quanto tale deve essere elevato oltre se stesso, questo è il senso umano del « sovrauomo» , partendo dal quale Nietzsche insegna l’eterno ritorno e della « nuova determinazione di valore » della Volontà di potenza.
 In tal modo l’uomo diviene « Signore della terra » e legislatore del futuro in un nuovo mondo umano, ordinato per rango e potenza. «
 Chi deve essere il signore della terra? Questo è il refrain della mia filosofia pratica ». Nietzsche riconosce la « profonda sterilità del XIX secolo » nel fatto di non aver ancora mai incontrato un uomo che fosse realmente portatore di un nuovo « ideale ». Egli paragona la nostra epoca alla cultura alessandrina, che sarebbe andata in rovina perché « non fu capace, nonostante tutte le sue utili scoperte, [...] di dare a questo mondo e a questa vita l’ultima importanza ».
 Questa decadenza dell’esser uomo dovrebbe essere guidata in modo tale « che ne sortisca qualcosa ». Da tutto ciò consegue il senso storico-umano, antropologico della dottrina dell’eterno ritorno come un supremo « centro di gravità etico » su una volontà divenuta senza meta di un’esistenza divenuta « fuggevole ». Essa deve far cadere sulla modernità l’« accento più grave », cioè quello della responsabilità per il futuro, non deve però sgravare l’esistenza e condurla all’innocenza per mezzo di una « irresponsabilità resa positiva ». Da quando la fede religiosa è in declino, ci si chiede:
 «Come possiamo dar peso alla vita interiore? ». E la dottrina del ritorno, quale idea « grave » ed « educativa », deve ridare peso  all’esistenza dell’uomo, attraverso l’imperativo categorico: vivere in ogni momento in modo tale che lo si possa sempre volere di nuovo a ritroso. Essa vuole riplasmare, per mezzo di una nuova-destinazione degli affetti umani, la nostra immagine dell’uomo, e il suo modello è Zarathustra che è il tipo supremo di un uomo altamente disciplinato che comanda a se stesso. In lui si rappresenta l’immagine già in precedenza disegnata di un’« elevazione dell’uomo »; uomini che si siano elevati superando se stessi ci sono infatti già stati una volta: nell’antichità e nel Rinascimento.
 Nel mondo moderno sono Napoleone e Goethetali uomini più che « umani ».
 Quale contrappeso alla « modernità » del cristianesimo decaduto, la dottrina del ritorno è dunque un’idea pensata storicamente e rivolta, secondo la sua destinazione, al futuro dell’uomo europeo.
 Essa fa la sua comparsa quando si tratta di decidere per tutta l’Europa e per ogni individuo se si voglia scendere fino all’ultimo uomo o salire fino al superamento dell’uomo. La dottrina del ritorno scatena il nichilismo latente che viene dalla morte di Dio. Essa pone « Tutti e Nessuno », vale a dire ogni individuo, davanti alla coerenza della decisione « se la sua volontà ” voglia ” tramontare », se l’uomo europeo voglia in generale ancora esistere. Come un tale autaut essa decide l’ambiguità indecisa presente nell’esistenza della modernità.
 La dottrina del ritorno non è perciò affatto una dottrina di qualcosa che è necessariamente e semplicemente così e non altrimenti, bensì vuole insegnare qualcosa con la «tendenza »: creare con un nuovo scopo nuovi orizzonti in accordo con il carattere fondamentalmente sperimentale della filosofia di Nietzsche.
 Essa è un « martello » plasmatore nelle mani dell’uomo più potente, che è tale perché ha superato in se stesso la volontà di nulla. E quale « filosofia del martello » essa vuole giungere all’eternizzazione di questa esistenza, di contro al suo svanire nell’attività tecnica dell’esistenza.
 Essa vuole potenziare questa esistenza finita fino a farle raggiungere un « significato » eterno. «
 Quell’imperatore teneva sempre presente la caducità di tutte le cose, per non prenderle troppo sul serio e per mantenere la calma in mezzo ad esse. A me sembra al contrario che tutto abbia troppo valore per poter essere così fuggevole; io cerco un’eternità per ogni cosa ». La dottrina è ciò che essa può « significare » per l’uomo, giacché ciò che essa insegna non è affatto una verità teoretica, bensì un postulato pratico.
 « Vivere, in modo tale che tu debba desiderare di vivere di nuovo, questo si deve ». Il ritorno non è dunque un evento che si realizzerà nell’immediato futuro, ma neppure un tornare sempre-di- nuovo dell’identico, bensì una volontà di palingenesi, di una « vita nuova »; infatti « ad ogni istante la nostra missione si fa più vicina a noi », e noi dobbiamo « mirare » all’eternizzazione di questa esistenza. Questa vita « deve » esserela tua vita eterna . « Poter sopportare la nostra immortalità: — questo sarebbe il massimo ». Il primo « risultato » di questa dottrina deve essere quindi: « un surrogato della fede nell’immortalità ».
 L’idea dell’eterno ritorno, se tollerata, accresce la buona volontà verso la vita, sbarra le vie di fuga finora esistenti, tanto verso l’aldilà del retromondo quanto verso il nulla e la cieca mondanizzazione dell’uomo che non si pone più domande.
 Con essa si deve superare la « scepsi assoluta », che ha scoperto che: « nulla è vero, tutto è permesso », e la cui prassi abituale è il lasciarsi andare. Di fronte a questa si deve avere il coraggio di addossarsi l’onere di desiderare e di volere che tutto ritorni sempre alla stessa maniera.
  L’intera dottrina ‘ sembra così soprattutto un esperimento della volontà umana e, quale tentativo di eternizzazione del nostro operare, un vangelo ateistico. « Imprimiamo il suggello dell’eternità sulla nostra vita! Questa idea contiene molto più di tutte le religioni che disprezzano questa vita perché fuggevole, e insegnano a volger lo sguardo verso un’altra vita indeterminata ». Questa dottrina, trasformando il « tu devi » della fede cristiana divenuto estraneo nel « tu devi » proprio di un « io voglio », acquista il carattere di una legislazione e di una religione autonomamente costituite.
 Il tempo dell’eterno ritorno non è perciò 1′ « eterno presente » di un circolo senza meta, in cui il passato ancora sarà e il futuro già fu, bensì il tempo futuro di una meta, che libera dal peso del passato e nasce dalla volontà di futuro . L’« Eternità » non ha allora il senso di un :eterno ritorno dell’ identico, ma è la meta voluta di una volontà dì eternizzazione.
 Sulla base del suo carattere educativo la dottrina di Nietzsche potrebbe intendersi soggettivisticamente come una « finzione », nel senso del « come se » esistesse»un — oggettivo — ritorno.
 Questo carattere rivela tuttavia .saio un lato, quello antropologico, di questa dottrina, senza considerare il rovescio mondano che le è proprio e che si è già potuto cogliere nella serie degliaforismi finora citati. Laddove si afferma: « La mia dottrina dice: vivere in modo tale che tu debba desiderare di vivere di nuovo, questo si deve », dopo °0n tratto di sospensione, che denuncia in realtà un’interruzióne nel corso dei pensieri, segue: « lo farai in ogni caso! ».
 Sull’idea dell’eterno ritorno, con accenti diversi ma d’identico significato, Nietzsche scrive il 10 marzo 1884 a Overbeck: « Se essa è vera o piuttosto: se viene’ ritenuta vera, allora tutto muta e si volge, e tutti i valori sinora invalsi sono svalutati ». Come si può però credere, desiderare e volere qualcosa che per l’immutabilità della sua fatalità esclude e rende superfluo ogni volere, desiderare e credere?
 « Ma, se tutto è necessario, in che misura posso disporre delle mie azioni? ». Il pensiero e la fede sono un grave fardello che preme su di te, accanto a tutti gli altri pesi, e più di essi. Tu dici che cibo, luogo, aria, compagnia ti trasformano e determinano; ma le tue opinioni lo fanno ancor più, infatti queste ti determinano a tale cibo, luogo, aria, compagnia. — Se assimili il pensiero dei pensieri, ti trasformerai. Se per ogni tua azione ti domandi: «È ciò qualcosa che io voglia fare infinite volte? » — questa domanda è il più grave fardello.
 E ancora nello stesso senso:
 Analizziamo quale effetto abbia avuto fino ad oggi l'idea che qualcosa si ripete (l’anno ad esempio, oppure malattie periodiche, il sonno e la veglia etc.). Anche se la ripetizione-circolare è solo una probabilità o una possibilità, anche l’idea di una possibilità ci può scuotere e trasformare, non solo sensazioni e determinate aspettative! Quale effetto ha avuto la possibilità della dannazione eterna!
  
 Il fatto che già la semplice idea di una possibilità possa « avere un effetto », non elimina però la differenza tra un ritorno reale (del tipo notte e giorno oppure sonno e veglia) e un ritorno pensato solo come possibile. Se al contrario fosse certo che in ogni caso tutto ritorna, la pretesa di vivere come se… perderebbe ogni senso ragionevole. Anche l’attesa di un evento futuro unico, come il giudizio universale, non sconvolgerebbe né trasformerebbe l’uomo se il credente non fosse certo del fatto che qualcosa del genere avverrà realmente.
 La dottrina di Nietzsche contiene però proprio questo inconciliabile doppio- significato di un postulato pratico morale e di una determinazione teoretica, anche in rapporto a se stessa: la dottrina nietzscheana insegna ponendo un imperativo e al contempo un sapere insegnabile, secondo cui tutto ritorna esattamente così com’è: « Sirio, il ragno e i tuoi pensieri in quest’ora e questo tuo pensiero che tutto ritorna ».
 Da questo secondo senso cosmologico risulta un controsenso di fondo nell’insieme della dottrina del sovra-uomo. Infatti, se la vita dell’uomo viene continuamente capovolta come una clessidra e l’esistenza umana, con tutti i suoi pensieri, è solo un anello nel grande anello dell’eterno ritorno di tutto l’essente, che senso avrebbe allora voler ancora andare oltre se stessi, volere un futuro europeo, « volere » in generale qualcosa? Questa contraddizione emerge con ancora maggiore evidenza quando Nietzsche sviluppa il primo senso come imperativo etico e il secondo come teoria scientifica.

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